“La sua vita funziona, sì? – prosegue quel demone che è venuto oggi a far visita a Massimo durante l’orario di lavoro, con i capelli sparacchiati, bianchi, gli occhi cisposi, la pelle rugosa, screpolata, la camicia con macchie di sudore, la voce calma – E lei si sente soddisfatto. Fa il suo dovere. No? Dorme sonni tranquilli, sì? Vede arrivarle soldi, il conto cresce, le aspettative, le ambizioni, ogni anno, si gonfiano. E’ così, sì? Non sbaglio… Qualche furberia ogni tanto, ma, nel complesso, persona seria, lei, ligia, una brava persona, via. Ma, dico io… ”
La BMW fa un balzello avanti. E’ lunga cinque metri. Viaggia a un potenziale dai trecentotredici ai quattrocentoquindici cavalli. Ha una linea slanciata, il tetto è basso, ha buone proporzioni. Non sembra di guidare una macchina grossa. I freni sono pastosi. Anche per questo forse Giordani è tanto rilassato. Massimo vorrebbe che l’uomo guidasse una vecchia carrucola. Forse questo gli impedirebbe di dire tutto quello che sta dicendo. “… come può non rendersi conto che il suo lavoro crea morte? Oh, certo. Quando mia moglie cominciò a vomitare di qua e poi di là, e poi girò gli occhi, cadde a terra, tremò, fu l’ambulanza che chiamai. Arrivarono a sirene spiegate. E l’ambulanza è un’automobile. Quando avemmo il nostro bambino, mia moglie e io, e a lei si ruppero le acque fu in macchina che l’accompagnai all’ospedale. Sì, le automobili servono. Servono eccome. Sa, Massimo, io sono vecchio di cinquantasette anni, e me lo ricordo cosa succedeva fino agli Anni '70. Si fumava nelle sale d’attesa degli ospedali. Anche in corsia. Era proprio così, sì sì. Adesso siamo cresciuti, però, non è più così. L’abbiamo capita. Nelle sale d’attesa non fumiamo più. Fumiamo fuori. Fuori ci sono tubi di scappamento, fabbriche, amianto. Però negli ospedali, almeno lì, be’, lì non fumiamo. E’ la strada per arrivare all’ospedale, sì, c’è ancora quella che è rimasta per farci crepare. Mia moglie. Mio figlio. Persino mia madre, che è morta a novantaquattro anni, è morta per un tumore all’intestino. E lei, Massimo, non può negarlo, contribuisce. Col suo lavoro”.
Il signor Giordani lancia a Massimo un’occhiata brevissima. “Lei, a questo punto, penserà che io sia un demonio. Che quello che sto facendo qui sia causato dal dolore delle perdite che ho avuto in questi anni. Invece, le dirò che sono queste perdite che mi fanno andare avanti. Ormai sono loro che mi controllano, che mi fanno muovere nel mondo, che mi trasmettono i pensieri che sto facendo ora. Loro, Massimo, vogliono che oggi sia qui, per parlarle. E non solo loro, ce ne sono una moltitudine d’altri dentro di me”. Il signor Giordani porta la BMW nella concessionaria. La posteggia tra il modello di una Volkswagen e quella di un’Alfa Romeo. Una con la carrozzeria bianca – carrozzerie trasparenti!; che idea!, e poi quale dovrebbe essere il materiale: plexiglass?, vetro?, poliuretano espanso? – e l’altra con la carrozzeria color blu metallizzato. Il signor Giordani spegne l’automobile. Massimo emette uno sbuffo, allunga la mano per aprire la portiera dell’auto e essere fuori di lì. Solo che Giordani lo blocca. Allunga il braccio, gli prende la mano e gli dice: “No, Massimo, aspetta. Voglio ancora dire una cosa…”.
Massimo toglie la mano. Potrebbe fare forza e uscire di lì. Invece toglie la mano. “Signor Giordani…” riesce solo a dire. Però non dice di più. Ripensandoci, in un momento successivo, Massimo non saprà darsi una spiegazione sul perché si sia comportato così. Avrebbe potuto andarsene e basta ed invece ha scelto di restare. Forse è solo che una parte di lui in questo momento vuole sentirle quelle parole. Come quando stai discutendo con la tua ragazza, e lei ti dice cose che non vuoi sentirti dire, e lo sai che dovresti infilare la porta e andartene, farti un giro, tornare quando le acque si saranno calmate, ma, e non sai perché, non riesci a farlo. Vuoi sentirle, quelle parole.
“Sai, che cosa mi piacciono?” “Cosa, dottor Giordani, cos…” “Abbiamo quasi finito, non ti lamentare, Massimo – lo riprende subito il signor Giordani intercettando il piagnucolio nella voce del suo interlocutore – Mi piacciono i parcheggi. Box auto. Gli spazi tra una macchina e l’altra ai lati delle vie. Mi danno una gioia intima. Un senso di sicurezza. C’è uno spazio tra una macchina e l’altra e lo spazio è grande abbastanza perché ci possa far manovra e mettere la mia auto. Però, mi piacciono soprattutto i parcheggi mastodontici, i luoghi pensati e costruiti per parcheggiare le macchine. Ecco, Max, quelli sono i luoghi che preferisco. Non in assoluto, ma in una classifica dei luoghi che preferisco li ricomprenderei certamente Sarà forse per l’odore di gas e benzina che ci puoi respirare all’interno. No, sono serio. Non fare quella faccia. Non scherzo. Mi piace. E’ inebriante. Se non sapessi che fa male alla salute, lo respirerei ore. E ne costruirei di più di questi parcheggi. Molti di più. Farei torri di parcheggi. Grattacieli di parcheggi. Chissà, forse in un grattacielo fatto solo di parcheggi si potrebbero costruire ascensori per automobili. Chiami l’ascensore, ci ficchi dentro l’auto e quello ti porta ai piani superiori. Suona un po’ idiota, ma cosa ben più idiote sono state costruite a questo mondo. Se hanno costruito una stazione sciistica con tanto di neve e una montagna in quel megagrattacielo in mezzo al deserto, forse si può costruire anche un sistema di ascensori per automobili. Comunque, a parte questa sciocchezza, parcheggi parcheggi parcheggi. Li costruirei, Massimo, fuori dalle città. Tutti quanti. Migliaia e migliaia di parcheggi. Poi con un decreto ingiuntivo costringerei gli abitanti di ogni Comune a posteggiare la loro maledetta macchina in questi parcheggi e a vietare di utilizzare le automobili all’interno dei confini municipali. Vuoi fare la spesa? Vacci in bicicletta. Niente più automobili, motorini, veicoli di locomozione a benzina o gas. Quelli li puoi usare solo sulle autostrade e sulle strade principali. Per coprire grandi distanze. Mai per attraversare centri abitati. Mai. Riesci a vedere le conseguenze?”
“Io – Massimo cerca di allungare di nuovo la mano verso la levetta della portiera e uscire da lì, ma il signor Giordani lo blocca, assai morbidamente con la mano che ha tenuto sul cambio fino a quel momento – Signor Giordani…” “Signor Giordani Signor Giordani! – ripete lui in una specie di falsetto, ma con un tono pacato, bonario – Non riesci a vederle, le conseguenze di questo scenario, eh? Tu ti limiti a prendere le cose per quelle che sono e a spremerle come arance, pompelmi. E’ così? Lascia allora che te lo dica io. Si tornerebbe alle biciclette. E ai carri. Si tornerebbe ai cavalli. Ci sarebbe molta più fauna per le strade. Cavalli. Muli. Asini. Caproni. Al posto di quelle schifose bare di metallo che ci sono adesso. Forse, chi lo sa?, forse si potrebbero inventare macchinari per pulire le strade. Sì, ci sarebbero un bel po’ di escrementi per le strade. Ci sarebbe un mercato per abbeveratoi. Fieno. Biada. E ci sarebbe aria più respirabile. Quel che più conta. Aria più respirabile – ripete – Ecco fatto – dice poi – Ho finito”.
Il signor Giordani lascia andare Massimo. Massimo apre la portiera ed è fuori. Quando il signor Giordani smonta dalla BMW, Massimo si sente di dirgli qualcosa. “Anche lei, però, signor Giordani, è venuto qui con una macchina. Anche lei” ripete. Il signor Giordani fa un sorriso, poi si guarda attorno, come avesse improvvisamente perso qualcosa. Prende e va verso la sua automobile. Non proferisce verbo. “Anche lei! – ripete Massimo, e lo esclama – Anche lei!”. Il signor Giordani entra nella sua automobile. E’ l’automobile di un demone. La mascherina di metallo del paraurti luccica, strofinatissima, quasi ghigna. I fanali sono rotondi, la macchina del signor Giordani ha uno sguardo femminile. Massimo non riesce nemmeno a distinguere che macchina sia. Che marca. Che modello. Anche quando il signor Giordani è arrivato, circa un’ora fa, Massimo non ci è riuscito. L’ha vista da lontano, non ci si è avvicinato. Però avrebbe potuto lo stesso. Invece non ce l’ha fatta. Gli è solo presa una sensazione strana. Gli è sembrata troppo rossa. E’ più pulita della BMW stessa. E’ in condizioni perfette. Magari quel diavolo l’ha comperata il giorno prima. Non aveva mai avuto intenzione di comprare nulla. Solo manifestarglisi. Infastidirlo.
“Anche lei! – grida adesso Massimo mentre osserva l’automobile col signor Giordani dentro (un uomo che a Tortona lui non aveva ancora visto, e spera proprio di non incontrarlo per strada o da qualche parte) accendersi e muoversi – Anche lei!” Giordani lo vuole lasciare lì. I suoi ottantamila euro, come ha supposto poco fa senza sbagliarsi, se ne stanno andando. Questo manda Massimo su tutte le furie. “Anche lei!” gli riesce solo di dire. L’automobile rossa fiammante del signor Giordani punta il muso contro la Concessionaria. C’è una vetrata enorme (a occhio dieci metri di lunghezza per cinque d’altezza) e dietro automobili di lusso, e una jeep. La concessionaria Maretti&Cobrelli è una società a responsabilità limitata multimarca. Tratta soprattutto BMW, Alfa Romeo e Volkswagen. E’ stata aperta negli anni '70 da Egisto Maretti, al quale si è affiancato successivamente – intorno agli Anni '90 – Dario Cobrelli padre di Luca. Il capannone dove si trovano esposte le automobili e dove ci sono l’ufficio commerciale e l’officina per la manutenzione delle autovetture ha un volume di circa cinquemila metri cubi. L’edificio è un parallelepipedo dalle mura beige. Massimo ci è affezionato. A volte Luca gli parla di diventare soci. A volte immagina il suo nome nell’insegna accanto a quello di Maretti e Cobrelli: Malvasoni. Non suona nemmeno male. Solo che è ancora troppo presto. Però, chissà. Il piazzale antistante al capannone beige è un’area che si prende circa mezzo ettaro di terreno. Sono esposti anche qui modelli di BMW, Alfa Romeo e Volkswagen.
Giordani accelera contro la vetrata del capannone. Poi sterza. Quasi di colpo. Punta il cancello ed esce fuori. L’auto s’immette nella strada principale. Scompare verso Tortona. “Anche lei! Anche lei! Anche lei! Anche lei! – sta ancora gridando Massimo, incapace di proferire altro – Anche lei!”. Nel frattempo esce Luca Cobrelli. Anche lui è un tipo col collo grosso. Col collo incollato, come qualche volta gli viene da pensare osservandosi il suo. Ha i capelli tagliati a spazzola, il volto suino, con il naso puntato all’insù e gli occhi che gli valgono l’appellativo che qualcuno gli affibbia qualche volta di “cinese”. “Che c’è? Che c’è? Con chi ce l’hai? Con chi ce l’hai?”.“Niente. Niente. Uno stronzo”. Massimo alza ancora una volta lo sguardo verso la strada. La macchina rossa adesso è scomparsa. “Torniamo dentro” dice.
Più tardi Massimo controllerà le credenziali del signor Giordani. Per sapere chi è, che cosa fa. Sulle Pagine Bianche troverà solo un cognome Giordani. Il nome di una donna. Su Internet non troverà nulla. Eppure Giordani ha parlato di una moglie e una madre decedute. Forse ha mentito. Massimo telefonerà alla donna sull’elenco. Non troverà nessuno. Due giorni più tardi passerà persino con la sua auto (una Volkswagen) davanti all’appartamento dove la donna vive. Posteggerà. Starà lì per qualche minuto, sotto una pioggia battente, in una giornata fredda di aprile. E’ che per quanto non vorrà ammetterlo, le parole del signor Giordani lo faranno riflettere. Gli porteranno alla memoria, in particolare, le volte che aprendo il giornale locale Massimo si è reso conto di aver venduto lui l’automobile coinvolta in questo o quel sinistro stradale. In dieci anni ha avuto due casi di persone morte ammazzate a causa di un incidente stradale su automobili vendute da lui personalmente. Maretti&Cobrelli, gli ha spiegato una volta Dario Cobrelli, dagli Anni '70 a oggi ha avuto un centinaio di casi.
Massimo li ha sempre considerati incerti del mestiere e niente più. Non è colpa sua se succedono cose come queste. Certo che no. Anche un ombrello può essere causa d’incidenti. E tuttavia, dopo le parole del demonio venuto a visitarlo in concessionaria, Massimo si ritroverà a pensarci più spesso. Ci penserà anche adesso nella sua automobile, sotto la pioggia, domandandosi anche perché quell’uomo abbia scelto proprio lui senza trovare una spiegazione soddisfacente. Poi Massimo uscirà dall’auto, citofonerà al portone. Niente. Non otterrà alcuna risposta. Una settimana più tardi, dopo altri tentativi, desisterà, cercherà di dimenticarsi il signor Giordani, le sue parole, lo sparato azzurro del suo completo con le macchie di sudore. “Torniamo dentro” Massimo dice ora a Luca Cobrelli.
Testo tratto dal numero 69 del trimestrale Atelier, diretto da Andrea Temporelli e dalla rivista Letteratura Horror.