Con la complicità dei social e di un mormorio mediatico che segue tutte le direzioni possibili - quest’ epoca è quella in cui il desiderio di protagonismo è più spiccato che mai. Attirare l’attenzione è l’urgenza. L’ eccessivo e l’inopportuno, diventano sintomo e malattia della società. Quante letture di un fatto accaduto? Punti di vista, polemiche, frasi gratuite!
A febbraio scorso, come avviene ogni anno, la settimana del festival di Sanremo ha fermato tutto. Le notizie importanti sono passate in secondo piano, alcune sono completamente scomparse dai radar. Pochi giorni intensi di divertimento abilmente costruito, e poi riflessione, spettacolo, critiche, polemiche, greenwashing e una mescolanza di cose in un frullato, che in un batter d’occhio verrà dimenticato… (lo è già). E intanto, quatto quatto, un nuovo paradigma si è affacciato alle nostre vite, senza che nemmeno ce ne accorgessimo: la rappresentazione (di noi).
Sanremo ha preceduto un piccolo evento accaduto nella mia esistenza. Un conoscente, forse animato da buoni propositi, pensando di agire correttamente, mi ha fatto sapere di aver “detto” / ”fatto” una “tal cosa” anche a nome mio. La lampadina mi si è accesa, illuminando un mondo: la rappresentazione. E con quella luce, una domanda: Perché tutti hanno la smania di rappresentare qualcosa o qualcuno? E senza chiedere nemmeno il permesso?
Il pensiero è tornato inevitabilmente sul palco di Sanremo, e ho immaginato me, abitante del Sud, a soli pochi chilometri da Napoli. Non ho memoria di qualcuno che abbia mai rappresentato Firenze o Brescia, o una qualsiasi altra città. A Napoli invece accade anche questo; Partenope ha bisogno di esponenti, di simboli, di qualcuno che, mostrando un modello dica: “Ecco, i napoletani sono così!”. O forse, mi sbaglio; un po’ ovunque accade. La competizione canora non conta più, e nemmeno i gusti musicali, qui sentiamo il bisogno di sottolineare la nostra appartenenza, proprio come si fa allo stadio, alla ricerca incessante e a tratti patetica di un’identità ormai smarrita. E allora, diventiamo brutte copie di re e regine, ci auto eleggiamo a difensori, paladini, sostenitori. Parliamo in nome di un popolo e per giunta lo rappresentiamo anche. Ma poi, noi sappiamo chi siamo veramente?
Sulle polemiche sanremesi si sono espressi intellettuali di varia levatura. Il vangelo secondo Saviano, ad esempio, dice che il nord o una parte del paese, nel tentativo di dare una spiegazione ai voti di Geolier, ha pensato a un complotto organizzato a Secondigliano, e persino allo zampino della camorra. Il sindaco di Napoli, dal canto suo, ha accolto il giovane Geolier di Borbone, nuovo re di Napoli, con una targa, e dicendo proprio quelle paroline magiche che i napoletani volevano sentire: “Tu rappresenti Napoli”. Ma poi non c’è una sola Napoli da rappresentare, c’è anche chi vuole incarnare una Napoli bene, distinta da una Napoli male. Quella dei valori da una parte e quella dei morti di fame dall’altra, quella aristocratica e quella debosciata.
Bastava solo dire che Napoli era ed è un Regno immenso, da sempre aperto ad altre culture e civiltà. Lo dimostra il Reale Albergo dei poveri, piazzetta Nilo, le Catacombe di San Gennaro, il complesso universitario “L’Orientale”, i quartieri spagnoli, Napoli sotterranea e le mille tracce che il mondo intero ha lasciato passando di qui. Di quel mondo che ha stabilito subito un contatto, che è stato accolto, che si è mescolato, che si è trasformato contaminando, ma solo per creare ricchezza e bellezza. Senza confini, senza pregiudizi. Bastava semplicemente raccontare cosa era Secondigliano prima di quegli anni criminali e sanguinari, che hanno sporcato il nome e la reputazione del quartiere. (Parliamo della criminalità di quel breve periodo in fatti, circostanze ed eventi ampiamente raccontati da libri, giornali, film, serie tv, programmi televisivi, telegiornali, talmente tanto che non se ne può più!).
Bastava raccontare il presente delle associazioni culturali, degli abitanti di Secondigliano che curano le aiuole e spazzano le strade sotto casa, che si appassionano ai numerosi progetti di inclusione. Di quel circuito di solidarietà che protegge, aiuta, tende la mano a chi rischia di cadere sotto la malavita. Ma questi eventi non sono attenzionati da radio, tv o film e documentari.
Costruire mondi e imperi sui consensi e sulla rappresentazione, sui modelli e sull’apparenza è un tema caldo, ma anche immenso, nel quale perdersi è molto semplice.
Il conoscente che ha sconfinato, che ha pensato di testa sua, decidendo per qualche ragione oscura di rappresentare me, mi ha fatto quasi rabbrividire, scatenando una crisi esistenziale.
E questo non c’entra nulla, con la stima, la simpatia o con le inevitabili distanze di fatto e da prendere, o con quel sottile e ineludibile rigetto per il genere umano, che a volte, fischiettando, cerchiamo di ricacciare giù.
Perché sentiamo il bisogno di rappresentare qualcosa? Chi decide di rappresentare una città o un gruppo di persone, lo fa perché glielo hanno chiesto? Dall’altra parte, chi ha bisogno di essere rappresentato, è perché è impossibilitato, ha un grave impedimento a parlare, sentire, camminare o pensare? Le strade sono interrotte per lavori in corso? C’è un allarme bomba?
Io credo nel valore delle singole persone. In quelle qualità umane che non si misurano con un ipotetico e futile successo, oppure con i like e i follower.
Lo dico qui e ora, in modo chiaro: Non cerco rappresentanti, io posso ancora descrivere me, disegnare, interpretare sogni e pensieri, e somigliare quando voglio (e liberamente) alla versione migliore o peggiore di me. Inoltre, s'intende, parlo a nome mio.
Questo gioco di rappresentazioni e di specchi mi ha fatto pensare al celebre libro di Muriel Barbery - L’eleganza del riccio - quando dice:
Ecco, quindi, il mio pensiero del giorno: per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre. Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo. Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all'incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell'altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire. Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.
Poscritto… da L’eleganza del riccio
Ma io l’ho osservata quando parlava con Jean Arthens, quando parlava a Neptune alle spalle di Diane, quando guarda le signore del palazzo che le passano davanti senza salutare. Madame Michel ha l’eleganza del riccio: fuori è protetta da aculei, una vera e propria fortezza, ma ho il sospetto che dentro sia semplice e raffinata come i ricci, animaletti fintamente indolenti, risolutamente solitari e terribilmente eleganti.