Non si tratta di tenere viva una tradizione, ma mantenere e rispettare la storia gastronomica della nostra cucina e il piacere del mangiare. Condivisione, non solo socializzazione alla base di una tradizione che si fa anche nella preparazione del cibo.
Quando la pasta affonda le radici nei secoli, portata avanti da mani competenti che chiudono un ripieno nella sfoglia, rigorosamente all’uovo e tirata a mano.
Le testimonianze stanno nelle mani e nelle bocche di chi prepara e di chi mangia. I luoghi e le persone danno vita alla tradizione grazie all’utilizzo delle materie prime locali: di necessità virtù. Ecco che allora nascono i tortellini, gli agnolotti, anolini, marobini, i cappelletti e, i capeletti. Linguaggio e cibo, un binomio importante, autentico e inimitabile, un percorso di stile che ha basi nel percorso culturale e storico dell’Italia; i gelosi campanilismi spesso sono la copia di ricette adatte a territori e gusti, a volte sbagli di comprensione di lingue regionali altre, adattamenti linguistici per rendere comprensibile ciò che veniva mangiato.
Lagana di epoca romana, alla rasagna - da notare come il rasagnolo, di legno di sorbo, sia lo strumento utilizzato per modellare la sfoglia -, una sfoglia sottile fritta in epoca romana, poi bollita, è l’antenato che pone le basi, storiche, della tradizione che risale la penisola e la storia.
È a partire dal medioevo, attraverso i primi ricettari, anonimi, passando al Rinascimento, che si riesce a leggere un percorso di forma e stile che porta a dare vita a quella che viene considerata tradizione.
Nei ricettari medievali che circolavano tra le diverse corti italiane, le dosi degli ingredienti che componevano una ricetta, in genere erano ampiamente lasciate all’esperienza e al gusto di chi cucinava, dando così un ampio margine di adattamento e cambiamento; basti anche pensare alla difficoltà che c’era all'epoca nel reperire gli ingredienti. Una creatività lasciata al cuoco frutto dell’esigenza di un'élite dirigenziale di distinguersi. Nei primi ricettari si legge come le paste ripiene erano cucinate in brodi molto densi di carne o di pesce, immancabilmente aromatizzate con abbondanti spezie, disposte a strati intervallati da formaggio. L’abbondanza era regina nelle corti, la cucina già doveva predisporre un effetto scenico, reso ancora più magnificente e raffinato nel Rinascimento, che inoltre dà vita ai veri e propri libri di cucina.
Emblematico e forse il più famoso è il libro del gastronomo umanista Bartolomeo Sacchi: De honesta voluptade et valetudine (Venezia 1475). Più che un libro di ricette, è un vero e proprio trattato di gastronomia, dove il filosofo Sacchi fonde il contesto culturale ed intellettuale, con quello gastronomico e con le ricette di Maestro Martino contenute nel Libro de Arte Coquinaria (1450), testimone del passaggio della cucina medievale a quella rinascimentale, considerato il capostipite e caposaldo della letteratura gastronomica italiana.
Nel libro in cui sono già presenti diverse paste ripiene con formaggi spezie e carni, spesso fritti oppure cotti in brodo, cottura ancora meno diffusa. Le dosi, vengono indicate in modo preciso dal Martino, così come anche i tempi di cottura e gli strumenti da utilizzare. Insomma, mette le fondamenta a quella che è la tradizione gastronomica italiana, con il libro di cucina e con le ricette più copiate di sempre.
È forse il rinascimento che decreta la nascita delle paste ripiene, connubio tra sfoglia e, appunto, il suo ripieno, cotte in brodo, scolate e sistemate nelle tortiere per poi essere condite a strati come nel secolo precedente. Ma, quasi dotate di vita propria, le paste ripiene iniziano a differenziarsi e prendere forme diverse attraverso canoni dati dalle tradizioni locali, che utilizzano metodi diversi per la sfoglia, il ripieno, il brodo di cottura, la tecnica e il modo di cucinarle.
Così, se precedentemente l’attenzione era data al ripieno, è ora la forma dell’involucro che deve stupire, le tavole sono abbondanti, i cibi colmano le esigenze dei commensali, ed è la vista e l’apparenza che decreta la bravura delle cucine e dei cuochi, veri e propri maestri.
Insomma, quelle che noi riteniamo ricette tradizionali, inalterate e inalterabili, sono spesso il frutto del genio e della creatività dei cuochi di corte, che davano vita a ricette elaborate e costose, attraverso le quali il principe, ma anche gli alti prelati, abati, vescovi e papi, mettevano in scena la propria ricchezza, potere e prestigio. È a tavola, quindi, che inizia il cambiamento dei canoni del mangiare e dell’apparecchiare che si fanno sempre più eleganti e raffinati, rispetto all'epoca precedente, in cui la carne rappresentava la forza e la vitalità dei potenti.
Ma ancora i ricettari sono anonimi, un veicolo che trasmette un sapere quotidiano, come Il libro per cuochi, scritto quattrocentesco in volgare; un dato che mette in evidenza il fatto che i cuochi sapevano leggere: cuochi di corte, dei conventi, che già si distinguevano dalla massa di chi cucinava per il sostentamento quotidiano.
La sfoglia, che conteneva il ripieno, inizia ad essere tagliata in modo regolare, in quadretti, cerchietti o rombi, per poi essere cotta nel brodo, ancora conosciuta con il nome di rasagne, o lasagne.
La strada si era spalancata ai grandi cuochi del Cinquecento che portano avanti una tradizione sempre più raffinata di quelle che sono le paste ripiene, con una sfoglia che inizia a farsi sempre più sottile e liscia, un ripieno più vario e decisamente saporoso di carni diverse, erbe e spezie, che vanno ad arricchire il panorama gastronomico delle cucine dei nobili e della nuova nobiltà terriera raggiungendo quelle dei ricchi borghesi, come dei dirigenti e funzionari dell’apparato dello stato. Con i matrimoni nobiliari che sancivano le alleanze tra gli stati, le ricette e lo stare a tavola, come gli strumenti di cucina e l’apparecchiatura, si diffondono in tutta Europa in modo capillare. Le cucine gestite quasi come un’impresa dove chi vi lavorava imparava dai cuochi le tecniche diverse con cui manipolare i cibi e le pietanze per creare banchetti sontuosi.
Con Cristoforo di Messisbugo, il cappelletto inizia ad avere una sua specifica forma e nome proprio, con ripieni di carne di maiale, formaggio e spezie, cotti in brodo o a strati; pochi anni dopo, il geniale cuoco delle corti papali, lo Scappi dedica al cappelletto molte ricette con ripieni di carne di maiale, cappone, erbe e le immancabili spezie, descrive in dettaglio i metodi di preparazione, specificando che i cappelletti devono essere piccoli come un fagiolo o cece, con la sfoglia pizzicata per ottenere la forma a cappello. La diffusione dei ricettari si ha dal Seicento in poi, grazie alla stampa, che decretano la popolarità delle paste ripiene tra la ricca borghesia, con la diffusione di nuove competenze e attività di produzione di queste paste; nascono i Rasagnari che specializzano l’arte della preparazione della pasta, e rientrano nella corporazione dei cuochi.
Cambiano gli ingredienti, come cambia la società e le sue esigenze. Le spezie lasciano pian piano il posto alle erbette e alle erbe aromatiche, i ripieni si gonfiano di carni di avanzo e recuperate, per non buttare via niente. È cambiata anche l’economia della gestione della cucina e una nuova creatività culinaria. L'importanza sociale e di status viene mantenuta con le portate di pasta ripiena servite ai banchetti importanti, riservate ai matrimoni, ricevimenti e festività.
Spesso i nomi variano nei contesti regionali, varianti locali, la forma e la preparazione. La pasta ripiena originaria era formata da due dischi sovrapposti, quando erano poi piegati a metà, venivano chiamati ravioletti, unendo le estremità dopo la piegatura, diventavano i nostri cappelletti. Un’evoluzione del capelletto, diventata simbolo di festa e di radicamento alla tradizione regionale che già nell’Ottocento erano diventati simbolo della tavola del Natale.
Nella Marca, che all’epoca comprendeva parte delle attuali Umbria e le Marche, il capelletto si differenzia dalle altre zone del centro Italia, era preparato con un tradizionale ripieno di tre carni di maiale vitello e cappone, con una parte di cervello di manzo o maiale e una cottura in brodo di cappone o gallina vecchia; immancabile la versione povera o di magro, fatta con il formaggio, mentre per i ripieni di verdure i ravioli erano più adatti.
Una nota a parte sono i famosi cappelletti di Gubbio che appaiono nei ricettari della seconda metà del Novecento. Comune difficile da raggiungere, eppure sede di importanti istituzioni a partire dall’epoca romana, per continuare con i Montefeltro divenne un importante centro culturale. La cucina della corte si diffuse tra la nobiltà locale prima e borghese poi, mantenendo radicata un'antica tradizione, oggi identità culturale che è riuscita a mantenere la sua integrità, simbolo tra passato e presente, ancora fatto a mano, con una versione moderna e colta di preparare il cibo della tradizione, veicolato in modo particolare dai ricettari delle cucine dei nobili e dai libri degli acquisti.