Quando visitai Teheran per lavoro nel 2008 ero molto prevenuto. Sulla base delle opinioni correnti in occidente immaginavo di giungere in uno stato arretrato e totalitario, dominato da un clero oscurantista, e in cui le donne erano relegate a un ruolo subalterno. Rimasi quindi stupito di trovarmi in una città moderna, per le cui strade, intasate da un caotico traffico di auto prodotte in loco, deambulavano donne belle ed altere - in abiti occidentali e con la sommità del capo appena coperta da un leggero velo - dirette verso le proprie attività di segretarie, commesse, studentesse o professioniste.
Quanto all’ambiente politico mi parve, dalla lettura dei giornali locali in lingua inglese e le conversazioni con le controparti iraniane, estremamente complesso e vivace, con le sue contrapposizioni fra Guida Suprema, Presidente della Repubblica, Presidente del Parlamento, fazioni islamiche estremiste e moderate, Pasdaran e ricchi mercanti del Gran Bazar. Insomma, una dialettica non troppo diversa da quella delle nostre democrazie occidentali. Avendo poi avuto a che fare col Ministero degli Esteri, mi resi conto dello sconfinato orgoglio degli iraniani per il proprio passato plurimillenario, e della loro volontà di tornare ad essere la massima potenza regionale, come ai tempi di Ciro, Dario e Serse, o di quando avevano tenuto testa agli imperi romano ed ottomano. Il lettore potrà meravigliarsi di questi miei commenti benevoli.
A mia “scusante” posso addurre il fatto che l’Iran, all’epoca della mia visita, ancora godeva dei frutti della presidenza del riformista moderato Mohammad Khatami, il cui governo aveva sostenuto la libertà di espressione, relazioni diplomatiche costruttive con l’occidente e una politica economica a favore del libero mercato. Ancora non c’erano stati il Movimento Verde del 2009, le proteste economiche del 2017 e del 2019 e il movimento “Donna, Vita, Libertà” del 2022 - tutti violentemente repressi dalle autorità - e la politica estera era meno avventurista di quella che sarebbe stata intrapresa in seguito. Se fossi andato a Teheran in tempi più recenti, probabilmente i miei giudizi sarebbero stati diversi da quelli espressi sopra.
Comunque, bando alla politica e veniamo alla mia visita. Incontrai nell’agenzia turistica dell’albergo un anziano signore elegantemente vestito e dall’aria molto distinta che si offerse di farmi da guida. Scoprii che si era laureato in Geografia all’università di Pisa al tempo dello Shah, che era coltissimo e che parlava un perfetto italiano (purtroppo non ricordo il suo nome).
Nell’unico giorno libero lasciatomi dal mio lavoro lo seguii quindi nella scoperta delle (poche, in verità) attrattive di Teheran : il Gran Bazar (ma era di venerdì e i negozi erano chiusi), la piazza Azad col suo grande arco di trionfo in stile persiano, il quartiere ebreo degli antiquari (scoprii con stupore che l’Iran, a differenza di tutti i paesi arabi non aveva cacciato la propria comunità ebraica, a cui erano anzi riservati dei posti in parlamento), varie moschee dagli interni rivestiti di specchietti, e la famigerata sede dell’ambasciata USA in cui erano stati rinchiusi gli ostaggi al tempo dell’Ayatollah Khomeini, coperta di truculenti murales antiamericani (il più noto, rappresenta la statua della libertà con fattezze di teschio). Molto pittoresco il mercato di frutta e verdura “Tekiye” coi suoi pilastri di legno verdi.
Anche se la città è per lo più costituita da brutti edifici moderni, con un centro intasato dal traffico e inquinato dai tubi di scappamento, non manca di una certa grandiosità. Circondata a nord dalle cime innevate della catena dei monti Elburz che la separano dal Mar Caspio, Teheran degrada dolcemente dall’elegante quartiere residenziale di Shemiran verso il centro con grandi viali alberati affiancati da stretti canali di acqua limpida. Ovunque, suntuosi negozi di fioristi testimoniano dell’amore dei persiani per i fiori, in particolare le rose, già espresso nei poemi classici di Omar Khayyam, Hafez o Ferdouzi, così come abbondano le fragranti torrefazioni degli onnipresenti pistacchi. Ma quel che più mi colpì della capitale iraniana furono gli ex palazzi reali, che vengo di seguito a descrivere.
I palazzi reali di Teheran
Ne esistono diversi, ma io ne potei visitare due, aperti al pubblico come musei. Il primo, il palazzo di Niavaran, fu costruito durante il regno di Mohammad Reza Pahlavi, l’ultimo Shah, alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, per trasferirvi la famiglia imperiale dalla reggia storica del Golestan e intrattenere i capi di Stato stranieri in visita. Allo scoppio della rivoluzione islamica, lo Shah e e la Shahbanu Farah Diba lasciarono in tutta fretta il palazzo e tutto quel che conteneva, per lasciare precipitosamente l'Iran nel gennaio del 1979. Il palazzo, che si trova nel quartiere residenziale di Shemiran, in vista delle montagne e circondato da altre sfarzose residenze, è decisamente brutto, di cemento e in uno stile indefinibile e vagamente “sovietico”.
Anche l’arredamento è incongruo: ad ambienti in stile persiano si alternano vasti saloni arredati con mobili Luigi XV, specchiere, gobelins e tappeti Aubusson. E gli affreschi, con scene tratte dal poema epico persiano di Ferdouzi Sahnamah (Il libro dei re), sono decisamente kitsch. Molto bello invece il vasto giardino di alberi secolari d’alto fusto.
Nel visitare la reggia, ebbi le stesse impressioni provate quando visitai l’ultima dimora degli Asburgo (vedi il mio articolo sul palazzo di Eckartsau). Sembrava che i suoi abitanti l’avessero appena lasciato: i letti ancora fatti, le tavole imbandite, le rutilanti uniformi dello Shah rimaste allineate negli armadi. Sulla scrivania dell’imperatore, lussuosi oggetti di cancelleria in oro e malachite e foto di famiglia. Fra le foto con dedica autografa di vari capi di Stato, curiosamente c’era anche quella di Adolf Hitler, regalata dal Führer al giovane imperatore durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la Germania contendeva a Russia e Gran Bretagna il controllo dell’Iran (va ricordato a questo proposito che il padre dello Shah, Reza, fondatore della dinastia Pahlavi, considerato troppo favorevole all’Asse, fu detronizzato a favore del figlio da russi e inglesi quando invasero il paese nel 1941).
Prima di descrivere l’altro e ben più bello palazzo reale, quello del Golestan, qualche ulteriore digressione sulla figura dell’ultimo Shah. Per farlo, prendo a prestito le parole di Ryszard Kapuścinski, scrittore-giornalista polacco specialista in sconquassi della storia, nel suo libro Shah of Shahs che conobbe un certo successo di pubblico. L’autore descrive Mohammad Reza Pahlavi come un uomo debole e illuso, non all'altezza del compito che si era prefisso di modernizzare il paese a tappe forzate con l’uso dei petrodollari, l’aiuto dei paesi occidentali e la dura repressione del dissenso:
Egli è caduto perché non conosceva il suo Paese... quando usciva dal palazzo, lo faceva come uno che mette la testa fuori dalla porta di una stanza calda nel freddo gelido. Si guardava intorno un attimo e si rituffava dentro! I suoi compatrioti dissero anche, in modo pungente, che poiché viaggiava quasi esclusivamente in aereo e in elicottero, vedeva il suo Paese solo da un punto di vista elevato che annullava tutti i contrasti…La Grande Civiltà dello Scià giaceva in rovina. Che cosa era stata in sostanza? Un trapianto rifiutato. Era stato un tentativo di imporre un certo modello di vita a una comunità legata a tradizioni e valori completamente diversi.
Anche Farah Diba ha lasciato nelle sue Memorie una testimonianza toccante sugli ultimi giorni dello Shah a Teheran:
A poco a poco, una grande confusione scese su tutto il palazzo. La gente continuava ad andare e venire, ma come automi, e a volte sorprendevo qualcuno che piangeva in silenzio. Dicevo a tutti che saremmo tornati, e loro volevano crederci come volevamo crederci noi, ma in fondo era la stessa freddezza che ci gelava il cuore.
Quando lasciò il palazzo di Niavaran, anche lo Shah piangeva.
E per concludere, veniamo all’altra reggia da me visitata a Teheran, il già citato palazzo del Golestan, o “Giardino delle Rose”. Il Palazzo del Golestan fu la residenza storica della dinastia reale Qajar che regnò in Persia dal 1794 al 1925 e precedette quella dei Pahlavi. Il palazzo, oltre a essere la residenza dei sovrani, era anche il centro della produzione artistica. Si tratta del più antico monumento della città, parte di un complesso di edifici un tempo racchiusi dalle mura della storica cittadella e testimonia dell'arte e dell'architettura di un periodo che vide l'introduzione di motivi e di stili europei nell'arte persiana.
L’esempio migliore di questo sincretismo è dato dai ritratti dei personaggi della corte che ornano il palazzo e combinano la tradizione delle miniature persiane con la pittura barocca occidentale. Di stile prettamente persiano sono invece l’ariosa veranda col trono di marmo dello Shah, la torre centrale e i mosaici della facciata. Nel palazzo era inoltre custodito il celebre Trono del Pavone, decorato di pietre preziose su una base d’oro, ora custodito nella banca centrale iraniana. Molto ricchi anche gli arredi e le vetrate e ovunque, gli immancabili mosaici di piccoli specchi che rivestono le pareti.
Durante l'epoca Pahlavi (1925-1979), il palazzo del Golestan venne utilizzato per cerimonie ufficiali, come l'incoronazione di Farah Diba, a cui ricordo di aver assistito nel 1967 sui canali in bianco e nero della RAI (fu trasmessa in Mondovisione).
Nel concludere questo pezzo, noto quello che mi ha insegnato la mia breve visita a Teheran: gli imperi crollano, le dinastie si susseguono, i regimi e le ideologie cambiano ma il mondo dovrà sempre fare i conti con la plurimillenaria civiltà persiana.