Una sezione del Festival TSFF, Wild Roses, è dedicata alle donne registe. La ricerca da parte del comitato di selezione che assiste Nicoletta Romeo, la direttrice artistica del festival, è stata fatta quest’anno all’interno della cinematografia tedesca. Ben 13 registe, giovani in maggioranza, sono state trovate con i requisiti di originalità e ideazione nuova e interessante, alla base della scelta di ogni film presentato al TSFF.
Un film parla, ad esempio, di bambini piccoli che rifiutano di allinearsi, marchiati come “anomalie di sistema”, un altro del primo amore di una quindicenne, un altro ancora della principessa Sissi con uno sguardo alla sua verità di donna che vive un’amicizia importante. In questa panoramica recente dedicata alla Germania non poteva mancare Margarethe von Trotta, una delle più importanti registe del Cinema europeo. La scrittrice Ingeborg Bahmann viene da lei raccontata nel momento di crisi del suo grande amore con il drammaturgo Max Reisch. Ne uscirà con l’aiuto di un amico e di un viaggio che fa con lui nel deserto.
La scelta al femminile per Wild Roses era programmata. Ma anche molte opere significative di questa trentacinquesima edizione sono di registe donne. In particolare, Maja Doroteja Prelog, che ha diretto il documentario Cent’anni, suo lungometraggio di debutto, premiato dal pubblico come miglior documentario. Iniziato come racconto dei festeggiamenti per la guarigione del compagno che viaggia con lei, si trasforma in rielaborazione della loro intimità, entrata in crisi durante il viaggio.
1489, il numero dato ai dispersi in guerra, è il titolo del documentario sviluppato da Shogakat Vardanyan, sorella del 21enne studente reclutato per la guerra del Nagorno-Karabahk, scomparso il settimo giorno di guerra e da lei ricercato per più di un anno. Lei, musicista solo all’inizio della scuola di regia, è riuscita, malgrado la poca esperienza e l’uso del cellulare, a trasformare la sua vicenda privata in immagini intrise di grande emotività, un messaggio sociale valido per i familiari di tanti dispersi in guerra. Ha ottenuto il premio Alpe Adria Cinema.
Ancora di una donna, Anna Badziaka, il documentario Motherland ricostruisce la crudeltà del nonnismo impunito praticato dagli anziani in Bielorussia sulle nuove reclute, con la scusa di temprarle per trasformarle in veri combattenti. In realtà sottopongono i giovani soldati di leva (obbligatoria) a torture, in alcuni casi mortali. Menzione speciale.
Al Caffè San Marco, dove si rinnova la tradizione degli incontri con gli autori ospiti del Festival, chi ha presentato al pubblico le giovani registe, ha invitato i presenti a memorizzare i loro nomi perché questi inizi promettono bene.
Sono etichettate “Fuori dagli sche(r)mi” altre due registe, Mersiha Husagic, bosniaca autrice di Cherry Juice e Sara Summa, autrice di Arthur & Diana.
In Cherry Juice l’annullamento di un film a 4 settimane dall’inizio delle riprese spinge Selma, la sceneggiatrice e regista, a darsi all’alcol per dimenticare. Ma, così facendo, non avverte nemmeno la troupe dell’annullamento del film. Un attore tedesco affascinante, Niklas, venuto a Sarajevo convinto di iniziare il film, incontra Selma. A uno scontro iniziale, dovuto anche al suo carattere ottimista contrapposto a quello introverso di lei, segue, grazie alla comune passione per il cinema, una serata di Capodanno magica. Un breve incontro, intenso al punto di cambiare le loro vite.
Arthur e Diana sono fratello e sorella. Insieme al figlio di due anni di lei lasciano Berlino diretti a Parigi per una breve vacanza. Una sequenza di incontri e accadimenti, trattati in modo giocoso ma non tutti a lieto fine, servono ai due protagonisti a meglio comprendere il loro rapporto. E il viaggio, dirottato in Italia, darà loro qualche speranza in più rispetto a quelle con cui erano partiti.
A questo punto, dulcis in fundo, ricordiamo un lungometraggio in concorso, sempre diretto da una donna, che già nel titolo, che sembra una filastrocca, promette una levità molto gradita agli spettatori in un contesto in cui predominano film dalle atmosfere drammatiche, per le reminiscenze storiche affrontate o per argomenti che descrivono profonde problematiche umane e sociali. Si tratta di Blackberry, Blackberry, Blackbird di Elene Naveriani, georgiana. Un ritratto dolce-amaro di un’insolita eroina femminista, determinata, nella sua ingenuità di quarantenne illibata, a riprendere il tempo perduto. La forza di combattere i pregiudizi e le malignità di chi attacca la sua condizione di single le viene da una onestà di fondo e da un coraggio frutto di intelligenza. L’attrice, Eka Chavleishvili, bravissima, viene dal teatro. Il finale del film lascia spiazzati e ci conferma che, quando un bravo regista sa dialogare con bravi attori in storie non banali, la potenza di un film è assicurata.