In principio non era il verbo, bensì il Silenzio, l’Abisso, l’Oscurità, il Vuoto. Racconta Ananda K. Coomaraswamy, che nella tradizione induista, precedeva la creazione dell’opera d’arte, la meditazione sulla vacuità. Arte e yoga perseguivano le medesime finalità: la concentrazione mentale fino al superamento di ogni distinzione tra oggetto e soggetto della contemplazione.

Il segreto di ogni arte va trovato nell’oblio di sé. E’ la contemplazione quindi a permettere la comprensione, e non l’esercizio dell’intelletto a condurre in primis all’azione artistica. L’intelletto interviene solo successivamente per organizzare ogni cosa e trovare la prova di ciò che ha intuito. Processo circolare, dalla meditazione alla configurazione, in un inseguirsi in continuo rimando e interrogazione e dialogo, lasciando che il tema suggerisca, ispiri.

Pneuma, ispirazione. Quindi un vivere, un respirare l’immagine, l’immagine che vive nell’artista anche attraverso il suo corpo che si fa fisico e metafisico. Arte si fa dunque partecipazione: si può conoscere solo ciò che si diviene, di cui si ha episteme. L’artista è sospinto verso il pathos creativo in quanto ricerca la propria interezza che non gli appartiene. Freme sotto la sua pelle come richiesta e necessità, la tensione creativa di generazione e ciò che il pregiudizio comune definisce facoltà terapeutica, di cura insita nell’arte, lo ammala e lo consegna alla fiamma perenne della nostalgia dell’altro da sé.

L’oggetto della contemplazione prevede valenze erotiche e seducenti, dotato di un segreto da tradire, da trascrivere, da indagare ma che non si esaurisce nemmeno a opera compiuta, e ogni elaborato artistico, ispirato ne illumina un riflesso, ne coglie un barlume, un frammento possibile. Poiesis, ricordo, etimologicamente riconduce al fare dell’umano. Anelito umano all’assoluto e al trascendente sono da considerarsi come la poesia, fattori fondativi del nostro essere. Si evince che quando l’arte non è gratuita fantasticheria possiede la facoltà di accedere a quel regno, oceanico e abissale, che trascendendo l’individuo e la sua biografia, approda nell’impersonale, nell’archetipico.

La contemplazione è infine il presupposto per l’affioramento degli archetipi e delle analogie, affinché le immagini personali possano farsi immagini di tutti. Gli scenari in cui si muove e che testimonia un poeta, sono dunque metafisici. Orizzonti in cui si possono intuire straordinarie corrispondenze: relazioni interne tra le cose del mondo dagli esiti potenti e ri-velatori. In arte è il mithos che diviene logos. La fucina è il fondo dello sguardo dell’artista. Sguardo fisso sull’invisibile, l’artista è colui che plasma la realtà invisibile nelle forme sensibili.

Si delinea un’arte che si fa arte vera, da intendersi come facoltà umana di conoscenza per proporre una tesi o una personale prospettiva sull’ordine universale. Facoltà possibile in virtù di una specularità che intercorre tra il visibile e l’invisibile. Si libra così ineludibile il paradosso dell’arte: il Trascendente a cui essa tende è irrappresentabile, ineffabile, ciononostante si affida al linguaggio delle forme del mondo dei sensi la sua rappresentazione. Emerge il simbolo, fin dall’alba del mondo, in quanto non disponiamo di altro linguaggio significativo e significante per suggerire e trattare gli aspetti molteplici della realtà suprema.

Suggerire ma non risolvendo, come è specifico del linguaggio simbolico in quanto è metalinguaggio che custodisce il mistero, essendo per metà aperto e per metà occulto. Inoltre la trama nascosta è sempre più forte e complessa di quella manifesta: spazio dell’indicibile che ogni manifestazione sottende. L’indicibilità da intendersi come attributo del dicibile, come qualità che allude all’Assoluto. L’artista si fa narratore di metafisica esperienza: è suo compito creare Mondo. Egli lo smargina, ne offre visioni, inediti scorci intelleggibili sotto il velo dell’apparenza ma trascrivibili solo attraverso il suo acrobatico intelletto. L’arte è un ponte gettato verso il Sacro. Nelle tradizioni antiche, arte, filosofia e religione sono nomi differenti per designare la stessa esperienza. Negli stessi tempi, la concezione magica della figura dello sciamano gli attribuiva le qualità del demiurgo, in quanto come artista creava mondi figurati e si riteneva per questo che possedesse il linguaggio segreto delle cose.

Un altro pensiero è cardine che attraversa tutte le tradizioni: l’humanum eleggibile come specchio del creato in una relazione che lo idealizza quale microcosmo riflesso del macrocosmo. Indubbio è che l’umano è esso stesso un grande mistero nell’universo, esso stesso dai confini cangianti e sconfinanti nel prodigioso. Il poeta, quale sinonimo di artista, in particolare è un essere nel mondo ma non del mondo, più cosmico che storico: un momento millenario. L’artista collabora al dispiegarsi dell’universo del possibile umano allungando le radici nel passato proteso in direzione del futuro: facoltà di scendere nelle profondità e salire in altezza.

Arte, possiamo aggiungere ancora è esposizione, spoliazione, resa, abbandono attivo, vigile. E’ porsi di fronte ai cangianti riflessi dell’ignoto, dell’indistinto, ma anche condizione destinata solo agli iniziati in quanto il sacro che sottende è luce abbagliante che incendia, ombra che incenerisce. Sacro è il luogo là dove ogni parola, il logos, indietreggia, mentre il religioso è ciò che organizzando il sacro, permette un accesso all’invisibile. Condizione adottata dagli antichi, quale antidoto alla follia per eccesso di sacro fu il rituale. Era previsto che gli adepti fossero accompagnati nell’attraversamento della soglia sottile tra sacro e profano. Si deve ammettere che la nostra pretesa di verità naufraga e smaterializza il sapere di fronte al vasto immenso oscuro dell’abisso che abbiamo nominato come Sacro e dal quale non ci siamo mai veramente affrancati. Lo sapevano bene gli antichi che offrivano sacrifici per compiacere quelle forze che riconoscevano oltre se stessi e che noi sappiamo invece essere abitanti del nostro inconscio collettivo.

Arte e Sacro sono qualità costitutive del nostro essere ma che lo trascendono entrambe. L’arte è informata dal mondo delle idee: regno dell’ umano o per qualcuno del sovrumano, ma sempre si tratta di un conoscere che possiamo immaginare e che solo si circoscrive nei limiti del nostro humanum. Altro è l’assoluto. Altro è il trascendente.

Ritornando ad argomentare sull’arte si può sottolineare che in virtù della sua irriducibilità alle strutture e ai sistemi della ragione, chi scandaglia mediante gli strumenti della psicanalisi nei suoi meandri, chi ha tentato un’epistemologia dell’immaginazione si è arreso nell’impossibilità di portare a termine tale operazione. L’arte non è materia di speculazione: è un mistero, termine che nella sua origine di etimo greco si lega a un verbo che vuol dire l’atto del chiudere la bocca. Il senso di meraviglia è la condizione prima che si fa vuoto e che comincia a germinare per anelito al conoscere avviando il processo spirituale e intellettuale della creazione.

In questo senso mi sento artista-committente accogliendo il pensiero di chi ritiene che le opere d’arte siano più profondamente fruibili conoscendone finalità e ragioni. Ciò affinché nella percezione del pubblico, la visione di qualsiasi opera d’arte non sia solo occasione di svago, sottoposto al principio del piacere o del dispiacere o a motivazioni solo sentimentali o estetiche. Tratterò questi temi nell’incontro presso la galleria Nelumbo, a Bologna, il 17 maggio alle 19.oo in occasione della personale Ierofanie.

Per maggiori informazioni: www.nelumbo.it