Sin dalle scuole secondarie ci viene spiegato che cosa s’intende per Paesi in via di sviluppo, un concetto che ha a che fare con la nostra vita quotidiana e di cui scordiamo il significato in maniera troppo repentina. Le numerose denunce emerse dalle conferenze ONU sull’economia e lo sviluppo lanciano un allarme sulla tratta di denaro che, da questi Paesi, le multinazionali trasferirebbero verso i paradisi fiscali. Quando si parla di Paesi in via di sviluppo si fa riferimento, tra le altre cose, a realtà che affrontano gravi difficoltà per quanto concerne salute e istruzione. Questi Paesi hanno servizi non accessibili e di bassa qualità, nonostante le ricchezze di cui dispongono. È chiaro che la dicotomia influisce negativamente sul benessere delle popolazioni. I capitali che si dirigono verso mete esotiche vengono sottratte a scuola e sanità e questo è il motivo principale per cui molte realtà rimangono perennemente in attesa di sviluppo senza riuscire a fare il passo decisivo verso la modernità.
Gli esempi che l’ONU ribadisce sono conosciuti e fa male pensare che a certe notizie potremmo esserci abituati troppo in fretta. Perché l’oro che acquista l’Europa dagli Emirati Arabi potrebbe essere collegato con i conflitti in Dafur e Sudan. In Congo i bambini estraggono tutto il giorno, e anche la notte, il cobalto che serve per fabbricare le batterie delle auto elettriche. In Ucraina assistiamo a un conflitto che ha sollevato molti dubbi, vista l’immensa ricchezza di risorse di cui gode il Paese. Per essere chiari, in Congo si trovano i due terzi di cobalto del pianeta, eppure si tratta di uno dei luoghi più poveri che esistano, le cui sorti politiche sono sempre appese a un filo. Dalle ricchezze naturali, la popolazione non trae nessun beneficio. In Ucraina si trova uno dei più grandi giacimenti di uranio del mondo, oltre alle riserve di carbone, gas e petrolio che non solo dovrebbero rendere il Paese energeticamente indipendente, ma dovrebbero rifornire tutto il continente europeo senza grandi problemi.
E se da una parte questi Paesi vivono in maniera drammatica il loro personale paradosso, dall’altro sono costretti a subire le insistenze dei Paesi industrializzati perché si metta in moto la transizione ecologica. Le stesse potenze economiche che continuano a sfruttare i giacimenti dei Paesi in via di sviluppo premono perché venga cambiato il modello dello sfruttamento. Vorrebbero che ne venisse adottato uno sostenibile, che crei meno danni possibili al pianeta. Non solo il Congo non riesce a sfruttare le proprie risorse naturali e a emanciparsi, ma sarebbe anche in ritardo sulla tabella di marcia verso l’utilizzo responsabile di queste risorse. Un vero teatro dell’assurdo se non fosse per il numero di morti che il lavoro minorile produce ogni anno. I materiali come litio, nichel, manganese e cobalto, ma anche le cosiddette terre rare, cioè i 17 elementi chimici scarsamente presenti in natura ma essenziali per produrre tecnologie, potrebbero dare ricchezza e invece importano guerre e conflitti. Sia quelli veri e propri, sia quelli finanziari denunciati dall’ONU.
Si chiamerebbe maledizione delle risorse naturali, oppure paradosso delle risorse, questo fenomeno appena descritto e che l’ONU cerca di debellare, finora con scarso successo. Quando un Paese dipende in larga parte dalle entrate derivanti dalle esportazioni delle materie prime, l’economia in genere è instabile. I rischi sono dati dalle fluttuazioni dei prezzi nei mercati internazionali, i metalli preziosi, per quanto siano beni rifugio, sono soggetti a volatilità. Oltre a difendere le proprie risorse, è necessario che i governi siano abili a gestire le esportazioni per non danneggiare i bilanci nazionali. È questa è un’operazione complessa, se pensiamo che una delle conseguenze dell’avere così tanta ricchezza in casa è l’alto tasso di corruzione che caratterizza l’operato delle élite che hanno conquistato il potere. La presenza di risorse naturali preziose è associata alle tensioni e ai conflitti interni che lacerano la popolazione, costretta a combattere per il controllo della ricchezza, ma anche per la libertà. L’instabilità politica e sociale porta sempre alla povertà.
Il rapporto tra la ricchezza di materie prime e la povertà è molto complesso da analizzare ed è difficile sia da spiegare che da capire, perché può variare da Paese a Paese. Alcune realtà sono riuscite a raggiungere un livello soddisfacente di progresso sfruttando le ricchezze che avevano in casa grazie a governance illuminate che hanno agito con trasparenza. Il Botswana, per esempio, è un modello da seguire quando si fa riferimento ai Paesi ricchi di risorse naturali che hanno saputo gestire gli investimenti. Le entrate derivanti dalla vendita dei diamanti sono servite per implementare lo sviluppo sociale e la crescita economica proprio grazie ai miglioramenti nei settori della salute e dell’istruzione. Il Cile ha gestito le entrate derivanti dalla vendita del rame per finanziare il Copper Stabilization Fund, un fondo che ha reso solido il programma fiscale ammortizzando le fluttuazioni dei prezzi delle commodities. Anche in questo caso gli investimenti sono stati programmati per ottenere miglioramenti con infrastrutture e riforme sociali. La Malesia ha diversificato la sua economia investendo nell’industria e in alcuni settori non legati alle materie prime. Industria manifatturiera e turismo sono state le scelte fatte dal governo per avere uno sviluppo economico completo e ad ampio raggio. Anche gli Emirati Arabi e, in particolar modo, Dubai hanno diversificato scegliendo i settori immobiliare, turistico e delle infrastrutture per ridurre la dipendenza dal petrolio.
Studiare politiche mirate per sfruttare i benefici derivanti dalla presenza di risorse naturali nel Paese permetterebbe di realizzare più facilmente la transizione ecologica. Questo percorso mette in moto un processo virtuoso nella gestione delle risorse che possono essere preservate per le generazioni future. Il rischio di estendere la frattura esistente tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo ai Paesi che stanno effettuando la transizione in questi anni esiste. È reale. Gli standard internazionali riguardanti le politiche ambientali sono stati elevati e mentre i Paesi come Botswana, Cile e Malesia potrebbero in breve tempo riuscire a mettersi in scia con Stati Uniti e Unione Europea, le realtà come il Congo potrebbero essere ulteriormente penalizzate dalla mancanza di una solidità politica e di un programma equo di sfruttamento delle risorse. È necessario appropriarsi delle risorse di cui si dispone come primo passo e solo in seguito diversificare gli investimenti per limitare la dipendenza dai settori tradizionali in favore di settori sostenibili come tecnologie ed energie rinnovabili. Non sarà facile uscire dalla morsa delle forze che premono per il mantenimento dello status quo, ma è necessario che il percorso virtuoso sia intrapreso prima possibile. Sia per garantire il benessere dei popoli coinvolti, sia per garantire il benessere del pianeta.
In futuro, tutti i Paesi dipenderanno in minima parte dai combustibili fossili e utilizzeranno energie pulite, la transizione ecologica e digitale è un’opportunità e i Paesi in via di sviluppo la devono cogliere. Ma hanno bisogno di un aiuto da parte dei governi internazionali e degli enti che hanno compiti di controllo. Arginare lo strapotere di alcune multinazionali è fondamentale per fare in modo che chi ora si trova indietro possa partecipare attivamente ai mercati globali. È una sfida che andrà vinta sul lungo periodo ma che andrebbe combattuta fin da subito. Gli investimenti mirati sono l’unico modo per portare a casa questa transizione con successo e in tempi ragionevoli. Ma le piaghe come il lavoro minorile che flagellano i Paesi africani devono essere debellate con determinazione e con l’aiuto delle organizzazioni internazionali. Bisogna intervenire senza perdere altro tempo. Esiste un aspetto morale di cui va tenuto conto, che va aggiunto alle incredibili limitazioni che questo tipo di problemi provocano a crescita globale e stato di salute del pianeta. I bambini che sono costretti a lavorare non possono accedere a istruzione e studio e sono esclusi dai settori economici avanzati. Il lavoro minorile alimenta il ciclo di povertà delle popolazioni svantaggiate e diminuisce le opportunità di investimento ostacolando il progresso economico. Naturalmente non sono da sottovalutare l’impatto demografico, con l’aumento del tasso di mortalità, e la violazione dei diritti umani, che colpisce il Paese non solo nell’immagine e nella reputazione a livello globale. Ma lo colpisce al cuore e nel profondo dello spirito. Quello della comunità.
In questo caso, il lavoro svolto dalle organizzazioni internazionali e dalle diverse agenzie che hanno un ruolo specifico diventa indispensabile, soprattutto nei Paesi del continente africano. L’ILO, l’organizzazione internazionale del lavoro, è impegnata a stabilire nuovi standard internazionali di monitoraggio e di assistenza per i Paesi colpiti da piaghe simili. Unicef, OMC, African Union e le varie ONG, organizzazioni non governative, sanno di dover collaborare con le comunità locali per debellare il lavoro minorile in varie parti del continente. Il loro compito è complicato dalla presenza di numerosi conflitti che sono causati proprio dalla presenza delle tante risorse naturali che fanno gola ai molti attori coinvolti. Combattere il lavoro minorile significa allentare le pressioni derivanti dai Paesi industrializzati e dalle loro richieste economiche che stanno diventando insostenibili da diversi punti di vista.
L’emancipazione dei Paesi africani ricchi di risorse è un obiettivo complesso che coinvolge diversi aspetti, non solo economici ma anche politici e sociali. La partecipazione delle comunità locali è fondamentale in quest’ottica. Senza la collaborazione delle persone che dovrebbero beneficiare del cambiamento, persone che dovrebbero partecipare alle attività di pianificazione e programmazione, è impossibile ottenere risultati e raggiungere gli obiettivi preposti. È necessario che ci siano investimenti mirati verso formazione e istruzione, così da migliorare la qualità della forza lavoro e la sicurezza del lavoro stesso. La cooperazione internazionale mira a raggiungere tutti questi obiettivi. Per questo vediamo spesso azioni congiunte di organizzazioni governative e non governative quando si tratta di affrontare sfide complesse. Capita quando si tratta di affrontare catastrofi naturali e umanitarie, oppure di realizzare programmi di salute pubblica. Ultimamente, però, anche i settori dell’istruzione e dello sviluppo sostenibile hanno visto aumentare il numero di collaborazioni che hanno migliorato l’accesso a determinati servizi. Room to Road e Oxfarm hanno collaborato con i ministeri dell’istruzione per implementare programmi educativi e sviluppare le competenze giovanili in materia di impiego e lavoro. Greepeace e WWF collaborano con i governi nazionali per proteggere la biodiversità che viene colpita dalle attività estrattive, promuovendo quelle sostenibili tipiche delle economie agricole. Amnesty International lavora insieme con diverse agenzie e con i governi nazionali per attuare riforme legislative e sensibilizzare l’opinione pubblica circa i problemi che riguardano i giovani e i bambini.
La globalizzazione ha collegato i diversi fenomeni sociali che stanno sconvolgendo la geografia e la demografia del nostro pianeta. Quando nei Paesi in via di sviluppo che sono ricchi di risorse naturali scoppia un conflitto per il controllo del potere e delle ricchezze, i flussi migratori si mettono in moto istantaneamente. Queste concatenazioni sono in grado di creare fenomeni sociali che portano sofferenza alle fasce più deboli e meno protette della popolazione. Le loro vite vengono sconvolte in pochi attimi, sono necessari assistenza e protezione legale oltre che risorse da impiegare sul campo e nei territori. L’operato delle organizzazioni internazionali diventa fondamentale, ma si tratta di situazioni di emergenza, spesso umanitarie, che a lungo andare bloccano la crescita dei Paesi che avrebbero più bisogno di pace e prosperità. Ogni qual volta scoppia un conflitto legato alla presenza di nuove risorse naturali da accaparrarsi a ogni costo, sono progresso, benessere globale e pianeta a pagarne il costo. Quindi in definitiva sono le persone, siamo noi, a pagare. È necessario un cambio di mentalità immediato, l’ONU ne è consapevole, ma dobbiamo esserlo anche tutti noi. Le cause per cui lottare devono essere sposate dal maggior numero di persone possibili. Dobbiamo aumentare al più presto la nostra consapevolezza. E pensare a un mondo più equo da proiettare verso il futuro. È un impegno morale che dobbiamo prendere nei confronti delle generazioni che verranno dopo di noi che si aspettando una risposta decisa in questo periodo di forte transizione.