Il vino nell’antica Roma svolse per secoli la funzione di bevanda principale dei nostri antenati. A differenza di oggi, però, il vino non si beveva ‘puro’ ma lo si mesceva con l’acqua. Essa, infatti, veniva usata per ‘allungare’ il vino e diminuirne così la gradazione alcolica che era più alta rispetto ai vini moderni. Chi non diluiva il vino e lo beveva puro veniva considerato un barbaro o un alcolista perché poteva cadere vittima dell’ubriachezza a differenza dell’uomo civile che invece, miscelandolo con l’acqua, poteva controllare sé stesso (e, di riflesso, la natura).

Nei primi anni della storia di Roma il vino veniva mescolato all’acqua non soltanto per smorzarne la gradazione alcolica o per migliorarne il sapore quando iniziava a sapere di ‘spunto’, ossia tendeva all’aceto, ma anche perché costava troppo. Solo fra la fine della Repubblica e i primi secoli dell’Impero esso iniziò a diventare un bene più facilmente accessibile e all’epoca di Aureliano (270-275 d.C.) fu addirittura oggetto di distribuzione a prezzi ribassati.

L’usanza di allungare il vino con l’acqua era del resto già in auge nel mondo greco dove anche i miti riflettevano questa differenza tra un bere vino in maniera moderata e un consumo dello stesso sregolato e smodato. Basti pensare, ad esempio, al racconto mitologico di Ulisse e Polifemo, dove il ciclope Polifemo, ubriacatosi di vino puro e caduto in un sonno profondo, permise ai suoi prigionieri, prima della fuga, di realizzare l’arma che lo rese cieco.

E proprio come nel caso di Polifemo, anche nel mondo reale (così come oggi del resto), non tutti riuscivano a contenere il consumo di vino: sappiamo infatti che l’imperatore Tiberio (14-37 d.C.), noto per bere qualche bicchiere di troppo, era bersaglio dell’ironia dei suoi subalterni che modificavano il suo nome da Tiberius Claudius Nero a Biberius Caldius Mero, ovvero bevitore di vin brulé caldo non annacquato!

Il vino degli antichi Romani era radicalmente diverso dall’attuale. Tutto il processo che include la vinificazione, la protezione e il trasporto dello stesso sottoponeva il mosto a procedure che oggi non si consiglierebbero affatto come l’impeciatura delle giare in cui lo si poneva a fermentare, oppure la fumigatura o i tempi lunghissimi di macerazione. Per aumentarne e favorirne la stabilizzazione e la conservazione si aggiungevano anche resina oppure acqua di mare.

Oltre a ciò, i vini antichi avevano una consistenza liquorosa e una maggiore corposità rispetto alla media dei vini moderni. A differenza di oggi poi nella Roma delle origini il vino era un lusso riservato a pochi. Solo i maschi adulti e i capi famiglia potevano consumarne mentre alle donne era severamente vietato. Il consumo di questa bevanda per la donna infatti veniva associato a un rapporto sessuale illecito e l’infrangere questo divieto poteva comportare la condanna a morte e l’uccisione da parte di un proprio congiunto.

Era lo ius osculi, istituto arcaico del diritto romano e ‘prova del palloncino’ di quei tempi, consistente nella facoltà da parte dell’uomo di baciare una sua congiunta per verificare che non avesse bevuto vino. Una donna che beveva vino, infatti, secondo la mentalità patriarcale e maschilista dell’epoca, era più propensa a perdere il controllo del proprio corpo, a lasciarsi andare e dunque a tradire più facilmente il proprio compagno.

Con il passare dei secoli, comunque, la situazione cambiò e verso la fine della Repubblica, ovvero nel I secolo a.C., anche le donne romane potevano accompagnare i propri uomini ai banchetti mentre in età imperiale quasi certamente anche loro avevano la possibilità di godersi un bicchiere di vino senza rischiare di fare una brutta fine. Addirittura tanta era la libertà acquisita che secondo Giovenale (50/60 – 127 d.C.) le donne ai suoi tempi non solo bevevano ma lo facevano con ignominiosa frequenza, ubriacandosi vergognosamente. Se consideriamo però che i componimenti di Giovenale si distinguono, fra le altre cose, per una non troppo velata misoginia, forse quello che dice sul consumo di vino al femminile andrebbe preso con le pinze.

In tutta l’area mediterranea il vino, prima dello sviluppo dell’Impero romano, era considerato un importante elemento culturale, esibito e consumato dai capi al comando delle varie comunità per distinguersi dal resto della popolazione che non poteva goderne: un modo questo per sottolineare l’appartenenza a un gruppo privilegiato dal quale il resto della comunità veniva escluso. Una forma di socialità propria delle élites del Mediterraneo arcaico che girava attorno alla commensalità, al cibo e al consumo di questa bevanda.

Si sviluppò dunque già in fase arcaica una cultura del vino che resterà profondamente legata allo sviluppo dei popoli del Mediterraneo e in seguito a quello dei Romani. Durante la fase dell’espansione dell’Impero non solo la cultura ma anche la produzione di vino venne portata in terre lontane. Furono proprio i Romani, e in particolare i legionari, ad estendere ed esportare la coltivazione della vite nell’Europa del nord. A partire dal II secolo a.C. il vino, infatti, iniziò a diventare un business importante per molti investitori che, con il passare del tempo e dopo aver accumulato ingenti patrimoni, videro proprio nelle legioni uno strumento formidabile per allargare i confini di produzione e vendita del loro prodotto.

Columella stesso raccomandava come produrre vino era ai suoi tempi forse il migliore investimento che si poteva fare. Era come per noi moderni investire oggi sul mattone, come si raccomanda ancora. Solo per fare un esempio, la Francia, oggi una delle capitali mondiali del vino, deve questa sua fortuna al tenace lavoro dei Romani che impiantarono, curarono e svilupparono immensi vigneti in varie zone di quella che allora era la Gallia, una delle province dell’Impero.

A partire dal III secolo d.C. l’esercito romano divenne il più importante strumento di impianto e di coltivazione della vite in tutta Europa. Questo è talmente vero che grazie ad analisi eno-etimologiche è stato scoperto come il vitigno originario da cui discenderebbero moltissimi vitigni oggi celeberrimi come lo Chardonnay, il Traminer o il Sauvignon, corrisponderebbe a quello che venne impiantato in area renano-danubiana nella seconda metà del III secolo d.C. Del resto, le opere di Cesare del I secolo a.C. e di Tacito un secolo e mezzo dopo ci confermano che in Germania a quel tempo non esisteva nessuna forma di viticoltura mentre Cassio Dione ci dice che nel III secolo d.C. furono impiantati molti vigneti lungo il Reno e il Danubio per rifornire le legioni.

Il vino, del resto, non veniva apprezzato solo come bevanda ma era anche utilizzato per conservare meglio i cibi e per aromatizzarli. La carne, ad esempio, veniva a volte lasciata marinare nel vino per ore o addirittura giorni per aggiungere aromi e sapore ma soprattutto per renderla più morbida. Un’altra proprietà tipica di questa bevanda, apprezzata e temuta allo stesso tempo, era quella di facilitare il libero sfogo di emozioni, pensieri e sentimenti nascosti. Il famoso detto latino in vino veritas allude proprio a questo: quando si è brilli e i freni inibitori allentano la loro presa, si possono rivelare fatti o pensieri che da sobri ci si guarderebbe bene dal dire. Come anche oggi, bere vino era dunque anche un modo per quietare l’angoscia e gli affanni della vita.

Di vini ne esistevano tantissimi tipi: c’erano i ‘bianchi’, i ‘rossi’ o, per meglio dire, i ‘neri’ come li chiamavano i Romani, e i ‘rosati’. Il migliore, a detta di molti, era il celebre Falerno seguito dal Cecubo, prodotti entrambi nell’area tra il Lazio e la Campania.

Il Falerno, che comparve a partire dal III secolo a.C., si diffuse in tutto il mondo romano con impressionante rapidità. Molti scrittori latini lo lodavano per la sua bontà e fra questi anche Virgilio quando nelle Georgiche afferma che nessun vino poteva competere con il Falerno. Addirittura questo nome compariva in molti epitaffi di persone che tenevano a far sapere, con un pizzico di orgoglio postumo, che in vita avevano bevuto solo questo vino. Apprezzato particolarmente da Augusto, invece, era il vino di Sezze che aiutava a prevenire le indigestioni. Meno ricercati, anche se comunque amati, erano i vini di Albano, vicino Roma e, tra quelli importati, il vino di Marsiglia, quelli iberici e quelli greci, questi ultimi di ottima qualità.

Proprio come oggi, a vini diversi corrispondevano prezzi diversi: molto economici erano i vinelli da strada che tutti potevano permettersi o quelli relativamente modesti destinati al consumo privato, fino ad arrivare ai prestigiosi (e cari) vitigni campani o greci che rimasero a lungo famosi. Per la mentalità romana più il vino era vecchio e più era buono: straordinario da questo punto di vista fu il cosiddetto vino Opimianum che prese questo nome dal console Lucio Opimio (121 a.C.). Sembra infatti che ancora ai tempi di Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) circolassero anfore di questo vino che, secondo lo scrittore, oramai dopo circa due secoli sapeva di miele amaro!

Non solo i vini invecchiati o quelli molto forti avevano sapori amari o completamente diversi da quelli a cui siamo abituati: la viticoltura romana infatti dava grappoli sostanzialmente aciduli e conseguentemente tutti i vini avevano sapori e odori totalmente diversi da quelli moderni. In conseguenza di ciò il vino non veniva solo allungato con acqua ma molte volte ci si aggiungevano anche spezie o piante aromatiche.

Si poteva avere il vino mielato, mulsum, che si beveva preferibilmente con gli antipasti ed era considerata una delizia specialmente dalle persone anziane che ci inzuppavano il pane, o dei vini liquorosi, più alcolici, come il passum o i vini cotti. Il passum era un vino di uve seccate (uva passa) che corrisponde al moderno vino passito mentre altri tipi di vini venivano cotti per migliorare dei mosti mediocri che non si sarebbero conservati in modo proprio dopo la vinificazione.

Questi vini venivano usati anche per diluirne altri troppo acidi. Si producevano anche vini artificiali che si ottenevano dalla macerazione di una sostanza (di norma vegetale) all’interno del mosto, come ad esempio il vino alla violetta, alla rosa, all’assenzio, alla menta, al mirto o al pepe.

Quest’ultimo tipo in particolare era molto in voga e veniva venduto a prezzi più elevati rispetto agli altri. Consisteva in un vino cotto (quindi dolce) ma pepato secondo una commistione fra un sapore dolce e uno forte molto tipica dell’antica cucina romana. Di successo era anche il vino prodotto in Grecia che aveva la particolarità di essere diluito con acqua di mare, procedimento questo che veniva attuato per stabilizzare la bevanda.

In quelle regioni dove la viticoltura era impossibile si ottenevano altri tipi di bevande alcoliche: quelle con succo di frutta fermentato. Non sappiamo con certezza se questi preparati erano maggiormente usati come bevande o per uso medico. Si producevano vini fermentati di melagrane, di sorbe, di corniole e di datteri. Quest’ultimo, ricavato dalla fermentazione di questi frutti in acqua, era tipico degli Orientali e dei nomadi e molto probabilmente, almeno a livello di curiosità, venne assaggiato a Roma. Una bevanda rustica era anche il vino di giuggiole che aveva però il considerevole difetto di non conservarsi per più di una decina di giorni. L’albero delle giuggiole venne portato in Italia solo dopo il 10 d.C. e quindi possiamo supporre che, almeno in Italia, questo tipo di bevanda si sia diffusa solo dopo quella data. Ai liquidi fermentati la distillazione non venne mai applicata e quindi tanti secoli fa nel mondo romano non circolavano grappe, liquori o acquaviti.

Come si vede, quindi, il vino rivestiva una funzione e aveva un’importanza fondamentale nella vita romana antica e la sua onnipresenza si spiega anche con il fatto che il suo consumo, a quei tempi, corrispondeva alle funzioni che oggi vengono assolte da altre bevande che usiamo come ad esempio il tè o il caffè, entrambi sconosciuti agli antichi Romani.

Oggi può sembrarci strano visto l’enorme scelta di bibite di cui disponiamo, ma per molti secoli il vino fu e rimase la bevanda principale, se non di fatto, in molti casi, l’unica. Inoltre poi, grazie al suo apporto calorico, svolse un ruolo fondamentale nel regime alimentare degli antichi Romani. Questo ruolo del vino rimase inalterato fino a tempi a noi molto vicini: basti pensare ai contadini e ai braccianti che nelle campagne italiane fino a tutto l’Ottocento e anche in parte nel Novecento proprio dal vino traevano una buona parte del loro fabbisogno nutrizionale.

In tempi antichi poi, ci si ‘fidava’ molto di più del vino che non dell’acqua. Cosa significa? Grazie al suo contenuto alcolico lo si riteneva più affidabile da un punto di vista igienico e anche per questo motivo lo si mescolava all’acqua: non solo per abbassarne il contenuto alcolico ma anche per ‘disinfettare’ l’acqua che in molte zone e in molti casi poteva non essere sempre perfettamente potabile.

Il vino pregiato si conservava in anfore che venivano sigillate con pece e gesso e per i lunghi trasporti si usava anche la cera per chiudere e sigillare gli otri. Se il vino in ambito mediterraneo si trasportava in anfore di terracotta, nelle province settentrionali invece si usavano le botti di legno. Si utilizzavano anche otri di pelle mentre, a differenza di oggi, il vetro quasi certamente veniva usato solo per la bottiglieria domestica.

Molto spesso gli antichi Romani erano soliti avvolgere i contenitori (non solo di vino ma anche di altri tipi di merce) con uno strato di paglia per proteggerli da eventuali urti durante il trasporto. Da questo tipo di protezione derivano i fiaschi rivestiti di paglia che si vedono nei luoghi prevalentemente turistici e fino a qualche tempo fa ancora sulle nostre tavole. Un tempo erano molto diffusi ma i costi di produzione del rivestimento e la difficoltà di stoccaggio ne hanno decretato l'abbandono.