Psiche e casa
Parlando di “Spazi dell’Eros” mi viene subito in mente un gruppo psicoanalitico cui ho partecipato, nel quale affrontammo il tema della Casa. La Casa è il grande ambito simbolico e sublimato del sé (il nucleo primario, corporeo ed emotivo della persona che fa di lei solo e unicamente lei), anzi ne costituisce una sorta di doppio simbolico: la casa ha occhi che sono le finestre, porte che ne sono la bocca, cucine che ne sono lo stomaco, cantine che ne sono il ventre e così via. Non solo: la casa è anche la personalità “in toto” dell’individuo, con un suo “Ideale dell’io” in cui egli esprime il suo senso estetico atto a sublimarne i valori, un suo “Io” nel quale s’incontra con le reali esigenze ed i vincoli della realtà della vita, e così via..
Ebbene, quando nel corso di quella seduta affrontammo la domanda “Come dev’essere la stanza dell’Eros?”, tutti noi rimanemmo ammutoliti. Nessuno che avesse già chiaro, dentro di sé, come doveva essere lo scenario ideale per predisporre la sua mente, prima ancora del corpo, ai giochi amorosi. Eppure l’immaginario erotico di ciascuno di noi, pur se imbevuto di quei simboli che la memoria collettiva ha reso fruibili per accogliere le nostre pulsioni, è stabile ed invariante dentro di noi si potrebbe dire dalla nascita… o quasi.
L’ immaginario erotico
Per la precisione, gli elementi che colorano la nostra sessualità entrano a far parte di noi sin dalle prime tappe del nostro percorso psicosessuale, quando attraverso le fasi orale, anale e fallica incontriamo il nostro corpo come fonte di tensioni verso un ipotetico oggetto fuori da noi, l’Altro, e la modalità attraverso la quale incontriamo questo altro da noi in ciascuna di queste fasi darà significati specifici al nostro universo mentale di quel periodo. Con il complesso d’Edipo, quando ci rendiamo pienamente conto dell’esistenza di una coppia che, escludendo noi, ha un rapporto speciale d’amore, un tipo d’amore che noi non conosciamo, entreranno in gioco sentimenti complessi che saranno all’origine, per esempio, del piacere o del terrore del sesso in ogni civiltà -organizzata, certamente, in maniera simile alla nostra, cioè attorno alla famiglia-.
Il sesso è peccato, ci siamo mai chiesti perché? Il sesso genera terrore, a volte, turbamento: banalmente perché abbiamo paura di esser posseduti dall’altro (il che, forse nel caso delle donne, che hanno un corpo cavo, può anche avere un suo fondamento per così dire “fisiologico”)? Semplificando parecchio direi che la sessualità, risvegliando quei primi istanti in cui capimmo quali profonde implicazioni emotive di perdita dell’amato/dell’amore, di odio per il/la rivale e al contempo amore per il /la rivale in amore, ci mette di fronte a pulsioni che, provenendo dal nostro inconscio, mai appagate, mai sopite, vive come ferita fresca tanto da farsi sentire nei sogni ivi inclusi quelli ad occhi aperti e i desideri che guidano le nostre azioni, poco hanno a che vedere con la razionalità di adulti faticosamente conquistata.
Simboli o estetica: condivisi o no?
I simboli che ogni civiltà mette a disposizione di ognuno non sono, come abbiamo visto, che contenitori momentanei atti ad accogliere e a dar forma alle pulsioni di ciascuno, una sorta di linguaggio, di alfabeto condiviso volto a rendere esprimibile ciò che difficilmente, altrimenti, si potrebbe esprimere senza immagini, parole, suoni.
Il nostro personalissimo immaginario erotico, invece, nonostante si valga di queste immagini “collettive” (che sono quelle che, ad esempio, codificano come “bella” l’immagine di un corpo femminile filiforme o più rotondo) è abitato da quei fantasmi e da quelle immagini personali che sono private, incondivisibili, e che soli sono in grado di turbarci o di accenderci.
Se negli spazi dell’Eros la luce debba essere accesa o spenta, se debbano essere ingombri di simboli, densi di richiami oppure nudi, se debbano apparire naturali o artificiali, e se il corpo debba svelarsi, nascondersi, esibirsi o sparire è, dunque, decisione da prendersi tra sé e sé. Occorre che ciascuno ci pensi, per non essere “vissuto” dalle sue fantasie ma per viverle da protagonista: o almeno, per esprimere pienamente la gioia di averla, una libido.
L’attività di simbolizzazione della diversità del mondo
Non sono dunque d’accordo con quanto afferma perentoriamente Georges Bataille, cioè, che
l’attività erotica immaginaria abbia bisogno di oggetti e spazi vuoti, non determinati o qualificati, per esprimersi o esplicitarsi pienamente. Bataille parla di sé.
La nostra attività di simbolizzazione del mondo avviene invece solo ed esclusivamente grazie all’incontro con il mondo reale, con i suoi vincoli e le sue determinazioni, con l’infinita estensione delle forme del mondo, insomma. Tra l’altro, la diversità del mondo fa ri-nascere il mio sé a se stesso: l’attività di simbolizzazione che io compio in un mondo di oggetti e-vocatore è infatti l’unica in grado di dirMi, l’unica che mi metta in grado di incontrarMi davvero. E’ solo quando la mia libido si posa sulle cose che vedo chi sono, cosa davvero io abbia dentro.
Io sono ciò su cui si posa il mio sguardo (o meglio, ciò su cui scelgo di posare il mio sguardo).
La determinazione specifica di quell’oggetto estrarrà da me le emozioni più vere, che riesco ad esprimere in forma simbolica (proprio perché rivolte all’oggetto che per me diviene simbolo) senza quell’inibizione nella mia attività di significazione che avrei se rivolgessi la mia attività libidica ad un Altro per me significativo: l’Altro che amo mi inibirebbe l’odio, ma anche l’estremo piacere; un oggetto-scenario che incontro casualmente, invece, mi rende libero di proiettare la mia libido senza vincoli o blocchi dovuti a i sensi di colpa.
Gli oggetti reali diventano, così, Sogni Diurni: varchi possibili (accanto ai sintomi nevrotici, ai lapsus, ai sogni) su chi noi siamo davvero.
Lo Spazio, in questo modo, è davvero sempre, per il Soggetto, spazio animato, paesaggio interiore come quello che ogni bravo scrittore costruirà per gli scenari delle sue narrazioni. Anzi, del mondo il Soggetto vedrà solo gli oggetti che ritaglia dando ad essi il suo significato: portando alle estreme conseguenze questo ragionamento capiremo come il mondo oggettivo, per gli umani, non esista: il che è anche scientificamente dimostrato dagli psicologi della percezione o concettualizzato dai costruttivisti. Portando ancor più alle estreme conseguenze il ragionamento vedremo come lo Spazio non diventi che un’estensione infinita del nostro corpo psichico.
Questa attività simbolica come comincia, come si radica?
Pensiamo al bambino, che comincia a conoscere il mondo confrontandolo con l’unica realtà che conosce: il suo corpo. Numerosi esempi relativi a chi soffre di patologie autistiche mostrano come, per il Soggetto, lo spazio non sia che un estensione del suo corpo. Un caso clinico mostrava come prendendo un temperino e spuntando una matita, per esempio, il Soggetto si sentisse decapitato, poiché aveva identificato la sua testa con la punta della matita. Un altro esempio clinico, relativo ad una psicotica e citato da Umberto Galimberti nel saggio “Il corpo”, racconta come la donna percepisse la sua gamba e il suo intero corpo sparsi nella stanza; poiché la donna non percepiva confine tra sé e non sé, fece poi un sogno cannibalico in cui, dopo averla tagliata, metteva nel congelatore una sua gamba per poterla poi mangiare in caso di carestia e fame: la gamba apparteneva a lei ma non era lei, era in un fuori che avrebbe potuto, in qualche modo, nutrirla.
Pensiamo poi all’arte: il lavoro del cubismo di scomposizione della realtà in frammenti è speculare alla frantumazione del sé dello psicotico e alla proiezione nel mondo di parti del sé frantumato. L’artista, in questo modo, non fa che creare un suo Spazio idiosincrasico. D’altronde è procedura tipica della modellizzazione dello spazio nel Soggetto autistico il creare forme di mondo parellele a quelle reali attraverso un’attività percettiva distorta e alternativa, dove i confini degli oggetti consueti svaniscono mentre l’autistico crea altri confini ed oggetti nuovi: un bordo di un tavolo origina per esempio, con un bordo di bottiglia, una nuova forma così come fanno Picasso e Braque nei loro dipinti.
Non tutti gli spazi sono soggettivi, penserete. Certo: altrimenti le prime tribù di cacciatori-raccoglitori non sarebbero mai riuscite ad orientarsi nei loro viaggi; altrimenti, più radicalmente, agiremmo come se davvero il mondo fuori non esistesse. Ma focalizzare la rilevanza dei giudizi di valore personali ci aiuta a capire come creare spazi adatti ad accogliere Eros.
Gli spazi di Eros
L’oggetto che scatena fantasie è, giocoforza, ambiguo: dunque Bataille non aveva tutti i torti.
Ma per dire “ambiguo” ricorrerei ancora una volta alla nozione arcinota ma oltremodo euristica di Freud: ciò che è perturbante, un/heimlich. Ciò che cioè è, al contempo, alieno e familiare.
Eros è un mondo interiore in cui regnano gli opposti: genera la vita ma può distruggerla; possiede ed è posseduto; seduce ed è tra-viato; pre-lude e viene dopo tutto; ecco perché, spesso, gli oggetti più scatenanti o gli ambienti più giusti per accogliere Eros sono quelli ingombri di simboli contrastanti ma forti, forti così come estreme sono le pulsioni in gioco sia in eros, che nella mente infantile da cui questa forza proviene. Nell’eros, infatti, regrediamo tutti ai meccanismi primari della psiche, quelli del tutto o nulla. Adoriamo o uccideremmo: il Rosso e il Nero, per intenderci. Anche il cocktail ormonale dopaminergico dell’innamoramento, intriso di catecolamine e oppiacei, porta ad emozioni paradossali e fenomeni emotivi paradosso.
I contenuti dello Spazio seduttivo
Chi voglia sedurre, dunque, si dovrà circondare di allusioni ambigue ma forti, emotivamente potenti: spazi che raccontano la bellezza dei corpi raffigurandoli mediante oggetti artistici (pensiamo alle classiche stampe giapponesi, a ritratti fotografici di volti e corpi immortali, a statue e busti cui vero protagonista sarà il corpo o i corpi, oppure a nudi o scene d’amore), spazi dai colori violenti, saturi, il fucsia, il rosso, il giallo, il nero; spazi che ci portano a contatto con il mistero della vita e della natura: fiori, piccoli animali, rocce; spazi che raccontano l’ignoto, il lontano, l’affascinante e il conturbante: simboli tribali, maschere, reperti di viaggi da culture altre e inquietanti; oggetti che spaventano: gabbiette per i grilli giapponesi, coltelli, pugnali; spazi, infine, come teatri, poiché l’eros è sempre un teatro di mascheramenti e svelamenti, una rap-presentazione dove si metteranno in scena, sul corpo e col corpo dell’altro, i vissuti di noi più antichi ed ignoti.
Viceversa, spazi vuoti dove gli unici attori siano i corpi. Spazi creati dalle ombre, dalle luci.
Spazi davvero piccoli e cavi, come organi femminili segreti che contengano solo gli amplessi degli amanti.
I “classici dell’erotismo” mostrano esempi di spazi iperdensi di simboli in Histoire d’O di Pauline Réage, straordinario esempio sia in letteratura sia in film, in cui l’eros tutto si fa simbolo negli arredi di uno spazio tutto, inventato, lussuoso –il lusso è afrodisiaco non solo perché indice di benessere, ma perché il bello estremo si contrappone all’infimo dell’uso che faremo di noi, nell’eros. L’altissimo contrapposto al “bassissimo”, come a bilanciarlo; l’altissimo perché dev’essere estrema la bellezza che circonda l’amore, poiché l’amore è s-misurato, infantile, dopato dagli ormoni e non conosce elegie.
L’eros si nutre di tessuti preziosi e ricercati. Ma anche, all’opposto, di squallori inauditi; stanze abbandonate, vuote, caotiche come ne “L’Ultimo Tango a Parigi”di Bernardo Bertolucci , dove il caos di una casa nel bel mezzo di un trasloco, vuota, brutta riflette il caos interiore dei protagonisti.
Ma la stanza chiusa, vuota è un “classico” tra gli scenari erotici più amati, si pensi anche a film come Nove Settimane e Mezzo, a L’Impero dei Sensi, a Il Portiere di Notte, Belle de Jour, The Dreamers, Lolita. Il nascondiglio, la paura del mondo fuori, la prigione.
Oppure la stanza è quella al di fuori della quale siamo costretti noi: L’Uomo che guarda, La Chiave.
Gli spazi possono essere il trionfo della cultura, del buon gusto, dell’artificio o della coolbness
(Nove settimane e mezzo), oppure quello della natura, selvaggia come in La Cagna, di Marco Ferreri, oppure meravigliosa (è il trionfo della vita, di Eros su Thanatos) come in Il Banchetto di Platone di Marco Ferreri.
Quando lo spazio è al servizio della perversione, del gusto per l’artificio e per il paradosso, una creatività malata potrà dar vita ad invenzioni sconvolgenti e talvolta mortifere come rappresentato in Caligola, di Tinto Brass (dove la creatività è però al servizio della crudeltà). Il film è così visionario sul piano estetico da aver influenzato lo stile di un decennio, gli anni Ottanta, modificandone l’intera produzione di oggetti, design, film, abiti, (si pensi al mondo dello stilista Gianni Versace) tanto profondamente da avere i suoi epigoni, magari inconsapevoli, persino in Lady Gaga di oggi.