Fango, acqua, arte sono tre parole cardine, fondanti la romagnolità, sono parole estremamente evocative, nel bene e nel male, della storia di una terra e delle persone che la abitano, nonché della creatività come espressione di questo connubio di elementi, creatività che caratterizza il popolo che la abita e che si invera nelle sue produzioni.
D’altra parte fango, acqua e arte sono intrinsecamente collegati da una matrice sorgiva che risale alla storia dell’umanità e, in questo senso recupererei la positività di questi elementi che sono stati poi abusati dall’uomo, manipolati sconsideratamente, tanto da fuorviarli dal loro percorso naturale fino a farli diventare dannosi, addirittura violenti. Li assocerei anche alla aggressività distruttiva umana, in realtà, anche l’uomo, in natura, non nasce abitato dai geni del male, ma è attraverso esperienze originarie infauste, traumatizzanti che produce reattività incontenibili, evacuando dolori non metabolizzati che possono esitare, purtroppo, in comportamenti pericolosi e dannosi per sé e per gli altri.
Dalla Genesi ai miti classici la creazione dell’uomo è stata spesso associata all’uso del fango, Adam fu formato dalla polvere della terra che in un impasto umido con acqua diede immagine alla forma di Dio, il termine Adam in ebraico significa “terroso”, perciò l’identità nominale contiene il termine terra costitutivo dell’essenza dell’umano. E la vita è un atto divino di sublime creatività, il bello e il vivente sgorgano allora da questi due elementi primari dando origine ad un’opera d’arte mai vista prima: la forma e il contenuto dell’uomo nascono dunque da questa unione di terra e acqua a cui il soffio divino darà anima.
Ovidio nelle Metamorfosi descrive con queste parole quella che è la trasformazione per eccellenza da cui scaturirà l’umanità: “impastando con acqua piovana la terra ancora recente, la quale, da poco separata dall’alto ètere, ancora conservava qualche germe del cielo insieme a cui era nata” ed è commovente constatare come siamo naturalmente spinti a vedere nel fango un elemento primigenio e a trovare in esso una suggestione sottile riguardo alla natura delle nostre origini. D’altra parte sappiamo quanto i bambini, precursori dell’uomo, amino giocare “alla terra”, è uno dei primi giochi dove a mano libera o aiutati dalle formine daranno vita a delle immagini, che possiamo considerare le prime nascenti forme d’arte.
È stupefacente verificare come la coniunctio tra acqua e terra sia generativa di quel capolavoro che è l’uomo e perciò come “Fango, acqua e arte” siano non solo collegati in un link sequenziale evidente, ma anche incarnino la funzione generativa del corpo-mente che dà vita alla creatività, quindi all’invenzione artistica. È quella epifania della creatività suprema, che farà da prodromo a tutte le successive realizzazioni come espressione del “soffio divino” che abita all’interno dell’uomo.
La Romagna, terra benedetta, proprio per quella convivenza così stretta dell’uomo con il fango e l’acqua, non poteva che essere generativa a tutto tondo, non solo dei frutti della natura (a me milanese aveva sempre suscitato stupore vedere ogni ben di Dio germogliare da un terreno così chiaro, fangoso appunto), ma anche germinativa del nuovo, del particolare, dello stravagante, strettamente imparentata con la funzione del sognare, come suggeriscono anche gli irripetibili film di Fellini dove si è completamente immersi in una dimensione onirica che produce poesia.
E la terra fangosa di Romagna germinerà frutti, fantasie, sogni, arte. Nella mostra Fango, acqua, arte, installata nella Galleria Baroni di Sergio Baroni, saranno quattro gli artisti romagnoli chiamati a testimoniare, tramite le loro opere, la prestigiosa capacità di sognare, quindi di creare arte, di questa regione. Sono opere principalmente scultoree, alto e bassorilievi, che hanno proprio a che fare con la tridimensionalità dell’uso del fango, ma richiamano anche la costruzione dei castelli di sabbia dei bambini e la relazione tout court.
Tullo Golfarelli, Domenico Rambelli, Ercole Drei, Angelo Biancini saranno i giocolieri-sognatori presenti nella mostra, che daranno vita ad opere straordinarie, tanto quanto è stata straordinaria la loro capacità di integrare gli elementi in una sorta di comunione generativa che ricorda la coniunctio tra anima e animus, come suggerirebbe Jung, percorso interiore per arrivare alla totalità dell’essere. Forse è questo che ci seduce e ci attrae in un’opera d’arte: l’assistere alla realizzazione dell’intero a cui noi tutti siamo chiamati. Sceglierò alcune opere di questi autori per risognarle, come per fare un rimpasto, per giocare con gli elementi della materia che le compongono e con le loro forme, per scomporle e ricomporle nella mia fantasia dando loro un’altra, una nostra significazione. Forse anche un’altra tridimensionalità. Usando la materia di cui sono fatti i pensieri.
Tullo Golfarelli si impone con Caco, ceramica in terracotta con “patina” di bronzo, diavolaccio dantesco imperioso, che porta un nome importante, tratto dal mito della tradizione romana, che lo considera figlio di Vulcano e che potrebbe rappresentare il dio del fuoco. Personaggio infernale, dunque, che erutta fiamme, secondo Virgilio, ladro e assassino, espressione quintessenziale dell’odio, della distruttività, dell’invidia, dell’avidità, tanto che Dante lo colloca nel girone dei ladri, ma non è ben chiaro se sia un demone o un peccatore che sta scontando la sua pena, tanto che, stranamente, compare anche in un altro cerchio come un Centauro. Risulta da subito personaggio inquietante e polimorfico. Personaggio degli inferi tormentato dalla sua identità incerta: demone, uomo o centauro? Non a caso Virgilio lo immagina con tre teste.
Golfarelli, pur prendendo spunto dalla storia mitica del personaggio, lo risogna rendendolo tutto suo, attribuendogli caratteristiche demoniache, le corna e connotandolo come centauro per i serpenti che gli caricano le spalle di un peso pericoloso, ma soprattutto dando forma alla sua parte umana di eroe tragico. È un diavolo, quello di Golfarelli, che non spaventa, ma che trasmette il dolore del vivere, l’impossibilità del trovare il proprio posto e il senso della propria esistenza, è personaggio tragico perché erutta solitudine, irrigidito nel suo essere/non essere, nella sua ambiguità che non lo connota da un punto di vista identitario. Appare molto chiaramente un’espressione cupa, di dolore, occhi incavati, mento triste, due pieghe alla bocca di rassegnazione amara, la bocca è un broncio, non sputa fiamme, ma desolazione.
Gli occhi nascosti dentro zigomi prorompenti non hanno più lacrime, ma un’aridità emotiva li ha prosciugati del tutto. Caco è la maschera del dolore. Non riesco ad avere paura di Caco e neanche mi sento di condannarlo, né provo ribrezzo, mi suscita invece tenerezza e tristezza per l’isolamento affettivo a cui è condannato, isolamento a tutto tondo: nei confronti degli altri, ma anche di se stesso, non sa chi sia. E questo è terribile, è tremendo guardarsi allo specchio e non vedere il proprio volto, la propria forma, ma solo confusione, la nebbia dell’essere, forse è quello il fumo delle fiamme che il mito gli fa eruttare.
Lascio a malincuore Caco, come se lo abbandonassi alla sua muta, solitaria disperazione, data anche dall’inevitabile rimando dello sguardo malevolo degli altri, e con animo fumoso e pesante mi avvio ad osservare un’altra opera in mostra, Miss Miller di Rambelli. Scultura in bronzo che conferisce ulteriore compostezza al viso statico, apparentemente duro, certo enigmatico, occhi e labbra serrate come a non permettere nessun ingresso, vissuto probabilmente come intrusione. Tutto deve essere conservato integro e preservato. Sorprendente che questo viso, così realisticamente terreno e con l’attribuzione di nome così banale, di possibile attribuzione ad una persona esistente, sia in realtà frutto della fantasia dello scultore, Miss Miller è solo esistita ed esisterà per sempre non solo nella sua ideazione, ma anche nella storia dell’arte.
È anche curioso accostare questa donna immaginata dallo scultore ad un’altra donna raccontata da Jung, donna che porta lo stesso nome, Miss Miller appunto, che sogna la personificazione del concetto junghiano di animus attraverso un’allucinazione visiva. Jung entra in questa visione, se ne appassiona, e ne prende spunto per approfondire la sua ricerca sulla psiche umana, pur non avendo mai incontrato questa sua paziente nella realtà.
Risulta ancora più stridente e di effetto questa sorta di ossimoro tra fantasia e realtà, che ci incuriosisce a conoscere questa cosiddetta signorina inglese, dal nome comune e dalle sembianze ordinarie, né bella, né brutta, una faccia di bronzo appunto, che ha così stimolato lo scultore. Ce la possiamo immaginare e raccontare come vogliamo, ma ci chiediamo anche: come mai Rambelli ha avuto bisogno di raffigurare questa donna verosimilmente della società britannica? perché è ricorso a lei per dare forma ai suoi fantasmi e perché un nome straniero quando nella sua epoca ogni “stranierismo” era messo al bando o veniva malamente tradotto e quasi considerato una colpa riprovevole?
Dietro le sembianze rigide di quel volto, apparentemente senza passionalità e senza aperture cosa voleva comunicare Rambelli? Forse il sentirsi imbavagliato in un dover essere in cui non si riconosceva? oppure sentiva il bisogno di provocare manifestando qualcosa di sé altrimenti indicibile? Cosa stava raccontando di sé dietro quell’immagine da sfinge? Quale sua parte stava ricercando? Quale aspetto che abitava in lui, che era costretto in una rigidità che toglieva movimento, spontaneità, libertà di essere? A quale parte del femminile, anima la definirebbe Jung, stava tentando di dare forma?
A questo punto è inevitabile che si faccia spazio nella mente un’altra signorina Miller, la Luisa Miller di Giuseppe Verdi, personaggio tragico, tormentato, attraverso cui anche Verdi aveva raccontato di sé, del suo amore impossibile… Sembra che le parti emotive fortemente sollecitate e sofferenti abbiano bisogno di un femminile per potersi esprimere, per riuscire ad avere luce e visibilità, ma soprattutto condivisione del dolore.
Dopo queste visioni che hanno un po’ incupito l’anima, ecco Ercole Drei che si presenta quasi perentoriamente con l’abbagliante sinuosità di Talia, per darci respiro e speranza, ma soprattutto dandoci il dono dell’incontro con la bellezza. È un’affascinante scultura in marmo che raffigura una giovane donna il cui corpo nudo, dalle membra tornite e armoniose, emana una soave sensualità. Il sorriso, che pare più interiore che rivolto all’esterno, è appena accennato, quasi enigmatico, forse addirittura beffardo, sembra lasciar trapelare un mondo interno brulicante di sensazioni, emozioni, pensieri abbozzati, che devono però rimanere protetti, custoditi, ospitati da un pudore e da un senso di privatezza che impedisce una loro esposizione ad uno sguardo altro, che potrebbe essere invasivo o fraintendente.
La braccia mollemente adagiate sopra il capo, lo incorniciano con delicatezza volteggiante, sembrano danzare attorno ai suoi pensieri in un gesto anche di protezione, infatti un braccio si accomoda sopra il nobile capo e l’altro si offre come valido appoggio ad un mento volitivo e pensoso. Pare che le mani abbiano il compito di contenere con ferma delicatezza una mente affollata di pensieri. Se il corpo nudo canta e danza la colorazione del vivere, lo sguardo è un po’ meno rivelatore, come il sorriso sembra voler velare un intimo segreto forse per proteggere la mente da occhi indiscreti: si tratta di una proibita fantasia d’amore? Oppure è un disagio affettivo o persino un dolore? Drei sembra adombrare i pensieri coperti della giovane donna nelle due maschere appese, come per caso, sul tronco a cui Talia si appoggia con abbandono, quasi spavaldamente, sottolineandone la proprietà, rivelando in sordina la sua ambivalenza conturbante: una maschera dà voce alla tristezza, l’altra alla gioia.
Paradossalmente le maschere sono come “mascherate”, possiamo intuire che rappresentino gli oggetti misteriosi che rivelano in incognito il suo mondo interno e che solo chi ha un desiderio intenso di entrare in contatto con lei può tentare di scoprire o, per lo meno, di avvicinarsi alla sua verità.
Talia, bellissima creatura marmorea, in realtà racconta tanto di sé mettendo in scena la sua contraddizione, non a caso lo scultore le regala questo nome che nella mitologia greca era quello di una delle grandi Muse, in particolare la musa che presiedeva alla commedia, perciò alla narrazione, tanto che Monti la cita nella Musogonia “…e Talia che l’error flagella e ride…”, sottolineandone in maniera forte l’ambivalenza, proprio come fa Drei con la sua Talia. Talia marmorea lascia in chi la contempla impronte di carne e sangue, insieme all’estenuante desiderio di possederne l’anima, di spogliarla oltre la nudità apparentemente spensierata, ma che riverbera, per chi la osserva in profondità, una tremante angoscia del vivere insinuando un appassionato desiderio di entrare in contatto col suo segreto.
Ed ecco alla fine, salutando tanta bellezza e tanta grazia che infondono emozioni profonde, quasi per contrasto, mi imbatto nella pacatezza, nella latenza delle passioni; infatti si fa presente La contessina Zanelli Quarantini, sublime scultura di bronzo che dà corpo e anima all’adolescente contessina Zanelli Quarantini che pare sicura di sé, della sua innocenza e non teme di mostrarsi nella sua verità. Il volto è aperto, pudicamente sorridente, tramite i lineamenti puri evidenziati dall’essere sgombri da capelli o suppellettili, ma esaltati da esili treccine che le conferiscono un’aria innocente, si delinea un’espressione lieve che comunica serenità. La ragazzina pare non essere toccata dai turbamenti della crescita, anzi sembra impegnata a mantenere quell’assetto mentale emotivo dello stadio di latenza come se fosse ancora protetta dall’esperienza infantile con la presenza rassicurante delle figure di riferimento, lasciando dunque sopire gli tsunami del cambiamento. Si mostra a viso scoperto perché sicura, tranquilla di essere in un buon contatto coi suoi genitori interni che la proteggono da pulsioni marasmatiche, spaventose, ma guarda con tranquillità in avanti, sorridente, fiduciosa perché ancorata ad un’oasi di sicurezza e soavità. Biancini con questa statua ci infonde tranquillità, pace interiore, riparo dalle battaglie delle vita. Chissà se questa pace delle pulsioni non sia anche un suo bisogno intimo…
Sono giunta al termine del mio appassionante viaggio nel Fango, acqua, arte dove forse mi sono anche un po’ sporcata, infangata per poter accedere e condividere la materia psico-fisica di cui le sculture sono fatte, mi sono lasciata contagiare in modo da poter entrare in contatto intimo con loro, farle vibrare e vivere dentro di me per tentare di avvicinarmi alla loro verità. Le ho ospitate nei miei sogni, trasformandole in persone vive a cui ho dato parola, immagine e anche un corpo in carne e ossa, e abbiamo creato insieme una loro storia, mai raccontata prima perché solo nostra, germinata dalla nostra relazione.
Ed è con dispiacere che mi separo da loro, ma mi conforta sapere che continueranno a vivere tante altre storie quanti saranno gli incontri che sperimenteranno. Saranno aliti di vita che daranno loro la possibilità di esistere, proprio come descritto nella genesi, ed è forse anche questo l’intento segreto dei loro creatori … anche loro stessi probabilmente alla ricerca di un incontro, del soffio vitale per sentirsi finalmente vivi e interi. "Ogni incontro che fai è un incontro con te stesso; pochi sembrano accorgersi che gli altri sono loro." (Jung)