Facevo la terza elementare, mi pare. Era un giorno caldo, non ricordo il mese. Ricordo la mia camicia bianca e la gonna rossa. Le calze rosa sempre troppo larghe alle ginocchia. La maestra ci portò allo stagno, per vedere i girini. “Non state troppo vicini, che si affonda”. I girini erano troppi, con il loro nuoto disperato, per niente belli, per niente degni del loro essere piccoli, per niente teneri. Larve, pesci che poi avrebbero messo su le zampe, sarebbero diventati rane. “Potete prenderli”, diceva la maestra, “potete portarli a casa”. Ma se tu stessa hai detto che per diventare grandi devono fare cambiamenti drastici inimmaginabili, tipo che dalle branchie passano ai polmoni, che cambia la loro digestione, che devono riassorbire la coda. Come se noi da neonati, che ne so, diventassimo uccelli, pensavo. Cose diverse, forze maggiori che ci tagliano le spalle per infilarci le ali, che saranno anche più belle delle nostre inutili scapole, ma reggeremo il peso, quando non voleremo, quando saremo fermi? Lasceremo il seno per ingoiare vermi?
(Col senno di poi, sai, sono cose che facciamo, già. Ci trasformiamo in uccelli, in un età in cui la libertà conta più della natura. E' una parola d'ordine definitiva. Poi ci riassorbiamo becchi, ali, code di piume. E scaviamo la terra per farci andare di traverso i lombrichi.)
Come faccio a portarmeli a casa, questi girini, e assistere al loro fiorire o, in alternativa, alla loro morte? Siamo davvero così degni di presenziare a questo spettacolo, o a questo scempio? “Non state troppo vicini, che si affonda”. Quindi io ho messo il piede in fallo, e quell'istante prima di toccare col piede la melma della terra, sono rimasta sospesa come un coriandolo. Mi volava la gonna, un paracadute. Mi vedevo da ogni angolazione. Io magrissima e allagata di capelli neri come una tempesta. Stavo sospesa tra la terra e la terra, che dal centimetro prima a quello dopo cambiava consistenza. Poi il tuffo del piede piccolo nell'acqua scura, l'incastro delle dita tra scarpa e fango, la morsa leggera sulla caviglia. Poi giù il polpaccio. Le calze finalmente aderenti al ginocchio. La coscia e poi o cado davanti o faccio la spaccata, ma mi prendono da ogni lato e mi tirano su, ma io spingo e muovo piombo per affondare, per non farmi prendere, per farmi ancora fango, sulla pancia, nelle viscere.
Mi voglio tuffare con la testa, ma fa resistenza l'idea di sopravvivenza che ti impongono gli altri con la loro presa. Mi divincolo per lasciarmi risucchiare, ma vince sempre la forza di rimbalzo. Mi ritrovo di nuovo su, sul margine, a gocciolare. Impugnata come un coltello tagliente da ogni lato. Mi passano di qua e di là, mi guardano in faccia, “stai bene?”, “stai bene?” e non so ancora la risposta a questa domanda. Mi ritrovo alle 16:34 precise, sul mio Casio che prima non era di moda, con il mio carico misero di tre girini già mezzi morti, sul balcone di casa mia, col sole che gonfia le pance alle mie future rane e io che cerco mosche da ammazzare per salvarli. Chi la voleva, questa responsabilità. Chi la voleva questa presa di coscienza dell'impotenza. Chi mi ha costretta a vivere per vedere altri esseri morire dalle mie mani, per mano mia, senza le mie mani, tra le mie mani, nelle mie mani, un sacco di colpa le mani nelle morti, le stringi per ultime, le lasci andare, le mani, che colpa immensa hanno le mani nella morte.
Sono passati più di venti anni e affondo solo in fanghi metaforici, ora. E allevo solo girini metaforici, ora. E metto solo piedi in fallo metaforici ora. E ho forze di rimbalzo metaforiche, ora. E sono io metafora della mia vita, io metafora dei miei sette, otto, nove, dieci anni. Poi la decina ha tolto senso all'unità, mi ha carambolata giù, fino al 20 e poi al 30 e non si fermerà e se si fermerà sarà comunque già troppo tardi, non sarà più troppo presto.
Infine tu. Dopo la lunghissima premessa della mia vita. Dopo il fiume, stagnante, di parole che sono stata fino ad ora. Fino a te. Che non sarò più, da te in poi. Che mai più sarò. Perché mai più sarò io, nel bene e nel male. Mai più sarò metafora di me, mai più darò ragione alla poesia. Sarò corpo, io, che affonda, metafora di niente, ma viva e pesante, organi, muscoli, pelle e ossa, ritornata a quello stagno. E spingo, spingo, come un parto per non nascere, spingo per farmi piombo, e le mani non fermano, le mani mi tirano, ma non ce la fanno, perché io mi infilo sotto, dentro, mi infilo nel punto più fradicio del mondo, come lui, con me, sempre dentro ai miei pozzi neri, ingombrante, incessante.
Così, ora, io, gigantesca nella mia voglia di te. Infinita e gigantesca dello spazio dei tuoi occhi, che mi hanno fatta così, invincibile nel battermi, nel perdermi, nel piegarmi. Invincibile, io, che più mi cibo di te, più mi trasformo, nell'animale che non so, che non saprò, risucchiandomi, ora, io, le mani che mai più uccideranno, le ali che mai voleranno, la bocca che invece lascio a te. La bocca mia, tua, che hai, hai già, e che io (che animale sarò senza te?) lascio a te.