È difficile parlare con equilibrio e moderazione di un intellettuale che ha trascorso la sua esistenza a formarsi e informarsi e che si è occupato indifferentemente di politica, di economia, di attualità, di letteratura, di poesia, di saggistica, di critica letteraria, di narrativa, di arte, di musica ed è stato anche direttore della rivista letteraria Il Cavallo di Cavalcanti. I percorsi culturali della vita di Romanò inoltre sono stati accompagnati da un nomadismo strutturato che gli ha consentito di essere sempre in viaggio da una meta all’altra immergendosi nella realtà di diverse metropoli europee. Se uno volesse avere i dettagli dell’attività di Romanò potrebbe consultare la sua biografia, ma a noi interessa scoprirlo attraverso questa intervista che ci ha concesso nel suo habitat di Milano, uno studio che contiene solo l’essenziale.
La mia prima domanda riguarda il tuo cognome “Romanò”. Mi richiama il concetto di comunità “Romanì” che racchiude diverse etnie compresa quella delle popolazioni nomadi (non me ne vogliano i Rom che di fatto oggi sono per la maggior parte stanziali). Sei proprio un nomade allora?
Ho scoperto tempo fa, grazie a mio figlio Nicola, che il sito ufficiale dei Rom e dei Sinti italiani si chiama Them Romanò addirittura! Poteva trattarsi di una casualità ma, incuriosito, ho fatto qualche ricerca e mi sono imbattuto in tre indizi che sono quasi una prova. Le professioni più frequenti dei Sinti del nord Italia sono quelle di allevatori di bestiame e in particolare cavalli, intagliatori del legno, maestri chiodaioli – cioè fabbricanti di chiodi – e in tempi più recenti giostrai. Ebbene, a Cimnago, frazione di Lentate sul Seveso dove nacque mio padre (e tieni conto che stiamo parlando di una comunità che ai tempi d'oro contava 500 abitanti), c'era una via dei maestri chiodaioli, mio padre come molti altri in paese era un intagliatore del legno e chi non era artigiano era allevatore di bestiame, poi dal secondo dopoguerra coltivatore diretto. Insomma, ce n'è quanto basta per pensare che forse sì, la mia origine è proprio Sinti, piuttosto che Romanì.
La tua scelta di vivere tra le città di Milano, Roma e Berlino, riguarda questo tuo carattere un po’ gitano così come annuncia il tuo nome? Che differenza esiste tra questi tre luoghi che hai scelto per vivere?
Milano me la sono trovata da studente universitario. Per chi viveva in provincia era una scelta obbligata. Sono nato a Meda, a 25 chilometri dal capoluogo, ma per me bambino e adolescente le città erano Lugano, Como, Lecco e Monza. Milano era come dire New York, approdarvi ha significato recidere il cordone ombelicale con un ambiente che mi soffocava, è stata una liberazione. Tieni presente che erano anni di grande fervore culturale e politico, la città era una delle capitali mondiali dell'arte contemporanea, c'erano Fontana, Albe Steiner, i maestri del design, Munari, una Casa della Cultura da dove passavano i più grandi scrittori e intellettuali non solo italiani, la Feltrinelli di via Manzoni che ospitava nella sua bacheca le riviste più prestigiose di ogni disciplina, c'era Franco Fortini che avevo conosciuto come professore proprio a Monza. Subito dopo vennero i movimenti del '68: ogni minuto valeva per giornate intere, fu una vita intensissima. Poi ho visto anche le tragedie di questa città, i suoi cambiamenti, la durezza dei suoi poteri forti, la strage fascista del 12 dicembre del '69, con le complicità di settori dello stato e poteri sovranazionali, la morte di Pinelli e tutto quello che ne seguì. Fu un trauma gigantesco, una cesura nella vita di tutti.
Ora, Milano più che un luogo che ho ancora voglia di esplorare, è diventata la città dove vivono persone con cui è sempre bello incontrarsi, fra i quali figli e nipoti, la mia ex moglie, amici e amiche di una vita, altri e altre più recenti con cui sto facendo cose importanti anche sul piano letterario. Le esperienze compiute durante quel periodo così intenso hanno alimentato dopo una ventina d'anni la mia scrittura, specialmente narrativa, mentre Roma e Berlino sono state scoperte decisive, ma più recenti. Quanto a capire se ci sia di qualcosa di gitano in me e tenuto conto che i miei antenati sono stanziali almeno dal trisnonno in poi, non saprei davvero dire. Piuttosto, un po' di amarezza mi coglie quando penso che in quella parte della Lombardia a nord di Milano dove sono nato e che non frequento quasi più, oggi sono molto razzisti anche quando non votano Lega Nord. Vedo però una nemesi della storia nella vittoria dei sì al recente referendum indetto nel Canton Ticino contro i lavoratori italiani frontalieri! Un fatto gravissimo, intendiamoci, ma che dovrebbe insegnare che chi pensa di escludere verrà poi escluso a sua volta.
Cosa ti piace di più di ognuna di queste importanti città e quale delle tue doti creative stimola ognuna di esse?
Di Milano e della sua influenza a distanza sulla scrittura ho già detto. Quanto a Roma ci sono tre fasi nettamente distinte. Durante gli anni intorno al '68 era la città del potere, ma anche quella dove si tenevano i congressi, le riunioni nazionali più importanti: erano gli anni della militanza politica, si veniva nella capitale per due giorni o tre al massimo, c'era tempo solo per qualche visita frettolosa. Poi ci fu una seconda fase quando ci venni un paio di volte con mia moglie Laura e miei figli Nicola e Ulisse ancora piccoli e allora si fece un po' i turisti. La terza fase coincide con la vera scoperta di Roma, grazie alla poesia, a tanti incontri che sarebbe troppo lungo ricordare. A Roma ci torno sempre volentieri, ma è stata ed è un campo di esperienze piuttosto che di scrittura; di discussioni, di esplorazione delle sue bellezze, mi piace perdermi nelle sue vie. Recentemente è diventata importante per la scrittura teatrale: sono iscritto al Cendic, il centro italiano di drammaturgia contemporanea e questo ha voluto dire altre conoscenze e altri incontri. Berlino, invece, è il luogo dove oggi scrivo meglio e con maggiore continuità. È una città dove c'è il silenzio giusto per star bene in solitudine, ma che offre al tempo stesso la possibilità di essere in mezzo agli altri e fare esperienze, dalle più serie alle più bizzarre; ma anche di godersi le sue strade, i suoi parchi, perché nonostante la durezza del clima è una città da vivere all'aperto, specialmente d'estate quando la luce del nord rimane alta fino a notte. Infine, il fascino della lingua tedesca, che sto imparando. Mi piace anche una certa severità berlinese e la qualità della vita relativamente economica se la paragoniamo a quella delle altre metropoli europee, tenuto conto dei servizi che offre. Se mai, c'è da chiedersi se tutto questo durerà, vista la crisi europea, talmente vasta e profonda da lasciare intravedere la possibilità di scenari futuri inquietanti.
Il viaggio caratterizza tutta la tua attività culturale, cosa significa per te questa parola?
Beh, in questo mi sento davvero un nomade, ma vorrei anche precisare cosa significa per me esserlo. Il nomade ama partire ma anche ritornare, passa sempre dagli stessi luoghi, si sposta, ma è un abitudinario che sa creare l'intimità della dimora ovunque si trovi. Il nomade non è un ramingo che non ha casa da nessuna parte, si sposta in tutte le direzioni, ma non sa dove andare. Chatwin diceva che il vero viaggiatore deve domandarsi almeno un paio di volte ma cosa ci faccio qui? ... durante un viaggio; in sostanza, che bisogna avvertire l'estraneità al luogo in cui ci si trova in quel momento. Io provo una sensazione del genere nei momenti che precedono la partenza perché non mi sento più dove mi trovo e non ancora dove andrò. Però passa in fretta, perché ovunque arrivo è sempre casa.
Poesia, critica letteraria, narrativa, psicologia, politica, teatro, musica, economia… e un tempo eri anche un professore di lingue… Ti consideri uno zingaro anche della cultura, errante da un campo all’altro?
Detto così sembra che io sia un tuttologo, vediamo di mettere un po' d'ordine. La mia professione è stata quella di docente di lingue e letteratura inglese nelle scuole superiori. L'impegno politico è una seconda pelle per la mia generazione nel senso che è come se tu dicessi che fra le mie attività c'è anche il respirare e quindi non la considero tale. La musica mi appartiene nel senso che ne sono un grande ascoltatore, sia in casa, sia assistendo ai concerti. Le altre parole che hai usato hanno a che fare con l'impegno di carattere culturale e la scrittura, che per me è un modo di sentire che può prendere varie forme in diversi momenti e quindi spaziare dalla poesia alla narrativa e recentemente anche al teatro. Questa è la mia occupazione principale, sebbene in altri periodi della mia vita sia stato anche un militante politico in senso stretto. Oggi quella fase la ritengo chiusa, ma non l'impegno, perché anche la militanza culturale fatta come penso di farla io e insieme ad altri, contribuisce a creare i presupposti di una politica di alto respiro, quella che manca oggi.
Pochi anni fa hai scritto un saggio sul denaro, del ruolo che esso ha avuto in letteratura, pubblicato in un libro che esamina tale concetto da differenti punti di vista, quali?
Sì, L'ideologia del denaro: è una collezione di saggi curata da Adriano Voltolin per la Bruno Mondadori. Il denaro viene visto attraverso diverse lenti interpretative, nessuna delle quali strettamente economica, ma piuttosto antropologiche e psicologiche. Il mio saggio verte proprio sui rapporti fra la letteratura e il denaro, ma anche l'avidità, l'economia in senso lato e tutto ciò che è legato ad esso.
Che idea ti sei fatto, quindi, dell'importanza del denaro nella vita di ciascuno e della storia umana, guardando attraverso la lente dei testi letterari?
Prima di tutto che si tratta di uno dei temi più presenti nella letteratura di ogni epoca, a cominciare dai miti e dalle fiabe e quindi dalla tradizione orale. Lo immaginavo, ma io stesso sono rimasto sorpreso della vastità dei riferimenti, tanto che uno dei problemi maggiori nello scrivere il saggio è stato proprio quello di selezionare pochi testi cui riferirmi, ma naturalmente ce ne sono decine d'altri che non ho preso in considerazione: è una miniera inesauribile. Che idea mi sono fatto guardando attraverso la lente del testo letterario? Prima di tutto che la psicologia media di massa, quando si parla di denaro, è ancora largamente prescientifica, oppure ne è spaventata e non vuole sentirne parlare. L'economia, formalmente, comincia a diventare una scienza umana con i fisiocratici francesi: siamo dunque nella seconda metà del 1700. Gli strumenti diventano più raffinati in pieno '800 grazie a Ricardo, Smith e Marx, il primo a descrivere in modo approfondito e scientifico il ciclo del capitale; nel '900 le figure dominanti, oltre a quelle citate, sono Keynes, Marshall, Joan Robinson e Milton Friedman. A dispetto di tutto ciò, l'impressione che mi sono fatto è che per capire come reagiscono le persone di fronte a temi come denaro, avidità e ricchezza, è meglio ricorrere alle fiabe innanzi tutto e alla letteratura perché il comportamento medio oscilla fra rimozione e magia. Una delle risposte più frequenti quando si parla di economia è che non ci si capisce nulla, il che è abbastanza strano perché il bilancio domestico lo sappiamo fare tutti e in fondo anche per alcuni fondamenti dell'economia è sufficiente una competenza da ragioniere, tanto che, a parte la Corte dei Conti, l'incaricato di sorvegliare il bilancio statale si chiama appunto Ragioniere generale dello stato.
Come spiegheresti tutto questo allora?
In parte con il fatto che si confonde l'economia con la finanza (che ne è un comparto), che oggi monopolizza e sequestra tutto il resto, comprese le nostre vite. La finanza implica anche l'uso di una matematica complessa, di equazioni che allontanano e intimidiscono la persona comune. Infine le cifre esorbitanti, i milioni, i miliardi, quantità che sono talmente lontane dalla vita quotidiana, che si pensa di non poterci capire nulla; invece non è così, se si ha il coraggio di attraversare la cortina fumogena e ideologica che ci sparano addosso i media. Se si va oltre questa nebbia artificiale si vede l'economia reale, la gente che sta male e allora si può tornare a comprendere qualcosa.
Prima hai risposto utilizzando una parola a me cara: magia. Cosa c'entra la “magia” con il denaro?
C'entra perché è l'altra faccia della rimozione e del rifiuto a occuparsene. La presenza dittatoriale della finanza nelle nostre esistenze è un grande abbaglio e un gioco da illusionisti. Il problema vero è il capitalismo con le sue dinamiche di potere patriarcali: la finanza è un suo strumento totalizzante che opera a monte e a valle dell'economia reale e che oggi ci sta portando a una nuova forma inedita di ancien règime, la cui ideologia è che si possa “fare i soldi con i soldi” come recitava uno slogan degli anni ‘80. Gli esiti di quella stagione sono davanti ai nostri occhi: milioni di disoccupati, suicidi, interi popoli come quello greco ridotti in miseria, le costituzioni da accantonare insieme alla democrazia. Il miraggio della ricchezza facile, però continua a funzionare ed ecco allora il magico: che differenza c'è fra il credere che giocando in borsa possano guadagnare tutti e piantare (come fece Pinocchio), gli zecchini d'oro nel campo dei miracoli sperando che cresca l'albero dei soldi? Oppure pensare che per avere un'economia sana sia sufficiente che uno Stato o una banca sovranazionale stampino nuova moneta fasulla? Che differenza c'è fra credere in questo e credere agli asini che cacano monete? Per non parlare del gioco d'azzardo che cresce in misura patologica, perché invece di cercare di comprendere ci si affida alla sorte, alla magia. Sono comportamenti che mi ricordano la definizione di Freud di nevrosi della comunità. Naturalmente c'è chi in tutto questo ci guadagna e allora penso di nuovo a Pinocchio. Nel paese dei balocchi gli abitanti sono tutti ragazzini maschi preadolescenti e appena adolescenti, che giocano tutto il giorno fino a che spuntano loro orecchie d'asino; dunque un'umanità regredita allo stato adolescenziale e asinino. Ma chi gestisce il paese dei balocchi? L'omino di burro, che non si vede mai e tira le fila del gioco…
Prima hai detto che ti sei occupato di politica. Come procede il tuo cammino in questa fase tragi-comica della politica?
Come dicevo in precedenza ho lasciato da tempo l'impegno politico in senso stretto nelle forze di sinistra esistenti perché mi ero convinto che non ci fosse più alcuno spazio politico reale in quegli apparati. Ora, seguo con attenzione critica la proposta Tsipras per le prossime elezioni europee e spero che abbia un futuro, ma l'ambito di maggiore impegno (anche politico) saranno il blog Oraequi dove non pubblico prevalentemente scritti miei ma rilancio saggi e analisi importanti che trovo al di fuori del mainstream mediatico; ma specialmente la rivista online Overleft che ho fondato insieme a Laura Cantelmo, Aldo Marchetti, Adriana Perrotta e Paolo Rabissi.
La decisione di eleggere una dimora anche a Berlino è legata alla tua passione politica?
Alla storia più che alla politica, anche se fra le due cose c'è un nesso stringente. Berlino è la sintesi della storia europea, nel bene e nel male. Il mio primo viaggio da solo in Germania lo feci proprio su uno dei fronti più tragici della Seconda guerra mondiale: l'Oder-Neisse, i due fiumi che segnano il confine fra Germania e Polonia. In linea d'aria sono pochi chilometri da Berlino, così come a pochi chilometri si trova Potsdam, la città di Federico il Grande di Prussia, ma anche il cuore della Terza guerra mondiale (preferisco questa dizione piuttosto che quella tradizionale di Guerra fredda): e poi naturalmente il Muro, demolito in gran parte oltre che politicamente abbattuto, ma ancora presente nella vita della città quando ci andai. Vedere i musei, i memorial e tutte le bellezze esistenti a Berlino ti fa sentire addosso l'intera storia europea, ti fa riflettere profondamente, anche perché dal ‘68 in poi almeno i tedeschi, a differenza di noi in Italia, i conti con la loro storia li hanno fatti sul serio, mentre il nostro paese ha riciclato il peggio e continua a coltivare il mito di “italiani brava gente...”.
So che in passato hai fatto un viaggio in Portogallo in un momento politico molto delicato, ci racconti questa esperienza?
Ci andai con Laura in viaggio di nozze, ma anche per ragioni politiche e a ripensarci oggi mi viene un po’ da ridere. Eravamo andati là per prendere contatto con le forze rivoluzionarie che avevano rovesciato il regime fascista di Caetano, ma ci trovammo nel mezzo di una contro rivoluzione. Più fuori posto di così… è difficile da immaginare. In quanto italiani non rischiammo molto, ma riuscimmo ad avere pochi contatti, molti erano di nuovo fuggiti e in clandestinità come durante il regime precedente, altri erano già in prigione o stavano per andarci come Otelo De Carvahlo. Fu una strana avventura di cui, a parte il lato più personale, ho dei ricordi flash, per esempio quello di un marinaio che, sul battello che dal Barriero (un'isola davanti alla Lisbona continentale) ci riportava in città, fischiettava a occhi bassi una canzone italiana di Lotta continua, molto famosa in quegli anni. Quando vide che lo stavo osservando si spaventò, allora gli sorrisi subito e lui capì. Allargò tristemente le braccia e scosse il capo come a dire è finito tutto lo so... Anche per questa ragione non ci tornerò più in Portogallo.
La Poesia, l’hai vissuta attraverso la lente sottile di critico letterario e attraverso il tuo lavoro poetico: come ha trasformato la tua vita in questi due momenti?
Eliot sosteneva che il poeta moderno deve essere anche un critico. Secondo me è sempre stato così, ma prima i poeti si leggevano e si studiavano fra loro e c'erano i filosofi a dettare i canoni estetici. La critica letteraria come disciplina autonoma nasce con la pubblica istruzione e la necessità di trasmettere a generazioni di studenti le opere dei grandi poeti e scrittori, poi sono arrivate la linguistica, la semiologia, tutte le scienze del linguaggio e la psicoanalisi. Eliot, però, è andato molto oltre. Aveva una cultura antropologica e filosofica di gran lunga superiore e sono convinto che anche questo sia necessario: poesia, narrativa e teatro non esistono allo stato puro e nel vuoto pneumatico, ma sono fatte di esperienza di vita - prima di tutto - ma anche di cultura. Mi ricordo una bellissima risposta di Elsa Morante a un'intervista: quando le chiesero di che cosa si deve occupare una scrittrice, rispose che si deve occupare di tutto tranne che di letteratura. È un paradosso di cui prendo più la prima parte che non la seconda; il senso, però, è che non può esistere una scrittura degna di questo nome se non si nutre anche di altri campi della conoscenza. L'esperienza creativa e quella critica sono diverse ma si alimentano reciprocamente. Tuttavia, portare a compimento un'opera significa anche lasciarsi alle spalle una parte di sé. Naturalmente anche l'immersione nel testo di un altro, specialmente di un grande autore, trasforma a sua volta, ma non dà sempre lo stesso senso di pienezza.
Pensi che la Poesia possa contribuire a risolvere o almeno ad attenuare la crisi attuale delle coscienze?
Sì e no. Quella che tu chiami crisi delle coscienze ha le sue radici profonde in un assetto sociale che produce psicosi individuali e nevrosi della comunità. La cultura in generale e anche la poesia, possono contribuire a formare una coscienza critica e ribelle rispetto a tale assetto, ma sono poi le iniziative dei movimenti sociali e le scelte politiche conseguenti a potere determinare il cambiamento. Raramente la poesia è in sintonia con la storia: più spesso restituisce il senso di un'epoca che sta alle nostre spalle (pensa a Dante rispetto al Medio Evo e alla visione tolemaica del mondo), oppure anticipa il futuro. A volte sa essere tanto grande nel presente quanto grandi sono le trasformazioni sociali in corso: nel ‘900 mi vengono in mente Majakovskj, Pasternak e Marina Cvetaieva. Tutti e tre sono riusciti a fare ciò e due di loro sono morti suicidi...
La letteratura inglese ha influenzato il tuo cammino poetico, in quale modo?
Per me, il contatto con la modernità letteraria è avvenuto proprio grazie alle opere e agli autori anglo-statunitensi. L'Italia intesa in senso lato e cioè comprendendo anche la letteratura latina, era la tradizione e non conoscendo il greco non ho mai avuto la seconda fonte tradizionale. Gli inglesi e gli statunitensi sono stati tutto il resto e attraverso di loro ho potuto apprezzare anche altre letterature, specialmente quella tedesca e in parte quella portoghese. Però, più li leggevo e più capivo che i più grandi estimatori di Dante durante tutto il ‘900 erano proprio i poeti Pound ed Eliot, ma anche Wallace Stevens. La loro lettura, dunque, mi riportava in Italia. La loro poesia mi ha permesso di fare grandi scoperte: il verso lungo e libero di Whitman, il poema aperto di Eliot e specialmente Marianne Moore, Wallace Stevens e recentemente il respiro epico di Derek Walcott, sono stati fondamentali.
Hai scritto un romanzo intitolato Sguardo di Transito: sei sempre in transito verso qualche luogo fisico o metafisico, come riesci a conciliare questi due mondi? Ti consideri uno ancorato alla realtà, aperto alla fluttuazione dell’immaginazione o sempre appeso alla dimensione creativa?
Il transito mi appartiene di certo, l'immaginazione è una facoltà che va tenuta sempre sveglia e alimentata, sono convinto che anche i poeti più visionari siano prima di tutto uomini e donne che hanno saputo guardare oltre, cogliendo ciò che altri non vedevano. Quanto al rapporto fra fisica e metafisica ti racconto qualcosa che dovresti conoscere bene. Parlo dei cori tradizionali sardi, specialmente quelli a quattro voci. In certe registrazioni, si ode distintamente una quinta voce; ma non c'è un quinta persona che canta, i cantori sono quattro… E allora? Siamo nella fisica o nella metafisica? Per me siamo assolutamente nella fisica, solo che non conosciamo tutte le qualità della materia, del suono e le leggi dell'armonia. La fisica novecentesca si è preoccupata molto di più della scissione e fissione dell'atomo in particelle sempre più piccole, autonome e capaci di reagire fra di loro soltanto grazie a impulsi esterni: era ancora la fisica di Galileo per il quale un corpo inerte o immobile si muovo solo se un agente esterno ne provoca il movimento. Esistono però altri approcci, per esempio quello di un grande scienziato che purtroppo ci ha lasciato di recente: il fisico Emilio Del Giudice. Non essendo il mio campo faccio parlare direttamente lui e Giuseppe Vitiello. “Siamo forse alle soglie di una ‘rivoluzione di Higgs’ anche in biologia? Forse la visione del mondo forzosamente imprigionato nell'antinomia caso-necessità dovrà cedere di fronte alla visione del mondo fondata sull'armonia delle musiche interiori dei suoi componenti...”.
Nel tuo primo romanzo Lenti a distacco c’è una scena che ricorda lo scarafaggio di Kafka, come ti sei sentito nelle vesti di Scarafaggio?
In quel passaggio del libro, il protagonista, nel quale di certo mi identifico, in quella scena, cerca di guardare negli occhi l'insetto; quindi, a differenza di Kafka non c'è alcuna metamorfosi, ma il tentativo di entrare in relazione con l'altro da sé che sembra lontano da noi, così tanto da apparire irraggiungibile. Avevo in mente il grande praghese: l'insetto del mio romanzo si chiama Gregorio, che ricorda Gregor Samsa. Quello che non sapevo quando lo scrissi, è che nel romanzo La passione secondo Gh, la scrittrice brasiliana Clarice Lispector sceglie lo stesso animale per lasciarci una pagina veramente memorabile. Lei va oltre Kafka: la protagonista femminile dell'opera incorpora in sé l'animale, lo mangia, cioè fa la comunione con la natura, scegliendo la sua parte più infima e disgustosa per affermare proprio il suo amore totale per la natura stessa. È una scena di grande commozione, specialmente ora che sappiamo molto sullo scarafaggio e cioè che sarebbe fra i pochi esseri viventi in grado di resistere a una guerra nucleare e all'inquinamento radioattivo. Il romanzo di Kafka, della Lispector, come altri venuti dopo, per esempio La strada di Cormac McCarthy, ci mettono in guardia dal delirio di onnipotenza e ci insegnano che abbiamo bisogno della vita ma lei non ha affatto bisogno di noi. Se ci estinguessimo, come accadde ai dinosauri, la vita ricomincerebbe da un'altra parte senza di noi.
Veniamo quindi al Teatro: nasce dal bisogno di indossare sempre nuove maschere?
Nella mia narrativa credo che ci sia molto teatro, ma solo recentemente sono approdato alla scrittura teatrale in senso proprio: prima con La Cantaora y el duende, scritto a quattro mani con Loretta Sebastianelli, pubblicato da Vanilla editore che verrà messo in scena dalla compagnia Fandabù con la regia di Laura Vanacore e mia. Poi ho scritto un copione dal titolo Il guardiano della soglia e recentemente un testo a quattro mani con Paolo Rabissi, intitolato Marzia e Nuvola rossa, entrambi non ancora pubblicati. Infine l'ultimo arrivato, ll Minotauro e la Scimmia, copione andato in scena recentemente con la regia di Stefano Tenconi, e interpretato da Alessandro Trombini, Angela Coviello, Stefania Trombini e Angela Volpicella.
Ne Il Minotauro e la Scimmia sei riuscito a coniugare il concetto di Arte con il Teatro: come è nata l’idea?
Si tratta di un corto teatrale che fa parte di un progetto più ampio. L'idea nasce da Luigi Genna, in collaborazione con l'Associazione Fandabù e con la galleria d'arte milanese Artè. L'intento è quello di avvicinare alla pittura moderna, sia gli adulti sia i bambini, tramite il teatro e i laboratori d'arte. Le rappresentazioni avvengono tutte nello spazio della galleria d'arte Artè, ma prima o poi speriamo di approdare anche in un teatro.
Come ti sei trovato nelle vesti di Picasso? Hai amato anche l’uomo o ammiri solo la sua Arte? Ti senti più Minotauro o più Scimmia?
Domanda veramente difficile. Cominciamo dalla parte più facile. Vorrei essere scimmia, ma non quella evocata nell'autoritratto dipinto da Picasso tre giorni prima della morte. C'è un lato irriverente e burlone nel carattere delle scimmie che amo ma che mi è difficile imitare. Quanto al Minotauro, è una figura mitologica fra le più suggestive, ma se penso a lui più che Picasso mi vengono in mente Dürremmat e Borges...
E allora perché Picasso?
Perché nella sua pittura ci sono entrambe queste figure animalesche come metafora di una contorta e inquietante personalità, che non posso dire di amare. Picasso artista è immenso: è il più grande del ‘900 nella sua arte. Ha smontato e rimontano tutte le forme della pittura occidentale con incursioni in altre culture, le maschere africane per esempio. Era uno sperimentatore ma anche un grande classico e non a caso ha studiato a lungo la pittura rinascimentale e la scultura greca. L'uomo, invece, era in perenne lotta con se stesso. Ciò che mi interessa nella sua esperienza e che ho cercato di mettere nel testo, è proprio il rapporto fra l'uomo e l'artista. Picasso ha praticato un'idea titanica di artista, nel momento in cui arte e cultura stavano diventando di massa (perdendo quindi molto titanismo), ma non lo erano ancora. Questa è un'altra delle sue contraddizioni, felicissima nell'ispirare la sua pittura, ma difficile da sopportare per lui stesso e per chi gli stava vicino. Anche lui ha aperto le porte alla cultura di massa e anche al consumo di massa della cultura e spesso ha messo il personaggio Picasso davanti all'opera, compiendo quel rovesciamento narcisistico e dissacrante che sarebbe dilagato dopo di lui.
Ho saputo di un tuo un nuovo blog, espediente che utilizzi spesso per far conoscere tutta la tua attività culturale… Come ci cambierà questo strumento, quali potenzialità gli riconosci?
Tutto ciò che riguarda l'editoria e la cultura nella rete è destinato ad avere un grande futuro. Siamo da almeno vent'anni entrati nell'era post gutenberghiana, non credo che in futuro ci saranno ancora i giornali cartacei. Questo non significa che il libro scomparirà, si trasformerà, mentre i siti, le case editrici online, i forum di cultura ecc. sono destinati a crescere quantitativamente e qualitativamente. Tutto ciò non va confuso con il social network in senso stretto, facebook, twitter o addirittura le chat line; si tratta sempre di rete ma sono cose diverse. Quanto al blog cui ti riferisci lo abbiamo fondato Paolo Rabissi ed io e si intitola DIEPICANUOVA. Come si capirà dal titolo, vogliamo, con questa impresa, rimettere in circolo nel dibattito critico ma anche con la pubblicazioni di testi, una parola che in Italia è diventata un tabù, ma che invece gode di molto credito nella poesia di mezzo mondo: epica appunto, cui l'aggettivo nuova conferisce tuttavia una imprescindibile qualificazione.
È chiaro che il termine Epica che rammenta i componimenti letterari che narravano le gesta, storiche o leggendarie che fossero, di un eroe o di un popolo, attraverso le quali tramandare la memoria e l'identità di una civiltà o di una classe politica, nella realtà del nostro paese ha perso valore e di certo il suo credito. La classe politica italiana, la politica stessa, la nostra luminosa civiltà di un tempo sono attualmente ridotte ad un’ombra e non si vedono ancora mutamenti che ne possano rischiarare i lumi in tempi brevi… Il passato glorioso giace, inoltre, imprigionato nella peggiore specie di società del consumo che fosse possibile concepire e di certo i nuovi fermenti, le idee, le riflessioni, i dubbi, le esplorazioni della classe colta e indipendente dei letterati non ancora asserviti dal potere sono alcune delle poche speranze che restano al paese per auspicare una futura rinascita… In realtà il sistema politico o economico occidentale non è l’unico nemico che impedisce il cambiamento. Karl Popper, ne La società aperta e i suoi nemici, individuava anche nella conoscenza scientifica una pericolosa arma di chiusura.
Secondo la sua teoria non esiste scienza che possa produrre conclusioni definitive, ma è sempre necessario diffidare dagli esperti che sostengono di conoscere il destino della società e di possedere la "verità". Nessuno in realtà conosce il futuro, neanche gli scienziati in quanto anche la conoscenza scientifica è sempre congetturale e fallibile. Il passaggio da società "chiuse" a società "aperte" avviene quindi dando fiducia all'uomo, rendendo libere le facoltà critiche della persona. Se poi ci si inoltra negli studi di fisica quantistica sui quanti di energia che popolano lo spazio vuoto dell’atomo, possiamo trovare connessioni tra fisica e processi psico-emotivi, tra fisica ed ecologia e addirittura andare ad esplorare le ignote potenzialità dell’acqua o le infinite possibilità dell’energia di mutare direzione ad un fenomeno mettendo in dubbio talvolta anche l’abituale concezione dello spazio e del tempo…
Questo ci lascia intuire che esistono confini molto labili tra realtà e immaginazione, tra scienza e magia, tra scienziato e artista, perché molti misteri non sono stati ancora spiegati e la conoscenza è un immenso pozzo senza fondo… Ringraziamo, quindi Franco Romanò che ci ha aperto tante strade per andare ad esplorare questo pozzo, ringraziamolo soprattutto per averci umilmente donato importanti perle della sua “dotta ignoranza”. La sua natura nomade della cultura e della vita insegni, inoltre, a tutti noi che non si può perseguire il cambiamento se ci si abitua ad essere stanziali…
Per maggiori informazioni: www.overleft.it