Torna al cinema Martin Scorsese e lo fa in grande stile, dalla durata che supera i 200 minuti alla scelta dei suoi più fidati collaboratori, De Niro e Di Caprio (per la prima volta insieme in un suo film), per i ruoli principali. Killers of the flower moon è un film epico e stratificato che adatta per il grande schermo il libro inchiesta di David Grann. Ispirata a fatti realmente accaduti, la pellicola ripercorre il massacro dei nativi della nazione Osage da parte degli uomini bianchi che miravano ad ottenere le concessioni del petrolio che sgorga in abbondanza nelle loro terre.
Viene considerato il film più politico della lunga carriera del regista italo-americano, tuttavia, a differenza del libro da cui è tratto, non si ferma al racconto-inchiesta. Attraverso una miscela di generi, Scorsese sceglie di ricostruire la storia dal punto di vista dei carnefici, restituendo allo spettatore il ritratto di un episodio della storia degli Stati Uniti d’America che parla al passato quanto al presente della nazione.
Il cuore pulsante del film, come ha spiegato lo stesso regista in un'intervista (al The Hollywood Reporter), sta nella contraddizione tra l’amore sincero tra Mollie e Ernest e la brutalità delle azioni compiute dagli americani di discendenza europea per ottenere ricchezze che non spettavano a loro di diritto, ai danni di persone con cui condividevano la vita. L’aspetto della vicenda che ha spinto Scorsese ad allontanarsi dal materiale originale del libro da cui il film è tratto, che si focalizza sull’indagine dell’appena costituita FBI, è proprio la relazione tra due persone che si amano, ma che sono al contempo vittime, in bilico tra il consapevole e l’inconsapevole, dei propri pregiudizi e debolezze.
Quindi il regista finisce per scegliere di impiegare come filo conduttore della narrazione la storia di amore e tradimento tra i personaggi interpretati da Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio. Ed è proprio la scelta del punto di vista che ha attirato l’attenzione di molti critici, che hanno sottolineato come questa storia andasse affrontata secondo la prospettiva del popolo Osage, essendo loro le vittime degli eventi e trattandosi di una storia legata al loro retaggio storico-identitario.
Per quanto possa trovarmi d’accordo con chi sostiene che la vicenda potesse essere narrata da un altro punto di vista, non credo fosse l’unico possibile e in assoluto l’unico accettabile, poiché la scelta dello sguardo sugli eventi è riflesso della visione dell’autore, e trattandosi di Martin Scorsese sono convinto che abbia scelto il taglio che più si addice al suo cinema e che ciò sia stato fondamentale per la riuscita di un film che raggiunge vette artistiche e narrative che in pochi sono in grado di eguagliare.
Killers of the flower moon è un’opera essenzialmente scorsesiana, nelle tematiche, nei personaggi e nello stile. Ambientata nel primo dopoguerra, riprende lo straniamento post-bellico protagonista del suo capolavoro Taxi Driver, mentre il racconto allegorico della nascita degli Stati Uniti è un espediente già sperimentato nel meraviglioso Gangs of New York. I personaggi di Ernest Burkhart e di suo zio William “King” Hale raggiungono un livello di stratificazione ed enigmaticità nella raffigurazione di uomini corrotti da un male subdolo e viscerale come raramente si è visto sul grande schermo. Gran parte del merito va alla bravura dei due già citati attori, che incarnano le sfaccettature di due uomini consumati uno dall’ingenuità e l’altro dall’avarizia, ma sempre credibili nelle loro fragilità. Degna di nota anche la prova di Lily Gladstone, che interpreta il personaggio di Mollie Burkhart, con una performance in sottrazione che valorizza l’empatia con il pubblico, che insieme a lei ripercorre il dolore di una tragedia indicibile e a stento credibile per la sua brutalità.
L’ampio minutaggio è perfettamente retto da un montaggio ritmato al metronomo, dalla sceneggiatura puntuale e da una regia che saggiamente non si compiace in virtuosismi, ma si mette a servizio della storia con movimenti di macchina contenuti ed efficaci, valorizzando l’interpretazione degli attori e la messa in scena sopraffina, senza rinunciare alla spettacolarità visiva. Un film che narra un ostico episodio di cronaca con la scelta coraggiosa di non sacrificare il linguaggio tipico della fiction per un impianto pseudo-documentaristico. Al contrario è un film che esplora tutte le possibilità del cinema, nella messinscena, nel tono e nel genere.
La pellicola si apre con un omaggio al cinema muto di Griffith nella contestualizzazione storica della nazione Osage, per poi avviare un viaggio nei generi cinematografici, dal western al gangster, per concedersi sequenze dalle tinte melò, dialoghi comici e concludendo con l’ultimo atto in pieno stile film inchiesta; il tutto cadenzato da sequenze oniriche che esplorano la mitologia Osage e ne restituiscono la sua innata poeticità, in contrasto con la brutalità del contesto storico e di un popolo che riconosce soltanto la legge del più forte.
Un film che ha fatto discutere e che sicuramente farà discutere ancora. Già appare nelle classifiche dei migliori film del 2023 di molte testate di critica cinematografica e sicuramente sarà protagonista nella stagione di premiazioni a venire. Non ci resta che ringraziare ancora una volta Martin Scorsese che, all’età di ottant’anni, ci ha regalato una perla che impreziosisce la sua prestigiosa carriera e si iscrive a pieno diritto nella storia del cinema, sia per la qualità artistiche e narrative che per la rilevanza sociale della sua opera.