L’utilizzo della fava nella moderna cucina pugliese affonda saldamente le proprie radici nella tradizione rurale. La fava costituiva una importante risorsa per i contadini, sia per i costi di produzione contenuti, sia per la arcinota capacità di migliorare la fertilità dei campi, cedendo al terreno azoto, oltre alla grande adattabilità della pianta a diversi tipi di terreni e alla forte resistenza a parassiti e malattie. Una pianta, quindi, dalla grande versatilità già in fase di coltura, che mantiene questa caratteristica anche al momento del consumo.

Si tratta, infatti, di un alimento che ha ben tre vite da offrire al fortunato consumatore, con molteplici applicazioni e sfumature diverse. Una gamma di combinazioni che, probabilmente, ha pochi pari. I semi liberati dai baccelli, non aspettano altro che sprigionare il gusto portentoso. Un alimento entrato a viva forza nello stesso DNA dei pugliesi, come dimostra il fatto che, secondo studi clinici, il tasso di incidenza del favismo nella regione è ridottissimo, per cui una buona scorta di fave non manca mai nelle dispense pugliesi.

La prima vita è quella del prodotto freschissimo, le fave novelle, preferibilmente di giornata. Questo utilizzo deriva direttamente dall’esperienza rurale. Le fave fresche, accompagnate da un pezzo di pane oppure da un pezzo di formaggio, di solito pecorino, costituivano il pasto degli uomini al lavoro nei campi o al seguito delle greggi, perfetto ristoro dalle fatiche, magari sotto la preziosa ombra di un albero. È un tipo di consumo che favorisce la convivialità, dato che si liberano le fave dal baccello, con il semplice utilizzo delle mani e si portano subito alla bocca, senza bisogno di posate.

Il mio ricordo personale risale alla fine degli anni ’80, quando, nel periodo clou della stagione delle coppe europee, irrompevano allegramente le fave, in quelle serate di sport e passione, ma anche di solenni scorpacciate. Infatti, tutti eravamo abituati a mangiare le fave fin da piccoli, ma quel rito che avevamo instaurato per vedere le partite, ci permetteva di seguire il corso degli avvenimenti con molti meno patemi.

Avendo un fornitore privilegiato, arrivavo a casa degli amici con bustoni carichi di fave, colte in giornata, accompagnate dall’immancabile vinello bianco locale, che permetteva alle fave di andare giù ancora più facilmente. Ogni volta una festa. A distanza di anni, è arrivata anche una spiegazione scientifica: le fave sono ricche di L-Dopa, che nel corpo umano si trasforma in dopamina, un neurotrasmettitore che, fra l’altro agisce su controllo dell’umore. Le fave, quindi, anche come risposta pugliese all’odiato (personalissima opinione) popcorn, americanata che ormai assedia i nostri cinema e monopolizza le serate tra amici.

La prima vita della fava non si esaurisce solo con il pronto consumo. Con i semi meno freschi si possono preparare tanti, gustosi piatti. Mi limito a segnalarne due, sempre dalla tradizione contadina, che faceva spesso di necessità virtù, nel senso che si portava in tavola ciò che si aveva a disposizione. È il caso delle uova: dopo aver fatto un fondo con olio e cipolla, si uniscono le fave, si portano a stufare, con una cottura lenta, con acqua, per poi aggiungere le uova, fino ad avere, in pratica, un uovo in camicia, affogato nelle fave. Altro piatto, tipico salentino, è il classico fave e cicorie. Che prevede una cottura semplicissima, mettendo a bollire insieme fave e cicorie, per poi condirle con un buon olio. Basta aggiungere del pane, per ottenere un piatto completo, in grado di soddisfare ogni esigenza.

La seconda vita della fava comincia quando finisce la freschezza della prima vita. I semi si fanno seccare con tutta la buccia. L’essiccamento permette di averle a disposizione per tutto l’anno. Ovviamente, cambiano le qualità organolettiche dell’alimento che rimane, tuttavia, sempre ricco di proteine e carboidrati e, per la buccia, con un buon apporto di fibre, ottime per il funzionamento dell’intestino. Cambiano anche i tempi di preparazione, dato che, prima di cucinarle, hanno bisogno di un periodo di ammollo, almeno 12 ore, che serve a reidratarle, almeno in parte. Preferiscono una cottura lunga, a fuoco moderato. In passato si cuocevano in recipienti di terracotta posti sul fuoco del camino.

Sono indicate per zuppe e creme, magari accompagnate da una buona stracciatella, da scioglierci dentro. Ma la versione che preferisco, anche se richiede un bel po' di tempo, è quella che propongo. Si fanno cuocere, a fuoco lento, per almeno due ore, ricordando sempre di aggiungere il sale solo a cottura quasi ultimata. Si preparano dei crostoni di pane, ben abbrustoliti, che vanno poi ridotti in piccoli pezzi e buttati in una padella con un abbondante fondo di olio, cipolla e peperoncino, che accoglierà le fave una volta pronte. Basterà saltare il tutto per qualche minuto ed il piatto sarà pronto. Per avere un pasto completo, manca solo da aggiungere una verdura lessa.

Anche la terza vita comincia quando finisce il periodo delle fave novelle. I semi rimasti vengono essiccati, ma senza buccia e tagliati a metà. Abbiamo così la base per il vero piatto iconico della Puglia, l’unico che rimane uguale a sé stesso, anche spostandosi da provincia a provincia, caso davvero raro in una regione dove un acceso campanilismo gastronomico trionfa: il purè di fave con le cicorie. Anche in questo caso, cambia il modo e d il tempo di cottura, non serve ammollo, basta risciacquare bene più volte e mettere a bollire in acqua, per trenta, quaranta minuti. Sarà bene salare solo a fine cottura, che avviene quando le fave sono ridotte ad una poltiglia grossolana. A questo punto basterà passare le fave o, più semplicemente, usare un frullatore ad immersione, per ottenere una purea cremosa. Si servono semplicemente aggiungendo le cicorie lesse, o qualunque altra verdura ed un buon olio. Da noi si accompagnano spesso con dei peperoni verdi fritti.

Mangiare fave e cicorie non è un semplice pasto, ma ha una sua ritualità. Il mio rito personale è che si mangiano fave due giorni: il primo giorno semplici con verdura, il giorno successivo si mangiano con la pasta, preparando in una padella un fondo di olio e cipolla (chi lo preferisce può metterci l’aglio, ma il sapore cambia molto), sciogliendoci dentro le fave e saltando la pasta nella salsina ottenuta, con la sola aggiunta di un pizzico di pepe. La fava del giorno dopo è anche un’occasione di sperimentazione di nuovi accostamenti, solitamente di successo, dato che il purè di fave si dimostra accogliente praticamente con tutto, per cui una volta ci ho aggiunto della pancetta a cubetti e un’altra volta delle cozze.

La stessa ritualità si ritrovava nella preparazione delle fave con le cicorielle, un tipo di pianta spontanea diffusissima nei campi, caratterizza da un sapore amarognolo che si sposa, per contrasto, alla perfezione con il dolciastro delle fave. Ritualità che comprendeva il fatto di dover andare per campi alla ricerca delle piantine e tornare a casa carichi. Ancora fino a qualche anno fa, non era raro vedere gente in giro per i campi, curvi a raccogliere le cicorielle, con la stessa attenzione che mettono i cercatori di funghi, anche perché nei campi si trovano specie diverse di piante, non tutte commestibili. Purtroppo, questi incontri si fanno sempre più rari, con il progressivo scomparire delle generazioni precedenti, che hanno cercato, ed in parte cercano ancora, di tenere vive tradizioni secolari, che hanno reso la Puglia ciò che è adesso, con un’attrattiva eccezionale.