L’aria è bollente, non respiro. Alpi e marmotte, alle mie spalle. Ci spingiamo verso sud. Stanchi facciamo sosta nel parcheggio, a Genova. Stremati, afa, zanzare.
Un uomo consuma un bricco di vino rosso su panchina sotto il lampione. Lo vedo chiudere gli occhi e mi chiedo in cosa sia perso. Mi portasse in quei pensieri.
Spazio riservato camper, al porto. Roulotte trainata, targa tedesca. Si lavano con bottiglie sul retro. Prima le bambine, poi l’uomo. Dalla sedia sull’asfalto, mangio patatine francesi al burro e bevo birra, osservo vicini e la donna che, ora suo turno, esce nuda, sul bitume, saltellando verso un dove a me precluso. Nuda, nel parcheggio a Genova. Un corpo normale, che non suscita imbarazzo. Sul sedere, la leggera abbronzatura indica mappa di vacanza.
Continuo a bere birra. Guardo impassibile un cielo impossibile da vedere e penso che la mia ossessione per le stelle, non sia ben vista. Mi fa male il collo e riprendo a guardare giù. A destra, hanno cacciato un tavolino e mangiano vista muro. Troppo caldo per dentro. Il termometro segna trentatré gradi, ancora, di notte, a Genova.
Dove saremo domani? Dove siamo stati ieri? Continuo vagare, senza destinazione, in un ipertrofico tempo, con qualcosa di cupo in me. Perché non sorrido? Cos’hai? Non ho risposta a queste domande o forse una troppo lunga, dialettica e sfiancante. Evito di rispondere, faccio spallucce. Deve essere impegnativo compiacermi. Bevo un bicchiere di vino e mi lascio andare a una partita a carte, sperando di essere all’altezza dell’entusiasmo richiesto.
Mi sembra di inoltrarmi, spingendo vento, come Kane in Rapsodia in agosto di Kurosawa. Un vento reale, opponente ma, allo stesso tempo immaginario, in cerca di un sentimento di riparo e salvezza dall’inevitabile. Sto bene, non sto bene. Ho guardato fuori e ho visto Lac du Mont-Cenis.
Voglio tornare, voglio restare. Voglio spostarmi, stare ferma, infilarmi nel sacco a pelo, luci spente e sentire che dormono, russano, sospirano, e liberarmi chiudendomi.
Le Alpi sono come sono. Impossibile essere meno alpine, meno belle, dimenticabili. È il diciannove di agosto e tra le mani sento il freddo di una neve inaspettata, sporca, scarpe di passaggio, come le mie, senza diritto. Il gelo bagna. È piacevole. L’uomo arriva sempre. Trova il modo. La sera mantengo il dito piegato sul collo del naso, combattendo la sinusite.
Sto invecchiando, velocemente. Vedo come la pelle reagisce al freddo di montagna. La vedo in foto. Piccole crepe. La lascio seccarsi, come ribellione contro idratazione, rassegnazione davanti a cartello senza uscita.
Non abbiamo elettricità. Asciugo i capelli, fuori. Sensazione di trionfo su apparenza ma, resta qualcosa che non allenta. Una fretta, continua urgenza che preme e opprime, soffoca, sfugge. Lascio questo disagio dov’è, a innervosirmi. Sono il suo custode.
E allora grido: «Marmotta!» e lei risponde con verso strano, da pennuto. Non so se voglia intimidirmi. Mi allontano. Guardo su, ed eccola la mia preferita. L’aquila. Da un lato all’altro, più in alto, più piccola. Essere lei. Solitaria, autonoma. Dove gli altri non arrivano. Visuale della valle. La lascio andare e proseguo da una roccia all’altra, supplicando di arrivare a Lago Chiaretto e porre fine a questa scalata inadeguata.
Quando incrocio qualcuno chiedo costantemente quanto manchi, fornitore di sentimento comico. Raccolgo in risposta «mezz’ora, ne vale la pena». Riprendo fiato, proseguo. Eccolo, dietro l’ultima collina. Perché ti nascondi? Celeste e freddo e incastonato. Va bene, ne vale la pena. Mi dico che sono troppo urbanizzata per queste camminate e quando scorro le foto sul cellulare, la notte, mi sembra la vita di un’altra. Mi si sono scollate le scarpe.
Loro, belli. Pochi metri, stretti, troviamo il modo di condividere, di sopportare le mie assenze. Gestisco. Ci provo, vado avanti, traino ancorata a un fondale invisibile, un abisso che comprendo e mi stanca.
Il caldo si è fatto opprimente verso sud. Mi ricorda l’aria a Mexicali, le carogne di cani sulla strada non sopravvissuti alla temperatura, secchi a gambe tese all’aria, qualche anziana a vendere tamales, come in un caldo tollerabile. Cosa facevo là? Vano lavanderia, mentre cuccioli di Weimaraner, sul pavimento grigio senza fughe, mi vedono, mi ignorano. Che ne sanno loro cosa voglio io, dopo un’ultima lite, dopo un addio.
Quando attraversiamo il deserto della Rumorosa, carcasse d’auto, in Baja California, un’altra volta. Si apre la portiera, sbatte. Si apre il portabagagli, si richiude. Resta il cielo stellato più bello e un folle barcollante su carreggiata impercettibile. Resta la Bufadora di Ensenada e le musiche di Madama Butterfly, restano due giovani donne che bussano alla porta, dopo l’opera, per sapere marca di décolleté nere, resta lui in ginocchio che recita e si affanna, ancora, non sa che manca il bisogno. Resto io che lascio e la volta del cielo sembra accompagnarmi sino ai piedi, sino alle Converse che ora indossa lei, anche se le vanno un po' grandi. Le Converse del Messico e della California. Restano le scarpe e un amico che torna, ora che tutto è cambiato, diverso, uguale.
D’altronde, quando dico a Bernardo che non lo so chi sono, che forse non sono quella che conosceva, mi zittisce con «chi nasce tondo, non muore quadrato». E forse ha ragione. Sono sempre io. Che mi perdo e mi ritrovo. Da Malaga, mi invia un video in cui suona la chitarra e canta una canzone. Si arrabbia un po' poi, come sempre, perché non l’ho preparato alla vecchiaia e a trentanove anni è depresso. Siamo stati insieme, a Salamanca, Firenze, Napoli, Dublino, sempre un po' in conflitto ma, insieme. Poi distanti, tanto distanti. Persi e poi latenti, come ora. Al margine.
Torniamo a casa. Accendiamo il motore e torniamo, attraverso un sud a trentanove, con mano fuori finestrino. Polso piegato su bordo, attesa di percepire brezza a sfidare afa. Il pavimento è caldo, il cellulare non carica e dal rubinetto non sento acqua su dita distratte. Caldo.
Tornata. Vai dritto, supera il parco, gira a sinistra e mi troverai oltre la seconda panchina, tra le foglie secche. Vorrei che mi trovassi così. Tornata. Senza un indirizzo, in modo naturale. Tanto non possiamo sottrarci.
A casa, guardo la mappa della Turchia e mi chiedo come sono arrivata da Istanbul a Ölüdeniz, su una macchina che ci fa da casa intera. Quella nella quale ci siamo addormentati al volante e finiti su binari. Cerco sulla mappa la piccola isola. Forse è troppo piccola. Un dettaglio nel mare azzurro. Eppure, ero lì. Su una barca senza carburante, dalla quale ci riscatteranno. Ero lì, a mangiare un’aragosta, mentre la neonata giaceva a pancia all’aria su tavolo di legno. Chissà come sarà la sua vita, quella di qualcuno che dorme su un tavolo di legno su un’isola in mezzo al mare, una sola cucina e una donna che fa calzini per qualche turista, come me, che sono lì e non so come tornare indietro e mi lecco le dita mentre mangio, guardando al di là dell’ombra della pensilina, un sole accecante che mi rimuove tutta.
Sono tornata sul solito bus, con il solito anziano che mi saluta affettuosamente, mentre fingo di andare al lavoro riempiendo il tempo di necessità. Sente peggio e devo urlargli molto vicino la nostra conversazione senza carattere privato. Gli chiedo se è partito anche se conosco la risposta «eh dove vado io!». Ogni volta mi intristisce e proteggo quella tristezza come cosa cara, come sentimento giusto. Il bus traballa e tutti si lamentano, ogni giorno, ogni volta. Mi dice di aver trovato una sistemazione, in una casa di riposo a Roma. Sarà vicino ai figli, facciano quel che vogliono. La casa qui, sarà forse in fitto, e allora penso a me ma, non oso chiedere, me ne dimentico e torno a fissare la sua pelle macchiata e sguardo vispo, il corpo pesante e la solitudine di taglia sbagliata. Dov’è il suo compagno di viaggio? L’ottico si starà godendo vita in famiglia, noncurante di chi finge di dover fare la spesa.
Mentre Bill Evans continua, penso sono tornata. E alla fine mi hai trovata, tra le foglie secche.
Il solito artista di strada che canta Vasco o interpreta Charlot, oggi ha deciso Dalla. Lo supero ma, lo voglio ancora e lo metto, mentre cammino, dritto nelle orecchie. A testa bassa, sotto il berretto, proseguo lentamente, più lentamente, come in moviola, mi pizzico la bocca e penso, sono tornata, da me.
Alla scrivania dell’ufficio, ricevo un messaggio, due, tre e allora esco. Quando non è buona notizia, rallento. Chiamo. Ci sono. Ascolto. Mi siedo sui gradini della galleria sino alla fine. Ho capito. Allora mi alzo, inizio un movimento e i cerchi neri del linoleum sembrano allontanarsi fluidi dalla pestata. Non posso tornare indietro e cammino, per continuare a camminare. Cerco grounding, qualcosa che mi trattenga.
Leggera, una foglia secca, ora mossa, non puoi trovarmi più.