Gelsomina è una ragazzina dal viso serio, timido, dai penetranti occhi neri; la sua pelle è ambrata, cotta dal sole generoso della campagna tosco-umbra, e dimostra più anni di quelli che ha, dodici. “Gelso” (Maria Alexandra Lungu) viene più volta definita come la capofamiglia: vive con le tre sorelle più piccole, la madre (Alba Rohrwacher) e una zia, del tutto subordinate alla figura di Wolfang (Sam Louwyck), padre burbero e scontroso, di poche parole. Lei è l’unica ad aiutarlo nell’apicoltura, unica ereditiera degna del sapere, la sola che Wolfang voglia accanto nel gestire la sua azienda e della quale si fidi.
Gelsomina è la protagonista del nuovo film di Alice Rohrwacher Le meraviglie, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2014. Nella sua seconda opera dopo Corpo celeste (2011) la Rohrwacher torna a posare il suo sguardo sulla vita e le vicende di una giovane, passando dall’angelico volto di Marta a quello di Gelsomina, dai tratti intensi e incantevolmente gitani.
La regista osserva da vicino, con audacia, gli avvenimenti e le prassi della vita rurale di una famiglia negli anni ’90, immersa nella campagna, senza frequenti contatti con l’altrove; la camera, viva e pulsante, respira attorno ai personaggi, così nitidi e a tratti sgraziati nella loro spontaneità, nella libertà di una vita vissuta in disparte, lontana dagli altri, lontana dal tempo.
Nella scena d’apertura la loro casa è immersa nel buio, illuminata solo da torce invasive che lentamente s’insinuano tra le finestre aperte incontrando i nostri personaggi, avvolti talora, durante il corso del film, da una penombra che cela le loro storie, la loro esistenza. Gelsomina è sempre in disparte, si riserva inquadrature solo per sé, come un’ape regina: il film stesso è costruito come una fila di arnie immerse nella campagna, affiancate ma separate le une dalle altre, in un susseguirsi di quadri intervallati da ellissi temporali più o meno brevi. Ognuna cela la dolcezza e l’ingenuità che accarezzano il film intero, i suoi volti.
Gelsomina, impegnata e responsabile nelle sue mansioni sogna, e si lascia lentamente trascinare in una maturità che esige dell’altro. E il suo sguardo diventa allora pretesto per raccontare quello di un’intera famiglia, spaventata dal cambiamento, felice nella sua placida immobilità, ma spinta oltre dal tempo che incombe.
In una grotta si condensa lo squallore che attende la fine del decennio, la messa in scena televisiva, incarnata da una fata bianca (Monica Bellucci), presentatrice del concorso per aziende locali “Il paese delle Meraviglie” al quale Gelsomina vuole a tutti i costi partecipare. Milly Catena, la fata, è ormai stanca di portare quel pesante cappello scenico, e la camera non si riserva di immortalare il suo volto segnato dal tempo, dolcemente imbarazzato davanti al maldestro tentativo di messa in scena dei partecipanti al concorso: famiglie, come quella di Gelso, incapaci di reggere la finzione televisiva, di apparire distanti dalla loro realtà muta e pratica.
L’Isola verso la quale la troupe e i partecipanti si dirigono per le riprese, sembra emanare un presagio o forse, azzardando, proporre una chiave interpretativa dell’intero film: sarà forse un caso la sua spontanea somiglianza con l’isola di Arnold Böcklin, L’Isola dei Morti, icona ossessiva della pittura simbolista, costellata da creature oniriche e mitologiche (che non a caso ritroveremo nella grotta per via della posticcia ricostruzione storico-etrusca del reality)– a cavallo tra il Romanticismo settecentesco e il primo Impressionismo privo di spiritualità, e ancora precursore del Surrealismo.
Un simbolismo moderno (quello de Le Meraviglie) cardine dello snodo a cavallo degli anni ’80 e ’90, tra due forze uguali e opposte, tra la decadenza di un’epoca rurale e mitizzata, intrisa di un dolce anarchismo e l’ideologia progressista, della città, delle norme europee di messa in regola delle aziende (anche quella di Gelsomina), del reality nato esausto sul volto della fata Bellucci, dei diserbanti che minacciano l’apicoltura. Un simbolismo che sul finale tende al Surrealismo ma non alla resa, che preferisce scomparire nel mistero piuttosto che soccombere alla realtà del cambiamento, in un lascito di magia.