Sembrano escrescenze naturali, gocce prodotte dal mattone antico e muffito. Penzolano ad altezza uomo, inghiottono il gourmet in gole fredde e buie pervase dall’alito del Po. Signore e signori ecco a voi i culatelli di casa Spigaroli, quando il maiale fa rima con regale.

Siamo nell’Accademia del salume a Polesine parmense, nel Mondo piccolo di Giovannino Guareschi, a 38 chilometri da Parma. Qui dove il Grande fiume è ventre materno e alimenta la sapienza secolare dell’uomo, da tre generazioni la famiglia Spigaroli fa culatelli e prosciutti e salami, vini e mostarde, Parmigiano Reggiano, Strolghini e marmellate nelle cucine dell’Antica corte Pallavicina. Giù nelle cantine del 1300 i culatelli – in particolare – gonfiano le pareti, formano cunicoli dove sarebbe facile perdersi se Massimo Spigaroli – il cuoco agricoltore – non fungesse da filo d’Arianna mostrando la strada ai visitatori. Svolta a destra, in fondo dritti, poi a sinistra e ancora a destra: panico, il rischio è di smarrirsi in una magnifica grotta di stalattiti di suino, che qui restano a stagionare 24 mesi almeno, a prendere l’umido e la muffa del Po.

In un anfratto poi, solitaria, una lavagna a gesso affissa ad un esemplare grosso e bello riporta la scritta: “S.A.R Principe Carlo”. Anche sua Altezza reale il Principe Carlo d’Inghilterra, infatti, manda qui ad asciugare i suoi culatelli. “Nel caso del Principe – spiega Spigaroli – alleviamo direttamente dei maiali scelti da lui, poi produciamo e facciamo stagionare i salumi”. Accanto alla lavagnetta del futuro re d’Inghilterra ce ne sono altre, ciascuna con nomi di lustro. Così quella con scritto “Armani” per esempio. Intanto, un refolo freddo e nebbioso giunge dalle finestre lasciate perennemente aperte sotto la linea di scorrimento del Grande fiume.

Il Po infatti in quest’angolo di Bassa padana vola, corre in alto e incombe sull’aia dell’Antica corte: siamo sotto il livello del fiume, in area golenale. L’argine maestro è a poche decine di metri, i filari di pioppi fanno merletti sulla linea dell’orizzonte.Qui già i marchesi Pallavicino producevano salumi da mandare ai duchi Sforza di Milano. Massimo e Luciano Spigaroli hanno attualizzato la favola, rimesso a nuovo il podere, titrato fuori la bellezza medievale del mattone, ricollocato al posto giusto gli arnesi del mestiere contadino. Poi hanno aperto un ristorante, il Cavallinio bianco, e un relais.

L’azienda col nome di famiglia nacque con il loro nonno, mezzadro e poi affittuario, ex fattore del maestro Giuseppe Verdi. Un ponte d’accesso all’edificio sormonta un fossato dove l’erba dolce e turgida di certe giornate di primavera riflette la luce del Po come un prisma. Anatre e cavalli sono presenze normali. I pavoni sono sirene che indicano la strada al visitatore, che in genere lascia l’automobile qualche centinaio di metri indietro. Dentro, un focolare d’inverno e il profumo della terra in estate danno il benvenuto nel salone adibito – anche questo – a ristorante.

Su una lunga tavolata Massimo e Luciano, con i loro collaboratori, predispongono ogni ben di Dio prdotto secondo l’antico sapere. Ecco il re indiscusso, il culatello di Zibello marchiato Dop degli Spigaroli, noto ovunque nel modo, fatto con la parte alta del suino da ottobre a febbraio e stagionato fino a 24 mesi. Oltre la soglia dei due anni si schiude nelle cantine pallavicine l’Oro Spigaroli della cosiddetta “riserva dimenticata”: culatelli Dop, con presidio Slow Food, lasciati ad asciugare anche 40 mesi. Unici, poi, quelli realizzati con la qualità sopraffina del Maiale nero: gusto pieno e assai robusto.

E poi ecco il Fiocco di culatello, parente povero ma gustoso, la Coppa lunga della Bassa parmense, lo Strolghino di culatello che è un’invenzione unica di queste terre: salame fatto con la pasta del “re”. Quindi avanti con i salami tutti: il Cresponetto nel suo budello grasso da 60 giorni di stagionatura, il Gentile da 90, il Mariola detto “salame estivo” dal leggero aroma d’aglio e la pasta tritata fine. Poi certo, non può mancare lui: il Crudo di Parma che qui però matura – ovvio - in simbiosi proprio con il culatello, nel cantine dove le muffe del “cugino” prestano al Crudo talenti e virtù. E a far da corona alle carni, i formaggi. Si fa presto a dire Parmigiano Reggiano da Spigaroli.

Quattro sono infatti le qualità di “grana” all’Antica corte: il Parmigiano di pianura, quello di collina, quello di montagna e quello prodotto da vacche rosse. Più si procede in direzione di montagna e vacche rosse più la pasta diventa grassa e morbida. Infine i vini, dal Fortana resuscitato proprio dagli Spigaroli al Lambrusco “bruschetto” come i vini di una volta, fino allo “champagne” nostrano Strologo. E dopo l’antipasto (sì, era solo l’antipasto!) tutti giù, di nuovo, nelle cantine per una cena riservata alla luce delle candele dove due anni fa – per un esperimento probabilmente unico – Massimo Spigaroli schiuse una forma di Parmigiano Reggiano lasciato a invecchiare la bellezza di anni 19, mica mesi. Un brindisi finale, dunque, nel ventre del Po con un pensiero di profonda gratitudine a lui, il vero “migliore amico dell’uomo” da queste parti: il porco.