Il 16 gennaio 2024 è una di quelle, tante, troppe, date che i tifosi giallorossi non potranno mai dimenticare: l’esonero di José Mourinho. Prima o poi sarebbe potuto succedere o sarebbe dovuto succedere? La risposta sarebbe stata univoca e fuori dal coro «il più tardi possibile».
Forse lo striscione con scritto “Speravo de mori’ prima” non smetterà di levarsi in Curva Sud.
Uno dei più grandi allenatori della storia del calcio, forse o quasi certamente, il più vincente insieme a Carlo Ancelotti, è stato cacciato da Trigoria “con effetto immediato”. Un comunicato stampa che nessuno vorrebbe mai leggere. Una nota scritta con la consapevolezza di aver esonerato quell’allenatore che è riuscito a raggiungere due finali europee.
Neanche gli allenatori delle leghe inferiori verrebbero esonerati in questo modo. Mourinho è stato colui che ha portato, dopo gli ultimi anni disastrosi, una mentalità vincente ad una famiglia e ad una squadra che merita la giusta importanza. Con una compagine composta da giocatori limitati e una società completamente assente, durante il suo percorso con la Roma, è riuscito a raggiungere Tirana e a vincere la prima edizione della Conference League: la prima coppa europea vinta nella storia della Roma. Grazie alla sua esperienza, grazie ai suoi muri e ai suoi contropiedi tanto criticati. Si è caricato Roma e la Roma sulle spalle ottenendo una vittoria storica. Un’impresa da Special One. L’anno seguente è riuscito a portare la Roma in finale di Europa League con una squadra ancor più limitata che, per colmare quella ristrettezza di organico e di tecnica, poteva contare sulla classe di Paulo Dybala (comprato a parametro zero).
Neanche la Fiorentina, guidata da Vincenzo Italiano, battagliero verso la Roma, è riuscita a vincere, l’anno successivo, la Conference. In quello stesso anno, la Roma, vittima dell’incompetenza di un arbitro che, ha mostrato al mondo la sua incapacità, Anthony Taylor, si è vista derubata di “una partita mai persa”. Con questa espressione Josè Mourinho ha descritto la finale di Europa League, persa ai calci di rigori, contro il Siviglia.
Finora la Roma è l’unica squadra italiana ad aver vinto la “coppa meno importante”. Che i metodi di allenamento dello Special One siano grintosi, è vero. Il suo modus operandi è incentrato sullo stimolo psicologico causato da critiche mosse ai giocatori tale da tirarne fuori il carattere. Per i primi due anni ci è riuscito, al terzo no. All’interno dello spogliatoio si è creata una fronda rivoluzionaria per spodestare l’allenatore. Sono passati un paio di mesi e ancora non si sa chi sia il capo della rivoluzione.
Circolano voci ma nessuna certezza. Gli imputati sono troppi tra giocatori e dirigenza. Una dirigenza silenziosa, le cui parole venivano pronunciate in perenne contrasto con le richieste dell’allenatore. Uno scontro quotidiano tra gli esordienti e il campione. La società americana si è contraddistinta più per i loro spettacoli scenografici che per il ruolo dirigenziale stesso.
Dopo questo fulmine a ciel sereno, la responsabilità di gestire la squadra e riportare un clima di, quantomeno, serenità all’interno di un ambiente completamente sconvolto, è ricaduta su “Capitan futuro” Daniele De Rossi.
Chi meglio di De Rossi, romano e romanista, in quel momento di crisi, sapeva gestire il popolo giallorosso? Nessuno!
Le prossime partite per De Rossi: quarti di finale in Europa League contro il Milan, il Derby e gli scontri diretti contro Atalanta, Juve e Napoli, saranno di vitale importanza, sia per la Roma ma soprattutto per le sue credibilità di allenatore di calcio. Ricordiamo che la sua prima esperienza, in serie B, come allenatore della Spal è durata molto poco. È giusto sottolineare che la squadra era in completa crisi finanziaria e mancante di un organo dirigenziale. Difficile da commentare una situazione del genere. Infatti la Spal è retrocessa in serie C.
La Roma di Mourinho non era solita dare spettacolo ma concretezza. Impossibile da dimenticare il risultato di 1-0 in finale contro il Feyenord. Come tutti gli allenatori, anche lui, ha subito sconfitte importanti e non ha vinto contro la Lazio. Nelle notti europee in cui doveva vincere, ha vinto.
De Rossi, d’altro canto, nelle partite finora giocate, ha perso solamente contro l’Inter capolista. Una partita di grande intensità fisica e grande gioco. Nel secondo tempo il crollo era inevitabile.
In Europa League, invece, ha fatto un capolavoro contro l’allenatore santificato da giornalisti e allenatori: Roberto De Zerbi. Un risultato netto, 4-0, incassato dal Brighton, squadra allenata da De Zerbi, in cui si è visto completamente ingoiato nel bel gioco organizzato dal romanista. Uno o due tocchi, palla in verticale e diritti verso la porta. Che fine ha fatto De Zerbi? Al ritorno, De Rossi, aveva già organizzato la strategia:
Attenzione e concretezza. La seconda è venuta meno sia dalla Roma che dal Brighton. Un assedio inglese incassato, senza rischi, dalla compagine giallorossa. Un muro composto da una difesa bassa.
Che la questione metafisica, o meglio, metacalcistica del cosiddetto “bel gioco”, rimanga, tutt’ora, una dottrina teologica completamente astratta e senza alcuna definizione esplicita, è il dilemma universale che, tutti i tifosi di calcio, stanno cercando di capire.
Immaginiamo i due allenatori, Mourinho e De Rossi, all’interno del cerchio di centrocampo mantenendo la posizione de L’uomo vitruviano di Leonardo. La tifoseria è divisa in due fazioni: pro-Mourinho e pro-De Rossi. Nel cerchio, quelli a favore di Mourinho, vedono la vittoria, la concretezza che si scontra con la logica tattica a favore dell’esperienza. Possesso palla, poco rischio e semplicità durante la costruzione del gioco. Una Roma che ha vinto.
Sostituendo Mourinho con De Rossi, l’altra fazione vedrà il cambiamento, la tecnica, la sperimentazione di nuovi moduli tattici, corsa e “bel gioco” a scapito della concretezza. Il rischio è solamente uno: prendere tanti gol. Più che una questione calcistica diventa una vera e propria questione estetica.
La favola del calcio si conclude sempre con la morale “Ogni partita ha una storia a sé ”. Questo è un concetto gnoseologico che vale per qualsiasi allenatore di calcio e non. Il risultato finale sarà sempre la vittoria.
Anche i più grandi allenatori come Guardiola, Klopp e lo stesso Ancelotti, nelle partite fondamentali, Champions League o campionato che siano, hanno impostato volontariamente uno stile di gioco vertente sulla concretezza del classico: contropiede; più che persuadere il campo da gioco con fitti passaggi di palla e continui movimenti per portare via i difensori così da creare spazi vuoti. Nelle partite di fondamentale importanza, tutti, ricorrono al classicismo calcistico su cui si fondano tutti quei movimenti avanguardisti tecnico-tattici del “bel gioco”. Anche nella cultura vale la stessa: tutto è iniziato dai testi classici greci e latini.
Più che di pensiero, potrebbe essere smontata quest’impronta stilistica, cercando di definirla come movimenti automatici, di adattamento, dettati dai passaggi e dalla velocità con cui scivola la palla sul manto erboso. Questa potrebbe essere la definizione di “bel gioco”.
Come si sa, l’ultima parola spetta sempre al campo.