Posso sicuramente definirmi una persona curiosa e, essere una studentessa di gastronomia, non aiuta sicuramente il mio caso. Noi studenti siamo di base soggetti che devono essere affamati di curiosità, penso sia l’unica chiave che veramente ci porta a scegliere un campo rispetto a un altro. Se il percorso che poi si sceglie è quello della gastronomia si scopre che uomo e cibo sono molto più legati di quello che una persona comune possa pensare. Quando si parla di cucina subito ci viene in mente, in maniera completamente involontaria, un dato gusto; mentre la salivazione aumenta veniamo riportati indietro a un nostro personale momento storico in cui un piatto ha avuto un significato emotivo per noi.
Questo fenomeno ci riguarda in maniera globale, è uno degli aspetti che ci accomuna tutti come esseri umani e ciò che, nel bene o nel male, ci contraddistingue dagli animali. Noi siamo infatti l’unica specie che non mangia solo per sopravvivere ma per il puro gusto di provare un sapore nuovo, in quelle che noi definiamo vere e proprie esperienze gastronomiche. Una cultura gastronomica che viene molto ricercata da noi italiani è sicuramente quella giapponese. Quasi tutti noi ci siamo lasciati andare a un sushi all you can eat almeno una volta nella vita, è adesso comune trovarne almeno uno in ogni piccola cittadina. Studi statistici suggeriscono che tra un paio di anni il numero di pizzerie e ristoranti orientali saranno quasi al pari.
Ma quanto sappiamo veramente di questa cucina e della sua effettiva storia?
Il primo termine che sicuramente non possiamo non sapere è “washoku”, che indica il cibo e la cultura dell’alimentazione giapponese, compresi anche tutti gli aspetti sociali e spirituali ad esso legati. Esse intendono anche tutte le regole legate all’etichetta, la convivialità e lo stile di vita; quello che noi intendiamo come galateo. Tutto questo ha permesso alla cucina giapponese di entrare, il 4 Dicembre 2013, nell’organismo mondiale dell’UNESCO insieme alle cucine di Messico, Francia e Corea. Esattamente come siamo riusciti a fare anche noi nel 2023 con la nostra ben amata cucina italiana.
Come ogni buona cucina si rispetti, anche questa nasce in casa, nel cuore di una famiglia e di ricette tramandate. La sua formula di base si chiama ichijua sansai, che letteralmente viene tradotto con “una zuppa, tre piatti”. Infatti ogni classico pasto è solitamente composto da riso, una zuppa, un contorno principale e due secondari, per concludere con delle verdure sotto sale. I contorni vengono scelti tra “sumono”, qualcosa con aceto; “nimono”, qualcosa di bollito; “namamono”, qualcosa di crudo: “yakimono, qualcosa alla griglia; “mushimono”, qualcosa al vapore; “agemono”, qualcosa di fritto; e “tsukemono” i sottaceti. Tutto questo viene generalmente servito su un unico vassoio. Quando si inizia il pasto bisogna proseguire tramite delle regole ben precise. Si parte con la crudità, poiché la filosofia giapponese attribuisce all’atto del tagliare un’importanza più alta rispetto all’atto del cuocere. Seguendo sempre questa filosofia si prosegue quindi con i vari piatti cucinati con vari metodi di cottura, dal cibo grigliato per concludere con quello stufato.
Ingredienti e stoviglie seguono le stagioni e le festività dell’anno con gusto, forme e colori. La stagione primaverile porta ceramiche sottili e poco profonde, dove spesso i cibi vengono intagliati e incisi a forma di fiori di ciliegio. In estate le ceramiche diventano vetro e le verdure verdi fanno da padrone, spesso incisi a forma di serpente o tuono. L’autunno, con i primi freddi, porta a ceramiche più spesse e profonde e le verdure assumono ora la forma di foglia di acero. L’inverno i cibi vengono serviti con ciotole dotate di coperchio, per far mantenere calde le pietanze. In questo periodo zuppe e ramen scaldano anche i banchi dello street food giapponese, facendone da protagonisti.
Immaginate di girare nelle strade delle nostre grandi città e di incrociare ad ogni angolo, al posto dei fast food, una simpatica signora che ha preparato una buona zuppa calda, pronta ad accompagnarvi nel grigio invernale. Come tasto dolente dobbiamo sempre ricordarci che come noi ci siamo evoluti nel tempo, così ha fatto la nostra cultura gastronomica, ed è impossibile presentarne una senza fare anche un piccolo accenno storico.
Le prime tracce di storia ed evoluzione della cucina nipponica risalgono al periodo Heian (794-1185) quando l’aristocrazia usava consumare cibo in veri e propri banchetti. Con il periodo immediatamente successivo, il periodo Kamakura (1185-1333), nasce uno stile di vita molto più naturale basato sullo stile di alimentazione dei monaci buddhisti, dove vigeva il divieto fondamentale di uccidere qualsiasi essere vivente. È proprio in questo periodo che si sviluppa una cucina a base di verdure, riso e fagioli di soia. Nel 1336 nel periodo Muromachi, viene introdotta dai samurai la honzen ryori, la prima vera e propria cucina cerimoniale giapponese. Come successo nel nostro medioevo, in questo momento della storia nipponica, i banchetti potevano arrivare a durare una giornata intera, un pochino come alcuni pranzi di Natale.
Trovo affascinante che la parte fondamentale che lega il cibo giapponese, in tutte le ere che esso si è formato, sia la grande attenzione che il suo popolo ha attribuito all’artigianalità, che rappresenta per loro un valore da proteggere.
Studiando la loro cultura e la nostra riconosco molte similarità tra le nostre cucine e le sue regole. Non parlo solo di zuppe e brodi, di verdure e stagionalità, che i nostri nonni hanno provato ad inculcarci in testa. Parlo di tradizioni e ricette tramandate di generazione in generazione, usi e costumi cambiati con i tempi, insieme a noi e al nostro cibo. Sono sapori e profumi che fanno sorridere quando li risentiamo, spezie che ci riscaldano nei giorni invernali ed erbe che ci rinfrescano nei giorni estivi. Tra chi cucina per se stesso o per altri, con la musica o risate nelle orecchie, viene tutto racchiuso in quello che riusciamo a mettere in un piatto. Se c’è una cosa di cui sono pienamente convinta è che la cucina, in ogni sua sfumatura e luogo di origine, sia la massima espressione della nostra anima.