Grande successo per la tournèe italiana di Francesco Cataldo, chitarrista siracusano che ha ottenuto sul campo delle importanti riconoscimenti ed attestazioni di stima che sono arrivate anche dagli Stati Uniti, proprio lì dove il jazz è nato. Insieme ad un quintetto in cui spiccava la notevole individualità del pianista Kenny Werner, il nostro ha presentato Spaces, il suo ultimo bel lavoro realizzato per la Alfa Music. Instancabile ricercatore, musicista attento e ricettivo agli stimoli del contesto in cui vive, Cataldo sembra pronto al definitivo salto di qualità. Di questo ed altro ci ha parlato nella intervista che segue, a poche ore dall’applauditissimo concerto presso il prestigioso Auditorium di Roma.
Per iniziare vorrei che mi parlassi della gestazione di questo disco e di come si è poi evoluto dal vivo? Spaces contiene 13 brani scritti tra il 2005 ed il 2011. Nel 2012 ho scelto di inserire tutti questi temi in un unico progetto discografico, perché ritenevo che avessero una omogeneità compositiva tale da permettermi di creare un unico “racconto” con un prologo ed un epilogo, esattamente come avviene in un libro. A questo punto mi sono dedicato agli arrangiamenti, pensando esclusivamente ad un quintetto di chitarra, sax, piano, contrabbasso e batteria. Inizialmente ho contattato il bassista Scott Colley (il suo è un eccellente curriculum, che va da Jim Hall a Pat Metheny), per proporgli il progetto e lui si è mostrato immediatamente entusiasta, al punto da invitarmi a registrare a New York ai Sear Sound Studios. Successivamente ho contattato David Binney, Salvatore Bonafede, Erik Friedlander e Clarence Penn. Sono tutti grandissimi artisti con i quali non avevo mai suonato prima, tranne Salvatore Bonafede, col quale avevo condiviso precedentemente diversi progetti e non solo per la comune radice geografica. Dopo la registrazione, avvenuta a Settembre 2012, il disco è uscito a Febbraio 2013, mentre si è appena chiuso il primo ciclo ufficiale di presentazione con la presenza di Kenny Werner, Benjamin Koppel, Johannes Weidenmueller e John Hadfield. Per le date successive mi affiancheranno sul palco non solo gli artisti con cui ho registrato il disco, ma anche quella di altri grandi artisti italiani. Suonare dal vivo lo stesso progetto con diversi musicisti, quando ci sono le possibilità, arricchisce sempre!
Adesso vorrei approfondire i pezzi che compongono l’album ed il tuo approccio compositivo...
Tutti e 13 brani sono nati nel corso degli anni da esperienze di vita diverse. Credo che per un compositore di jazz (e non solo ovviamente), la prima fonte di ispirazione siano gli affetti personali, le amicizie, le esperienze positive ed anche negative. Oggi la sfida è proprio questa: suonare ciò che sei, non ciò che sai! Quando scrivo, quindi, parto sempre da un dato emozionale da tradurre e codificare in note. In fase di scrittura poi non seguo un determinato linguaggio o stile ma mi sforzo di pensare alla musica in generale, a tutta la musica che sento dentro.
Che obiettivo ti sei posto per questo disco in particolare? Quello di fare gruppo, squadra, ottenere un suono unico che non fosse la semplice summa dei suoni individuali. Per raggiungere questo scopo ho scritto nel dettaglio le parti di ciascuno strumento cercando di evitare il solito disco “chitarristico” e “muscolare” con la consueta successione di temi e soli individuali. Sax e chitarra, per esempio, suonano i temi e si incrociano spesso durante i soli; questo crea subito un’amalgama speciale che va poi a “contagiare” gli altri strumenti. Negli arrangiamenti ho dato importanza assoluta, quasi maniacale, ad ogni minimo dettaglio perché ritengo che l’ascoltatore debba essere messo nelle condizioni di percepire delle architetture chiare e precise per cogliere lo spirito delle composizioni. L’improvvisazione è stata sempre al centro del jazz, partendo però da melodie chiare che spesso sono diventati Standard suonati ed interpretati da milioni di musicisti. Per dare una direzione alla propria musica credo che un primo importante passo sia proprio questo: centralità dei temi, come veicolo dei sentimenti del compositore! Le improvvisazioni sono solo uno sviluppo successivo. In questo album ho dedicato diversi brani a persone care e due brani, Siracusa e Ortigia, alla mia città. Come dicevo pocanzi, ho pensato ad una narrazione, con un prologo (Our Jazz) ed un epilogo (The rain and us); ogni brano rappresenta un “capitolo” di questa piccola storia che ho cercato di raccontare nel disco.
Il titolo che hai scelto è semplice, lo possiamo ribadire anche nel suo significato?
Spazi significa spazi sonori: pause, note lunghe, respiro musicale, interplay, sound di gruppo. Nel disco la chitarra, per mia scelta, non sviluppa dei soli particolarmente lunghi, anzi, spesso, cede il passo al sax ed agli altri strumenti. Il mio secondo obiettivo, quindi, è stato quello di comunicare all’ascoltatore il mio stile, il mio mondo interiore, tramite i temi, le melodie e gli arrangiamenti, anziché le improvvisazioni del mio strumento. Non credo che all’ascoltatore interessi molto quanta tecnica possiedo ma piuttosto “Chi” sono! Adoro la chitarra, ma quando scrivo, penso alla musica in generale e a tutti gli strumenti che possono rappresentare un veicolo per esprimerla. Ho scelto di suonare in solitario alla chitarra un brano soltanto: si chiama Your Silence, ed è dedicato a mia moglie, che da poco mi ha dato l’ulteriore gioia di essere padre. Gli altri brani sono tutti arrangiati per quintetto.
Come sei diventato un musicista jazz e per esserlo, da quali altre esperienze sei passato?
Ho cominciato a studiare pianoforte all’età di 7 anni. Solo successivamente, a 13 anni, ho scoperto la passione per la chitarra e ho dedicato dieci anni allo studio della musica classica. Nel frattempo, durante il periodo adolescenziale ho cominciato ad accostarmi al rock ed al pop suonando in diverse formazioni. Da sempre ho ascoltato diversi generi musicali, adoro le contaminazioni. All’età di 23 anni finalmente ho scoperto il jazz, ascoltando Kind Of Blue di Miles Davis; questo disco mi ha totalmente stregato, ha acceso definitivamente la passione per la musica improvvisata. Da qui è cominciata una lunga ricerca armonica, del linguaggio tradizionale e moderno con l’ascolto incessante dei dischi dei grandi del jazz, sempre però mantenendo da loro un certo distacco.
A cosa ti riferisci in particolare?
Alla circostanza che da subito ho studiato più che il loro linguaggio, la loro intenzione musicale ed il loro suono. Ho preferito concentrarmi su queste qualità piuttosto che su trascrizioni illimitate che mi avrebbero allontanato dall’obiettivo principale: il mio suono, il mio mondo musicale.
Quali sono stati i tuoi riferimenti e che tipo di jazz hai ascoltato?
Da capolavoro di Miles ho poi scoperto altri autori storici di diverse correnti, partendo dal be-bop fino al cool, salvo innamorarmi follemente di Jim Hall e Keith Jarrett: sono stati e saranno sempre i miei principali riferimenti, i più grandi creatori degli “spazi” mai esistiti al pari della genialità di Bach. L’ho studiato tanto e lo studio ancora ogni giorno; la sua musica è eterna.
Nel jazz c'è ancora spazio per una musica di espressione pura, di ricerca emozionale?
Come sappiamo è stato detto, scritto, suonato tanto, davvero tanto; questo però non toglie che ogni musicista ricercatore oggi possa portare avanti un suo percorso personale. Molti si chiedono quale sarà il futuro del jazz. Di sicuro la contaminazione è e sarà un fortissimo elemento condizionante; diversi generi musicali che trasversalmente si incontrano in questo grande contenitore che è il jazz. La cosa che mi auguro però è che non si perda mai la profondità e la ricerca spirituale. Tradurre in musica le proprie emozioni è lavoro ben diverso dal suonare una serie di formule studiate e programmate per prendere parte alla fiera dei giocolieri. Il pubblico ai concerti oggi ha veramente bisogno di emozioni, non solo di stupore. Ancora si tende a gridare al miracolo quando emerge un esecutore virtuoso più o meno giovane e precoce per abbandonare e dimenticare magari chi per anni ha maturato un percorso spirituale; artisti profondi ce ne sono tantissimi ma vengono spesso “oscurati” da prodigiosi esecutori che fanno gridare al miracolo ma che spesso non lasciano poi un segno nel cuore.
Quali interessi hai oltre alle musica?
Confesso di non avere un forte interesse per qualcosa in particolare oltre alla musica. Adoro tutte le forme d’arte, i libri, e quindi mi tengo sempre aggiornato su tutto. Trascorro le mie giornate tra lezioni e studio, lettura e lunghe passeggiate. E poi adoro Ortigia al tramonto! Per questo ho dedicato a questa splendida isola il brano omonimo di cui ho parlato prima. Ma i momenti davvero illuminanti sono quelli che trascorro con le persone che amo o che in genere sanno darti energia: sono gli incontri, i volti, le esperienze il motore della composizione!
Cosa ti aspetta dopo il tour? Hai già dei pezzi nuovi da parte?
Questo 2014 sarà prevalentemente dedicato ai diversi tour di presentazione del disco. Ho intenzione comunque, nel frattempo, di dedicarmi ad un nuovo album. Ho diversi brani già pronti da registrare. Devo decidere ancora con quale organico e con quali musicisti; sempre e comunque alla ricerca dei miei “Spaces”.
Per maggiori informazioni: www.francescocataldo.eu