Ci sono gli influencer, ci sono i giornalisti, ci sono i critici gastronomici e ci sono quelle persone che credono di saperne, anche se non hanno mai messo piede in una cucina. La nuova era del giornalismo gastronomico è il confluire di tanti piccoli tasselli che, molto spesso, non bastano per completare il mosaico. Recentemente abbiamo assistito a casi, conclamati o meno, di corruzione nel settore e chissà quanti altri rimangono ancora latenti per il momento. Quello che, però, fa più riflettere è il vedere titoli e testi che sembrano il copia e incolla l’uno dell’altro. Un seguire le mode del momento che non sempre è indice di buona qualità e che porta inevitabilmente alla deriva della gastroscrittura.

Sono tutti bravi a dire buono

Sono parte del team delle buone notizie da quando sono nata, ma, in certe situazioni, anche un minimo di obiettività ci vuole. Sulle testate nazionali e sulle pagine social si leggono solamente recensioni positive di ristoranti, locali e prodotti. Vige la regola del “basta che mi inviti e ne scriverò bene”. A far dilagare questa moda del tutto buono e tutto bello ci hanno pensato gli influencer. Sono centinaia che sui social, a partire dalla pandemia, si sono messi a spadellare tra le mura di casa, quelle mura che oggi vedono molto poco, visto che sono in giro a provare nuove aperture e piatti pronti. Vengono invitati, mangiano e il giorno dopo è pronto un video per TikTok dove dicono quanto fantastica sia stata quell’esperienza.

Vale la regola: purché se ne parli, ma qui se ne parla solamente bene. Viene da chiedersi se viviamo in un mondo in cui vige il buonismo generalizzato o contano solamente gli introiti e la popolarità. Credo sia corretto far sapere agli avventori dei locali cosa funzioni e cosa invece possa essere migliorato. Non intendo critiche stroncanti, ma piccoli appunti di verità. In questa gentilezza dilagante va ritrovata la lucidità di non definire tutto perfetto, di non ammiccare dinnanzi a ogni portata e di essere obiettivi con criterio.

Ctrl + C e Ctrl + V

“Il bistrot vegetariano che fa una zuppa indimenticabile”. “Il locale in centro a Sassari dove mangiare la cucina tradizionale”. “Dove mangiare in Oltrepò Pavese, la mappa delle migliori trattorie”. La SEO oggi vuole questo e i lettori chiedono titoli semplici e intuitivi dove poter capire a colpo d’occhio – e negli 8 secondi di sogli di attenzione che abbiamo raggiunto nel 2024 – di cosa si parlerà nel testo. Il risultato è una homepage di Google dove i titoli sono praticamente identici e viene a mancare quella parte di umanità che oggi è bandita dai più.

I lettori di una volta apprezzavano una componente emozionale che li invogliava a provare quel determinato posto o prodotto. Oggi, sarà per adeguarsi all’intelligenza artificiale, tutto è schematizzato e reso impersonale. L’informazione si può fare anche con sentimento, ne sono un esempio i reportage di Vittorio Castellani che sembra quasi portati a braccetto con lui durante i suoi viaggi gastronomici. Il linguaggio cambia, questo è certo, ma perché privarlo di quella parte personale che ci rende così diversi dalle macchine? Va bene il taglio editoriale, ma bastano piccoli accorgimenti per rendere unica ogni lettura.

Le parole tabù

Prendo spunto da un articolo letto di recente, scritto da Azeb Lucà Trombetta intitolato Si può dire cucina etnica?. Ecco, lei è la pietra dello scandalo per molti oggigiorno. La parola etnico è considerata tabù, ma per quale ragione? A tal proposito ho contattato diversi studiosi, professori e coloro che di “cibo internazionale” si occupano ogni giorno. Pare non sia proprio un titolo dispregiativo, ma, anzi, qualcosa che leghi ancora di più alla propria cultura. Ovviamente, è bene sottolineare che non è possibile associare il termine etnico al ristorante giapponese di lusso nel quartiere in di Genova dove si trova qualsiasi cosa a base di tartufo e poco o nulla di realmente locale. Etnico è qualcosa che mantiene intatta la propria struttura tradizionale e non si adatta al gusto italiano solo per compiacere il pubblico strizzando l’occhio ai guadagni.

Discorso diverso per l’accoppiata tradizione- innovazione. Poste vicine, una accanto all’altra, forse sono un po’ superate e abusate. Questo non significa che non esistano e vadano bandite, ma che se ne faccia un uso consapevole. Si potrebbe scrivere un nuovo vocabolario con le parole tabù del nuovo giornalismo gastronomico, ma forse sarebbe meglio alleggerire un po’ le coscienze e abbattere quella politica di correttezza che sta prendendo una piega un po’ troppo rigida.

Si potrà tornare indietro?

Inizio con una domanda e concludo con un altro quesito, ovviamente entrambi senza risposta certa, vista la mia mancanza di etichette che segnalino la mia appartenenza a qualsivoglia categoria. Fatta questa premessa dico che tornare indietro non è mai la scelta giusta. Tutto evolve e tutto cambia. Tornare al passato non significa per forza migliorare le attuali condizioni, ma, forse, è possibile distaccarsi e intraprendere una nuova strada. Un’idea di giornalismo dove non ci sia terrorismo psicologico nell’utilizzare termini sbagliati, dove poter inventare un titolo che eluda la banalità e lo schiavismo alle politiche dell’indicizzazione. Forse è anche questo il modo per alzare la soglia di attenzione, magari così facendo si potrà arrivare a 10, o perché no, 15 secondi senza scrollare continuamente il telefono.

Coinvolgere più esperti e conoscitori della materia potrebbe essere la soluzione per evitare le pizze delle foto degli influencer che si autorigenerano anche dopo averne assaggiata una fetta. Le soluzioni, come in ogni cosa, non mancano mai, basta volerle attuare.