Spessissimo i Romani riuniti a tavola evocano immagini di pantagruelici banchetti dove si consumano quantità inimmaginabili di cibo, dove l’atmosfera è (a dir poco) festaiola, con donne e uomini di più o meno facili costumi, schiavi, risate, giochi, risa e quant’altro. Se indubbiamente queste erano le serate che potevano trascorrere i potenti in alcune occasioni, il resto della popolazione in tutto l’Impero era molto lontana dal banchettare così. Solo una minuscola percentuale di chi abitava a Roma e in altre regioni dell’Impero poteva permettersi di cenare in questo modo. Le grandi abbuffate che si vedono nei film di Hollywood, dove imperatori, cortigiane, buffoni di corte, senatori, saltimbanchi, musicisti, schiavi che servono portate gigantesche o animano le scene, rispecchiano una realtà molto elitaria e che non coinvolge tutto il mondo romano.

In più, immagini di questo genere non sono assolutamente applicabili alla stragrande maggioranza dei Romani per cui la cena rappresentava sicuramente un momento di convivialità ma da vivere con la propria famiglia, con gli amici o in piccoli gruppi. I kolossal e le grandi produzioni cinematografiche del passato hanno cristallizzato l’immagine dell’antico Romano come di colui che, indipendentemente dallo status sociale, era solito mangiare sempre così. Niente di più falso. Anche l’uva che compare quasi sempre nelle scene dei banchetti, molto probabilmente, benché certamente consumata, forse non era così tanto frequente visto che era parecchio acidula rispetto a quella che mangiamo oggigiorno.

Ad accrescere il mito dell’antico Romano che cenava sempre in questo modo ci fu anche un’opera letteraria che ha avuto un enorme successo: il Satyricon di Petronio. Scritta nel I secolo d.C. probabilmente da Tito Petronio Nigro, personaggio influente alla corte di Nerone e soprannominato arbiter elegantiae (“arbitro d’eleganza”), si basa sulle avventure di tre personaggi, Encolpio, Gitone e Ascilto, e riporta la più celebre descrizione di un esagerato banchetto romano: è la famosa cena Trimalchionis, a casa del liberto Trimalcione che, da schiavo liberato qual era, come tanti altri liberti nelle sue condizioni, grazie alle doti imprenditoriali era diventato ricchissimo e, con la cena, fa sfoggio della sua sopravvenuta ricchezza.

In questo banchetto fanno mostra di sé prugne siriane, ghiri, uova di pavone, beccafichi, tordi che escono dal fianco di un cinghiale, salsicce e sanguinacci che vengono estratti come per magia dal ventre di un maiale... È il trionfo di quello che noi oggi chiameremmo “cattivo gusto” e che all’epoca, specialmente durante il principato di Nerone (54-68 d.C.), raggiunse il suo culmine. Era quello un periodo di grande splendore per Roma e in città affluivano, a seguito della domanda crescente e del gusto che si andava diffondendo, cibi sempre più esotici o rari. In età imperiale la provenienza esotica di un alimento, insieme al suo costo elevato, era la misura per stabilirne la qualità.

Ai tempi di Nerone era passato poco meno di un secolo dal periodo che segnò la svolta degli usi alimentari dei Romani e che si colloca tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’età imperiale. Dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), grazie alla quale Ottaviano (poi alcuni anni più tardi chiamato “Augusto”) rimase l’unico incontrastato dominatore dell’Impero avendo posto fine alla guerra civile, Roma iniziò sempre più frequentemente a commerciare con l’Egitto e l’Oriente. A partire da quegli anni, quindi, cominciarono ad affluire nell’Urbe, e non solo, cibi provenienti da molti paesi sconosciuti. Da questo momento, lentamente, l’alimentazione passa dall’essere un’esigenza solo fisiologica (mangio per sopravvivere) a un piacere (mangio non solo per nutrirmi ma anche per piacere).

Fu quello il momento in cui si introdussero molti prodotti nuovi e i grandi chef del passato iniziarono a sbizzarrirsi creando ricette originali e sempre più complicate. Durante il principato di Nerone, l’Impero era prossimo a raggiungere la sua massima estensione (cosa che accadde sotto Traiano una cinquantina d’anni dopo) e la grande organizzazione logistica insieme ai commerci sempre più sviluppati e al gusto che evolveva portarono alla richiesta di cibi ancora più stravaganti e raffinati.

Tutto questo condusse a una sorta di decadimento dei costumi anche per quanto concerne la tavola. Ma fu un fenomeno che riguardava solo i ricchi e i potenti... il resto della popolazione non si nutriva certo in questo modo e soprattutto non poteva permettersi di sborsare cifre colossali per acquistare né tantomeno pagare chi poteva cucinare alimenti così particolari e costosi. I banchetti esagerati, che tanto spazio hanno ancora nell’immaginario collettivo, erano appannaggio solo di pochi fortunati e potenti.

A Roma e in tutte le città dell’Impero, in linea di massima, la popolazione faceva tre pasti al giorno. Si iniziava la mattina, esattamente come facciamo noi oggi, con la prima colazione (ientaculum) che poteva includere, a seconda della disponibilità della propria mensa, pane, focacce, formaggi vari, ricotta (come attestano alcuni affreschi pompeiani), uova, alici, olive, latte, carne e, per i bambini, molto spesso dei biscotti dolci. A differenza di una buona parte degli italiani di oggi abituati a mangiare qualcosa di dolce a colazione, il primo pasto dei Romani si basava prevalentemente sui sapori salati.

La loro colazione però non rappresentava (almeno non sempre) un pasto vero e proprio: serviva solo ad arrivare alla pausa del pranzo e l’abbondanza di questa dipendeva anche dal lavoro in cui si era impegnati durante la giornata. Va da sé, infatti, che chi doveva arare un campo faceva una colazione più abbondante rispetto a un senatore. In linea di massima, però, la colazione era un pasto che poteva essere più o meno sostanzioso, ma che non portava via molto tempo.

Molti avevano la tendenza a mangiare quello che era avanzato dal giorno prima, per esempio riscaldandosi la carne di mattina, con l’aggiunta poi di qualche altra cosa per completare il pasto. Le giornate nel mondo antico iniziavano all’alba, al levar del sole, ma non si mangiava immediatamente appena alzati. Generalmente lo si faceva intorno alle otto o alle nove, a seconda del lavoro svolto o degli impegni della giornata, in modo così da arrivare all’ora di pranzo (intorno a mezzogiorno) senza avvertire i morsi della fame.

Anche il pranzo, prandium, veniva consumato in modo frugale ed era rappresentato da uno spuntino che non necessitava di preparativi elaborati. Nella maggioranza dei casi esso consisteva in un pasto freddo e rapidoche poteva includere verdura, frutta, pesce, legumi, oliveo pane. Spesso si mangiava da soli a pranzo, a casa o fuori, giusto il tempo necessario per rifocillarsi, in piedio seduti su sgabelli. Soprattutto d’estate, chi potevi faceva seguire al pranzo un pisolino nelle ore più calde. Chi non tornava a casa poteva acquistare qualcosada mettere sotto i denti in un punto di ristoro pubblicoo presso venditori ambulanti.

È quello che spesso facciamo ancora noi oggi quando ci concediamo velocemente per pranzo un pezzo di pizza o un panino al volo, un modo come un altro per spezzare la giornata e calmare lo stomaco prima di poter tornare a casa a mangiare per cena. I primi due pasti, quindi, non costituivano necessariamente un momento di socialità e, dal momento che molti mangiavano da soli e in poco tempo, pranzo e colazione rappresentavano soltanto due pasti veloci che si facevano per arrivare a cena, considerato il pasto principale della giornata.

Per ogni Romano che si rispettasse la cena doveva essere consumata in compagnia: essa era infatti il momento in cui davanti a un piatto più o meno abbondante, o a diverse portate con cibi esotici e rari nel caso dei banchetti lussuosi, si poteva chiacchierare, trascorrere qualche ora piacevole e dedicarsi alla socialità. Nei primi secoli della storia di Roma si tendeva a cenare nel pomeriggio, intorno alle quattro, ma più avanti nel tempo l’orario inizierà ad avvicinarsi alla sera.

Nel caso dei grandi banchetti, quando la cena era particolarmente sontuosa e il padrone di casa intratteneva i suoi ospiti con spettacoli, giochi, musica, danze e molto vino, si arrivava fino a notte inoltrata. Nel caso di cene più modeste, ovvero quelle della maggioranza della popolazione, si tendeva invece a finire al tramonto. Perché si mangiava così presto a cena? La spiegazione va ricercata nel fatto che nell’antichità si viveva con la luce del sole. In assenza di elettricità e di luce artificiale si seguiva il ritmo del giorno, ci si alzava all’alba e si finiva di cenare al tramonto per essere pronti, poco dopo, ad andare a letto.

La cena si svolgeva dunque in quella parte della giornata dedicata allo svago e al divertimento che molto spesso si trasformava in riunioni conviviali di amici e, a volte e a seconda delle cene, poteva avere dei risvolti intellettuali. Era uno degli aspetti dell’otium dei Romani, concetto molto diverso da quello odierno. Se per la mentalità di oggi, infatti, oziare significa poltrire e non dedicarsi a nessuna particolare attività, nell’antichità invece l’otium era quella parte della giornata o del tempo disponibile in cui ci si poteva dedicare ad attività intellettuali come la scrittura, la filosofia, la politica ecc.

L’otium, tipico soprattutto delle classi elevate, era contrapposto al negotium (negazione dell’otium), che consisteva in tutte quelle attività connesse (e necessarie) allo svolgimento del proprio lavoro o degli affari. La cena rappresentava, dunque, un’occasione di dialogo e di confronto; tutto era subordinato al piacere del convitato che in quel momento e in quell’occasione della giornata poteva dimenticare gli affanni del presente e dedicarsi liberamente ai piaceri della tavola e della compagnia.

A differenza della colazione e del pranzo, è durante la cena che il cibo, specialmente in età imperiale, divenne fonte di distinzione sociale. In linea di massima, fino al II-I secolo a.C. anche per i ricchi una cena poco sobria era una rarità ma, a partire dal I secolo d.C., invece, il cibo divenne uno dei modi dei potenti e dei benestanti per esibire la propria autorevolezza e il proprio potere.

Nelle dimore signorili o nelle ville, il corrispondente della nostra sala da pranzo era il triclinium, un ambiente destinato alla fruizione del cibo in compagnia e che era ovviamente separato dalla cucina. Il nome triclinium deriva dai tre letti (gr.: klínai) sui quali gli invitati si distendevano per cenare. L’usanza di semisdraiarsi per mangiare, già adottata dagli Etruschi (ne sono prova le urne cinerarie, i sarcofagi e le pitture tombali dove i defunti sono rappresentati semisdraiati nella posizione del banchetto), derivò dal mondo greco e venne importata a Roma a partire dal II secolo a.C., periodo in cui la Grecia venne conquistata e in cui molti costumi greci iniziarono a diffondersi a Roma.

Prima di quel periodo si può ragionevolmente supporre che si mangiasse seduti. In molte case di un certo prestigio a volte vi erano anche più triclini: quello per le cene private o da consumare insieme alla famiglia e quello/-i destinati alle cene con gli ospiti, una sorta di ambiente di rappresentanza da sfoggiare solo per le occasioni di una certa importanza.

Moltissimi Romani però non mangiavano solo durante i pasti: allora come oggi infatti erano diffusi quei cibi che venivano consumati nei momenti di svago, durante una pausa di inattività, semplicemente per noia o per scaricare la tensione. Nonostante nei tempi antichi le persone non venissero bombardate da messaggi pubblicitari che invogliavano a comprare pop-corn, liquirizie, patatine e quant’altro, anche tanti secoli fa erano comunque diffusi quei cibi che oggi si possono paragonare agli attuali spuntini. Questi erano costituiti in particolare da semi e granaglie abbrustolite che venivano consumate in grande quantità anche durante gli spettacoli al Colosseo o al Circo Massimo e negli altri stadi o anfiteatri sparsi per l’Impero.

Esattamente come oggi, poi, anche in tempi antichi c’erano ricorrenze che venivano festeggiate con un pasto più elaborato o abbondante del solito. Infatti se tutti i giorni ovviamente bisognava mangiare, non tutti i pasti necessariamente dovevano essere uguali. Essi variavano a seconda di ricorrenze o giorni di festa. Nel caso di solennità religiose, compleanni o eventi importanti per una famiglia, come per esempio un matrimonio, i pasti variavano, e di parecchio. In molte di queste occasioni si preparavano pietanze speciali che in altri giorni dell’anno non si sarebbero gustate, esattamente come facciamo anche noi oggi.

In molte città dell’Impero, poi, le cerimonie religiose pubbliche costituivano un’importante occasione per chi vi partecipava (in particolar modo chi non aveva grandi disponibilità economiche) per integrare la propria dieta con della carne. Generalmente, infatti, le carni degli animali che venivano immolate sugli altari erano poi distribuite tra coloro che presenziavano al sacrificio e alla funzione religiosa.

Un ruolo importante poi lo rivestivano anche gli incontri conviviali legati alle associazioni. Nelle tante città dell’Impero erano molti gli iscritti a consorterie di vario tipo e una delle attività di questi gruppi era proprio quella di organizzare momenti di aggregazione fra gli associati, una sorta di antenati dei cosiddetti eventi team building di oggi. Molto frequenti erano le cene o addirittura dei veri e propri banchetti che si organizzavano in occasione di ricorrenze particolari come quelle scandite dalle feste dedicate alle divinità preposte alla protezione dell’associazione stessa o dai compleanni dei patroni. Questi ultimi, ovviamente, venivano festeggiati anche in ambito privato: proprio come accade oggi quando i bambini, o anche gli adulti, fanno festa per il proprio compleanno (potendo permetterselo) e si invitano gli amici, si mangia e si sta insieme.

Grande importanza avevano anche le ricorrenze ufficiali come potevano esserlo le festività civili, i compleanni dell’imperatore, i trionfi dei generali vittoriosi o le giornate elettorali. Queste feste sfarzose, offerte dallo Stato, dai notabili delle province o dai maggiorenti delle città, ruotavano attorno a sontuosi banchetti pubblici senza limiti di cibo (per la grande gioia dei convitati).

Un’altra occasione, questa volta meno spensierata, per consumare un pasto al di fuori della propria abitazione era quella relativa ai banchetti funebri, che si tenevano vicino alla tomba della persona che si voleva omaggiare: questa usanza era talmente radicata che addirittura in molti casi, vicino al luogo di sepoltura del defunto, si costruivano appositamente triclini, piccole cucine e pozzi per attingere l’acqua in modo che non mancasse niente per il pasto (dei vivi!).