Sono passati trent’anni esatti. Trent’anni da quei giorni di inizio aprile che segnarono, tanto inesorabilmente quanto rapidamente, l’inizio di uno dei peggiori crimini contro l’umanità dell’epoca moderna e contemporanea.

Il 6 aprile 1994 due missili terra-aria colpirono, in fase di atterraggio, l'aereo presidenziale dove viaggiava l’allora presidente ruandese Juvénal Habyarimana assieme al suo omologo del Burundi, Cyprien Ntaryamira, entrambi di etnia Hutu.

A poche ore dalla tragedia aerea seguirono sanguinosi massacri che, in soli cento giorni, portarono alla morte quasi un milione di persone, nel più conosciuto Genocidio del Ruanda. Un orrore che, trent’anni dopo, rimane intatto.

L’esplosione del jet presidenziale fu il detonatore di un conflitto che aveva già avuto tanti precedenti: un odio interetnico tra Hutu e Tutsi con profonde radici storiche e un’enorme responsabilità coloniale europea, prima dei tedeschi e poi dei belgi, che si susseguirono nel controllo di tutta la regione dell’Africa Centrale.

I presupposti

Il regno di Ruanda, dal XVIII secolo, cominciò a essere governato dal clan dei Tutsi - allevatori appartenenti all’aristocrazia e detentori del potere politico - arrivando al picco massimo di espansione e conquista durante i quarant’anni di regno del re Rwabugiri, dove una serie di riforme amministrative causarono un’ulteriore spaccatura etnica tra i due gruppi, le quali includevano pratiche di lavoro forzato nei confronti degli Hutu - agricoltori di estrazione più umile che gestivano il culto religioso.

Una volta insediatasi l'amministrazione coloniale del Belgio, alla fine del diciannovesimo secolo, la differenza etnico-razziale venne alimentata ulteriormente, accentrando tutto il potere nelle mani dei Tutsi e privando gli Hutu - che rappresentavano oltre l’80% della popolazione - della loro unica autorità rimasta, quella religiosa, trasformando quella che era una semplice distinzione socio-economica in una antropologia razziale basata sulle caratteristiche somatiche e sullo status sociale.

Il clima di crescente tensione interna provocò, a fine degli anni Cinquanta, tafferugli e rivolte degli Hutu contro il regno dei Tutsi e condusse all’indipendenza dal Belgio nel 1962. Il conseguente sterminio di oltre centomila Tutsi e la loro emigrazione nei vicini Uganda e Burundi fecero seguito a decenni di guerriglie, provocando decine di migliaia di vittime e portando più di un milione di profughi nei paesi limitrofi. Trent’anni dopo l’indipendenza, in Uganda i molti rifugiati Tutsi fondarono un gruppo politico-militare chiamato RPF – Fronte Patriottico Ruandese che fomentò, nei primi anni Novanta, la guerra civile a cui seguì il più grande genocidio del Ventesimo Secolo.

I cento giorni

A poche ore dall’attacco missilistico aereo lanciato dai guerriglieri Tutsi dell’RPF, dove persero la vita le due più alte cariche di stato di Ruanda e Burundi di etnia Hutu, con il pretesto di una vendetta trasversale cominciò un’ondata di massacri senza precedenti, in una veloce escalation di violenze da parte degli estremisti Hutu contro la popolazione Tutsi, ma anche verso quegli Hutu più moderati che si opponevano al genocidio.

Nel corso di appena cento giorni, milizie Hutu armate di machete e armi da fuoco massacrarono brutalmente fino a un milione di persone in maniera pianificata e capillare. Venivano, uccidevano, se ne andavano. Era questo il modus operandi: ogni giorno, da aprile a luglio. Ferivano le vittime con granate e fucili prima, finendole poi con il machete e le lance, in un rito quasi iniziatico e primitivo.

Donne e bambini furono costretti a fuggire dalle loro case date alle fiamme, trovando rifugio nelle chiese cattoliche della capitale Kigali, mentre i mariti, i fratelli o i padri venivano torturati, sgozzati e infine abbandonati come trofei ai margini della strada. La necessità era di eliminare i “serpenti” dal Paese: così venivano chiamati i Tutsi, vittime della stessa sorte, schiacciati o bastonati alla testa.

Mezzo milione tra donne e bambini in fuga sono stati violentati e trucidati: lo stupro era considerato una vera e propria arma di guerra durante il conflitto. Per la prima volta nella storia, infatti, il tribunale dell’Onu ha riconosciuto e condannato le violenze sessuali di massa come un atto di stupro genocida.

Nel luglio 1994, la vittoria del gruppo Tutsi para-militare RPF contro le forze governative, e la successiva fuga di oltre un milione di Hutu verso i confinanti Burundi, Repubblica democratica del Congo e Uganda per paura di essere giustiziati, mise finalmente fine alla follia genocida.

E poi?

L’attentato aereo è stato la scintilla che ha fatto partire un piano che era già preordinato, pianificato e strutturato in ogni dettaglio, coadiuvato da chi ha riempito per anni il Ruanda di armi, importando centinaia di migliaia di machete dalla più economica Cina, diventando nei tre anni precedenti al genocidio, il terzo importatore di armi del Continente Africano.

Le Nazioni Unite e la comunità internazionale furono in gran parte inerti di fronte alla tragedia che si svolgeva sotto i loro occhi. La mancanza di intervento efficace ha contribuito al crescente bilancio di morti e alla perpetuazione dell'orrore.

Oggi si è cercato di fare i conti con questa insanabile lacerazione tra gruppi etnici che da secoli compongono il tessuto connettivo del Paese, portando ad una convivenza tra etnie, tra assassini e sopravvissuti.
La creazione del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (ICTR) e dei tribunali Gacaca ruandesi ha contribuito a perseguire i responsabili del genocidio, promuovendo il processo di riconciliazione tra le vittime e i carnefici. Come Anne Marie e Celestine: Celestine impugna il machete per tagliare la legna nel cortile di casa di Anne Marie, lo stesso machete con cui, trent’anni prima, era stata minacciata e ferita. Ormai lo guarda senza più paura, ha perdonato lui e gli orrori visti e subìti, ma non ha dimenticato.

Nel 2023, più del 70% dei 14 milioni di abitanti del Ruanda hanno meno di 30 anni: desiderano liberarsi dal peso di un genocidio che non hanno vissuto, senza però dimenticarne il passato.