Oggi voglio portarvi a fare un viaggio in Umbria con un bicchiere di vino in mano, attraverso i passi della storia che sta facendo grande e importante la nostra regione nel panorama vinicolo italiano.
Sorta un po' in sordina dalle ceneri di una secolare mezzadria che se da un lato ha caratterizzato il paesaggio, dall’altro ne ha impoverito le strutture economiche rurali, l’Umbria è sempre stata una regione un po’ a sé, velata, schiva, si lascia scoprire piano piano, legata ancora in modo forte ai sentimenti autentici e radicati alle proprie origini, ai propri valori; a detta di alcuni storici: è una regione “inventata”, tra Toscana, Marche, Lazio, territori grandi, importanti che si affacciano sul mare. La sua storia l’ha vista sempre divisa, fin dall’antichità, tra Umbri, Etruschi, per non parlare del dominio romano, che non ha saputo togliere a queste popolazioni la loro fierezza e il loro carattere che ancora vive tra la gente, nei borghi. Se l’Umbria non esisteva, per fortuna che è stata inventata.
È in tutto questo che oggi è immersa la viticoltura: Agri-Cultura, apostrofava sempre con soddisfazione Melelli, il mio prof. di geografia all’università. Così, ho gettato uno sguardo a quella che è stata la viticoltura umbra a partire dal dopoguerra tra difficoltà e novità. Non mancano studi e ricerche nei territori, il vino ha avuto un miglioramento in qualità che si riconosce in tutto il mondo grazie a pochi uomini che hanno creduto nella terra, nelle radici e che soprattutto, hanno guardato oltre il loro tempo, in una prospettiva che per quei tempi era quasi impensabile in Umbria.
Il vino era quello del contadino, genuino, prodotto in modo artigianale, ancestrale, prendendo quello che la stagione dava. Il vino era un alimento, un corroborante, serviva a dare energia agli operai, ai contadini. Già nel 1949 troviamo un gruppetto di produttori di uve, alcuni dei quali ancora oggi producono vino, la cui qualità è innegabile. Già allora l’enologia Toscana era di alto livello, veniva da un secolo precedente, l’800 in cui già si era fatta le ossa e i suoi vini erano rinomati e conosciuti da tempo. Sono stati i confronti continui con questa regione che hanno aperto nuove prospettive, nuove visioni, ma il cammino era lungo. Alla dispersione agraria, si legava una dispersione di produzione, dove il sangiovese predominava su alcune uve e vini strettamente locali.
Il Sagrantino solo Passito era già un prodotto di nicchia, presentato alle diverse esposizioni regionali e nazionali, ritroviamo alcuni nomi ancora oggi noti: Alessandrini, che era anche un attento produttore di Trebbiano Spoletino; Pambuffetti, Pardi. Ma c’era anche chi come Angelo Camilli, di Montefalco produceva il Trebbiano spumante. Chissà se esiste ancora qualche bottiglia dimenticata in cantina. Esistevano anche i Colli Eugubini, poi dimenticati tra le pieghe della storia per un’agricoltura rivolta ai cereali nobili.
Ma ancora l’Umbria era orientata verso la grande quantità e i vini erano quelli considerati da pasto comuni, insomma, occupavamo gli ultimi posti delle classifiche a causa di fattori contingenti naturali, culturali e storici. In un vigneto venivano piantate una grande varietà di viti, con le diverse maturazioni sopperivano ad annate non favorevoli, ma al momento della raccolta spesso si pigiava tutto insieme; la campagna aveva il classico volto delle viti maritate e non specializzate; a questo va aggiunto l’esodo agricolo post mezzadrile, frettoloso e disordinato da parte dei contadini e mezzadri, con una polverizzazione delle terre in piccole proprietà, ma anche una ricompattazione delle grandi tenute.
Negli anni ‘60 iniziano a delinearsi geograficamente le aree di produzioni vinicole nella regione, che all’incirca coincidono con quelle attuali. I vignaioli fanno sempre più attenzione alle varietà coltivate e a dare vita a vigneti sempre più specializzati; migliorano le tecniche agronomiche e si pone maggiore attenzione sia in vigna che in cantina. Insomma, inizia a farsi un po’ di ordine e nascono le prime cantine sociali. Ma la cosa più importante è che si inizia a porre sempre maggiore attenzione al territorio, si guarda alla Francia vinicola come luogo di qualità; il legame con la tradizione porta a valutare in modo diverso le uve in alcuni territori. Si attuano le prime scelte importanti, che decreteranno il futuro.
È in questo contesto che Giorgio Lungarotti rivoluziona tutto un mondo, e il suo lavoro non è passato di certo inosservato. Innamorato dei vini di Bordeax, ha portato in Umbria varietà, tecnologie e metodi di coltivazione per alzare la qualità dei vini che già produceva, dandogli una vera e propria spinta internazionale. Lungarotti ha valorizzato il vino creando un forte legame con il territorio e con la storia, è stato il primo ad adottare dei disciplinari ben specifici. Insomma, un cambiamento radicale nel panorama enologico regionale, ma anche in quello mentale e culturale. La necessità era quella di cambiare i tradizionali sistemi di allevamento della vite e uscire dal retaggio anacronistico che non riusciva a portare la qualità se non in rari casi.
Nel 1964 furono inaugurate le Cantine Giorgio Lungarotti; nel 1968 arriva finalmente il disciplinare di produzione dei vini DOC Torgiano bianco e rosso. Fu così che il piccolo borgo ebbe una scossa e divenne il primo Terroir nel cuore dell’Umbria. Un cuore vero e proprio alla confluenza di due importanti fiumi, il Chiascio che si getta nel Tevere. Il 1971 è l’anno del primo Vinitaly, ma la mente imprenditoriale porta Giorgio ad ideare a Torgiano un banco d’assaggio di vini nazionali, una vera novità. Ma ancora questi sono gli anni in cui Veronelli descrive la regione come dominata dal vino dei vignaiuoli un po’ sonnolenti.
Gli anni ’70 iniziano ad evidenziare, piano piano un fermento particolare nel mondo del vino umbro, e lo racconta in seguito anche Soldati. La ricerca che muove i due è sempre la stessa: un vino del contadino che sia genuino e piacevole. Lo trovano grazie all’uso di uve Cabernet, Merlot, Barbera; insomma, varietà che nei decenni precedenti erano state consigliate dai consorzi e dalle scuole agrarie. Tutto iniziava così a dare buoni frutti.
Bisognava solo prendere confidenza con quelle che erano le DOC e le DOCG, ancora in corso di definizione a livello nazionale. Un salto di qualità che vede messa da parte la necessità per andare in contro al piacere, sì, ma degli italiani.
Anche la viticoltura umbra si adegua, ad un gusto predominante, e ad un mercato sempre più forte e importante, mostrando in modo inequivocabile l’aumento della superficie vitata specializzata. Ma il settore è diviso tra un pulviscolo di piccole aziende e poche grandi imprese, e sono queste ultime che hanno anche la fortuna economica.
È in questi anni che, forti del successo delle cantine Lungarotti, sia Domenico Adanti e che Arnaldo Caprai iniziano l’avventura del Sagrantino a Montefalco. Fino ad allora questo era il vino della famiglia, delle feste, vinificato dolce a causa della sua tannicità prepotente. Uva coltivata solo nel comune di Montefalco, in piccoli territori, spesso all’interno delle mura. Vino sacro, delle cerimonie ecclesiastiche. Le basi da cui partivano erano poche e frammentate; il vitigno era utilizzato per dare corpo, struttura, colore, alcol ad altri vini; il vitigno scontroso è caratteristico solo di un determinato areale; ma la materia prima è eccellente. Sia Adanti che Caprai ne intuiscono le potenzialità, in un panorama che già era cambiato e continuava ad evolversi.
Così, è verso la metà degli anni ’80 che viene approvato il disciplinare del Sagrantino di Montefalco DOCG e del Montefalco Rosso.
Nello scenario enologico, in modo particolare Caprai viene visto come il padre del Sagrantino; Marco Caprai ha saputo leggere in chiave moderna la tradizione di questo vino fortemente legato alla storia del territorio. La sperimentazione è stata e tuttora è continua, ha aperto scenari che varcavano i confini nazionali, non solo regionali.
Gli anni ’80 si chiudono con una crisi del settore a causa dello scandalo del metanolo. Fatto che ha portato ad una nuova visione e nuove prospettive legate al vino di qualità, alla sua stretta relazione con il territorio di origine, con le tradizioni e con le persone che nel territorio vivono e lavorano. Cambiamenti sociali hanno portato ad una contrazione dei consumi, ma nello stesso tempo i mercati si sono ampliati e per tutti la scelta è sempre la stessa: il consumo di vino va a vantaggio della ricerca della qualità. Si disperde l’immagine bucolica del contadino che produce vino genuino con gli attrezzi tradizionali.
In questi anni, Marchesi Antinori, produttori di vino da oltre tre secoli, a pochi chilometri da Orvieto, danno vita al Cervaro della Sala, nella tenuta del Castello della Sala. Si delinea un altro Territorio umbro, e un altro vitigno. In questo vino l’internazionale Chardonnay conquista il territorio grazie alla fusione con il tradizionale Grechetto, per raggiungere eleganza e complessità che vanno a rivaleggiare con i grandi nomi sia francesi che americani. Grazie all’intuito dell’enologo Cotarella e la supervisione di Tachis, il Cervaro è uno dei primi vini a svolgere la fermentazione malolattica e l’elevage in barriques per un vino bianco da invecchiamento. Insomma, nomi di rilievo per un vino che porta il nome dell’Umbria nel mondo intero, in tavole di appassionati e intenditori come anche di curiosi che attraverso un buon bicchiere di vino cercano di scoprire un territorio la sua storia.
Ma la storia che arriva fino ad oggi a noi è molta e piena di tante cantine, nuovi vigneti, vignaioli; è fatta del recupero di terre e della scelta precisa di mantenere le tradizioni, i legami col territorio e quelli familiari, attraverso le varietà che da sempre crescono tra queste terre; ma con la precisa coscienza dei nuovi scenari mondiali ed ecologici.