Era il 15 luglio del 1933 quando Irma Brandeis, un’intraprendente giovane studiosa americana, bussava alle porte del Gabinetto Scientifico e Letterario Viesseux di Firenze per conoscere il suo poeta preferito, Eugenio Montale, all’epoca bibliotecario e direttore di quest’antica istituzione culturale cittadina. I due non potevano sapere che in quello storico palazzo si nascondeva Cupido, il dio dell’Amore, con in mano l’arco e le frecce d’oro che fanno innamorare.

Fu il classico colpo di fulmine o, meglio, nel lessico dei due amanti, il thunderbolt che, da quel momento in poi, condizionò l’intera esistenza di due persone, nonché buona parte della produzione poetica montaliana. Da quel primo incontro nacque infatti un amore difficile e disperato, ben documentato dal fitto carteggio tra i due (ben 156 lettere), avvenuto nell’arco di sette anni, tra il 1933 e il 1939, e del quale ci sono rimaste solo le missive scritte dall’inquieta mano maschile. Queste, giorno dopo giorno, costituiscono un racconto amaro e dolce, fatto d’amore e di rancore: un testo che è sì privato e autobiografico, ma è anche intriso di suggestioni letterarie, con l’Arno “balsamo fino” a fare da cornice a tanti momenti.

Il nome di quella giovane dagli occhi chiari si è poi perso con il passare del tempo, ma chiunque abbia letto Montale non può non ricordare la Clizia idealizzata dal poeta, soprattutto nella raccolta poetica Le occasioni. Come abbiamo visto, la ragazza alta, snella ed elegante che bussava alle porte non si chiamava affatto Clizia, e forse non era nemmeno interessata alla vicenda narrata da Ovidio nelle Metamorfosi, dal quale Montale ricava il nome e il mito della Ninfa innamorata del Sole, trasformata in girasole e sempre fedele al suo astro.

Irma Brandeis, ebrea americana secondogenita di un’importante famiglia di intellettuali, aveva in dote un curriculum di tutto rispetto: italianista, anglista, traduttrice e scrittrice in proprio, aveva già pellegrinato per tutta l’Europa e, prima dell’incontro con Montale, era già stata a Firenze.

I due iniziarono a vedersi nell’estate del 1933, ma in autunno la Brandeis tornò in America. Montale iniziò allora una storia molto tormentata con la scrittrice Drusilla Tanzi, che lo sottoponeva a continui ricatti, minacciandolo di uccidersi, se l’avesse lui lasciata. Quindi, nonostante il suo amore per la Brandeis, Montale non riusciva a liberarsi dell’ombra della Tanzi, che nelle lettere chiamava semplicemente X. Questa situazione continuò fino al 1938 quando, con la guerra che si avvicinava, la Brandeis, ebrea, non ebbe più modo di tornare in Italia, a causa delle leggi razziali. Furono anni di passione a distanza, con il desiderio di ritrovarsi a New York, e tutto questo venne splendidamente documentato nelle lettere montaliane.

Si possono citare queste righe tratte da una lettera del dicembre 1933, quando la Brandeis aveva da poco lasciato Firenze per tornare negli Stati Uniti:

Mia cara Irma, sono passati ormai quattordici giorni e io non ho più avuto notizia alcuna. (…) Mi avevi detto che scrivevi ogni settimana, come ho sempre fatto io, bene e male; e invece…Ti prego di togliermi da questa perplessità che mi impedisce di diffondermi a lungo. Sai che ti voglio bene, più bene di prima, ma ci sono dei giorni, come questo, in cui privo di notizie, pieno di freddo, di guai e di malinconie, io non riesco a vederti. Ti voglio bene e non ti vedo. Sei viva? Esisti? Che cosa sta macchinando l’ignobile destino? Non è questione di fede: io ho fede in te; benedico il giorno in cui ti ho incontrata. Ma sento la mia debolezza, sotto il varco di 10000 miglia, sento l’ingiustizia della sorte.

Queste lettere sono dei documenti estremamente importanti anche per gli studiosi di letteratura, in quanto non mancano dei riferimenti alla poetica montaliana, come per esempio in questa, datata sempre dicembre 1933: “…La mia filosofia? Non ne ho. Ne hanno estratta più d’una dai miei versi, ma a torto. Per me la poesia è questione di memoria e di dolore. Mettere insieme il maggior numero possibile di memorie e di spasimi, e usare la forma più interiore e più diretta. Non ho fantasia; mi occorrono anni per accumulare poche poesie. L’esecuzione materiale, poi, è rapida; spesso è questione di minuti”.

Non mancano, ovviamente, i riferimenti alla contemporaneità, come in questa lettera del 1935, in cui parla della sua frequentazione con Ezra Pound: “Darling, ho passato la mattinata con Ezra Pound che sta scrivendo trattati di economics e che ammira ardentemente the cardinal; unico uomo, secondo lui, che tiene in scacco i vari comités des forges e impedisce novelli orrori. I cant decide: evidentemente la politica è superiore alle mie forze”.

Ma è sempre l’amore, tanto tormentato quanto duraturo, ad essere il protagonista assoluto di queste lettere: “Mia cara Irma, io sono abituato a cibarmi di nuvole e lontananze, ma tu meritavi qualcosa di meglio! Io sarò sempre tuo, a tua disposizione, pronto a fare quello che vorrai, e persino a pensare quello che vorrai farmi pensare…non desidero di meglio che pensare con la tua testa e vedere con tuoi occhi” (da una lettera del dicembre 1933).

Ed è sempre dall’amore che è dominata l’ultima missiva montaliana, scritta da Firenze nell’11 dicembre 1939: “Darling, forse faccio male a scriverti, mi rendo più colpevole. Ma forse posso ancora osare. Io ti voglio bene più dei miei occhi e non so perché insisto a restar vivo: forse perché l’ho promesso a te? Tutto è troppo orribile”.

E così, tra versi d’amore e prosa di romanzi, si dipanano queste toccanti lettere, che Irma Brandeis ha sottratto alla polvere e all’oblio consegnandole alla posterità, con una volontà che compensa i biografi e intenerisce i lettori di poesia, i quali avranno di che nutrirsi dagli scritti di questo alchimista della parola, capace di trasformare il veleno in farmaco, l’arsenico in ambrosia, le lacrime in cristallo.