Nella penombra del palcoscenico del Teatro Litta sembra materializzarsi un quadro: il fondo è cupo e in primo piano giace una giovane donna con capelli corvini che le scivolano sulle spalle; si volta e si sveste parzialmente di quell’abito bianco, campestre, antico. La chioma le copre in parte la schiena muscolosa che ci volge; impugna un bastone posato a suoi piedi dal quale lentamente cade una pioggia di polvere bianca che si propaga nell’aria scura. L’estetizzante apertura della commedia Coltelli nelle galline del drammaturgo scozzese David Harrower bendispone a ciò che si rivelerà una felice trasposizione curata dal regista Antonio Syxty.
La vicenda agreste ruota attorno tre personaggi: una donna senza nome, suo marito stalliere “Pony William” e il temuto mugnaio Gilbert. La coppia conduce una vita semplice, bucolica, di lavoro e preghiera. La Donna ambisce a possedere conoscenze che le sono proibite, poiché pericolose e inadatte; il marito trascorre la maggior parte del suo tempo nella stalla, ove la moglie non è ben accetta; il mugnaio, segregato nel mulino fuori dal Paese dal quale è stato escluso, scrive e colma la sua solitudine leggendo. I personaggi interagiscono tra loro pur mantenendo un’identità marmorea, a tratti inalterabile, concedendosi all’altro con cautela.
Marco Grossi traduce in frasi brevi, talvolta monosillabiche, l’arida semplicità di William; Marianna De Pinto, la moglie sognante, sempre così fastidiosamente appellata “Donna”, anima la scena con pathos e forza immaginifica, mentre Giuseppe Pestillo, il mugnaio Gilbert dalla folta barba incolta, incarna toni cupi, con voce profonda e incisiva. Gli attori abitano la scena liberamente, fruendo ogni singolo elemento contenuto in essa, spesso senza razionale continuità: come ad esempio l’attraente danza che si sviluppa attorno al telaio di una porta, posto in primo piano sulla scena, dal quale i personaggi entrano ed escono in maniera confusionaria, talvolta passandovi attraverso, talvolta aggirandola, senza logica apparente.
La scenografia scarna lascia molta libertà d’immaginazione allo spettatore, che senza troppa fatica colloca al proprio posto stalle, mulini, e campi sconfinati. Ogni cambio di scena è prontamente segnalato da un suono imponente e caratterizzante. La narrazione è difatti articolata in 24 “quadri”, non intesi in senso pittorico ma bensì maggiormente accostabili ai capitoli cinematografici, sebbene carichi di una forte dose di identità pittorica in virtù della modulazione luminosa. Oltre al segnale sonoro, i 24 quadri sono spesso introdotti da un voice off che come un antico imbonitore accompagna lo spettatore nella nuova scena, descrivendo di volta in volta il nuovo contesto. In alto, sulla parete oltre la scena, vengono proiettate delle vere e proprie didascalie per ogni sequenza, le quali espandono lo spazio scenico in una multimedialità accattivante, e lasciano prefigurare l’ambientazione immaginaria allo spettatore.
Anche la parola dunque si rende indipendente dall’attore, al pari degli attori stessi, i quali procedono l’uno accanto all’altro ma senza incontrarsi mai: le riflessioni e i dialoghi potrebbero spesso apparire veri e propri soliloqui, singole unità indipendenti che convivono armonicamente nello spazio scenico. La narrazione procede lineare, in un’alternanza di atmosfere, linguaggi e sentimenti che la traduttrice del testo Alessandra Serra definisce “primitivi”: “È una commedia che oserei definire primitiva e agreste… i personaggi stessi sono primordiali, essenziali, istintivi e più di ogni altra cosa poetici. È un’opera magnifica e poco compiacente”.
La primitività è ben chiaro risieda nel linguaggio scarno, nella scenografia aspra e virile, scevra da ogni vezzo; negli abiti semplici, spesso indipendenti da predefinite connotazioni storiografiche. Il contenuto, all’opposto, è copiosamente articolato: attraverso un’assidua maieutica, un processo di ricerca reciproca e talvolta solipsistica del dialogo, assistiamo a un graduale mutamento di stato dei personaggi che lentamente si evolvono dallo stato primitivo assumendo consapevolezza di sè e dell’altro. Con movimenti attenti, accorti e coloranti modulazioni vocali gli attori conducono i personaggi all’interazione, allo scambio: talvolta esiguo, talvolta lauto, mai totale.
La polvere bianca che spesso viene propagata nell’aria generando atmosfere sognanti, è in realtà borotalco, che - premeditato o no -, inebria la platea con un piacevole profumo, in fervido contrasto con ciò che accade poco più avanti, oltre il limite invisibile della quarta parete. La commedia di Harrower per la regia Syxty propone dunque uno spettacolo insolito, durante il quale siamo chiamati a interagire prontamente con immaginazione compensatrice. Svariati gli accorgimenti registici che volgono lo sguardo alla sperimentazione sorta dall’interazione di più media espressivi, rendendo uno spettacolo campestre un’esperienza singolare, divergente dalla tradizionale fruizione del teatro.
Coltelli nelle galline
Di David Harrower
Traduzione: Alessandra Serra
Regia: Antonio Syxty
Con: Marianna De Pinto, Marco Grossi, Giuseppe Pestillo
Scene e costumi: Guido Buganza
Luci e immagini: Fulvio Melli
Staff tecnico: Alessandro Barbieri, Ahmad Shalabi
Foto di scena: Valentina Bianchi, Lucia Puricelli, Gianni Congiu
Direttore di produzione: Gaia Calimani
Produzione Litta_Produzioni / Malalingua Associazione Culturale