Basterebbe chiedere a uno di quei poveracci della mitologia greca per farsi passare la voglia dell’immortalità. Gratificati o puniti dagli dei con invenzioni da allora mai più così fantasiose, di solito non ne potevano più e speravano di morire al più presto oppure, come ripiego, di trasformarsi in costellazioni.
«Non mi ricordo le tappe del mio ritorno fra i polverosi e umidi ipogei, so soltanto che non mi lasciava il timore che all’uscire dall’ultimo labirinto mi circondasse nuovamente la nefanda città degli immortali». Da L’Aleph di Jorge Luis Borges.
Ma spesso chi ha sperimentato una minaccia alla salute racconta, con lacrime mai asciugate: «La morte propria non è commensurabile, al momento della diagnosi mi cedevano le gambe».
Da Vivi. Il miracolo della finitezza è un progetto che parte dalla premessa che l’integrazione emotiva dell’ineluttabilità della morte è anche possibilità di crescita, costruzione e perfino gioia, è fonte di miglioramenti esistenziali, sociali, politici. È ideato da Elisa Sirianni, sviluppato e curato con Mario Biagini e Accademia dell’Incompiuto, con la consulenza di Carlo Biagini e Marcella Gostinelli, la produzione di Teatro Metastasio e il sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio di Prato. Prevede il confronto tra i membri di un gruppo di pensiero, incontri con esperti, assemblee pubbliche, la stesura di un Patto di ospitalità, un laboratorio teatrale, un oratorio laico finale, interviste.
Massimiliano Civica, Premio Ubu alla regia, direttore artistico del Metastasio, spiega la sua adesione: «Perché faccio teatro? Personalmente, è una cura omeopatica. Sono sempre stato terrorizzato dalla morte, dal pensiero che ‘tutto passa’ e che ‘nulla resta’, che non possiamo fermare il tempo, che i visi delle persone care invecchiano, che le cose belle non durano per sempre, che gli amori finiscono… Oggi non c'è niente da perdere. Ci siamo, dovunque, sempre, per tutti, da soli. Non devo scegliere, non devo decidere, ho tutte le possibilità. Il teatro è mortale. Accade in un luogo e non in un altro. Davanti a delle persone, solo quelle che sono lì. Accade stasera e quando è finito è finito. Devi scegliere di andare a teatro, e di perderti tutto il resto» prosegue Civica. «Il teatro non è contemporaneo, perché è il solo luogo dove la morte è ancora presente. Il teatro non è disponibile sempre e dappertutto: non è streaming, non è online, non è registrato. Tutto questo è la morte del teatro: la rinuncia all'accettazione della vita. Da vivi. Il miracolo della finitezza: un progetto per un teatro omeopatico alla morte contro l'illusione contemporanea dell'eterna possibilità e presenza».
Elisa Sirianni, fuoriclasse della comunicazione teatrale, è ufficio stampa dei Teatri di Pistoia e lo è stata, per stringere, di Pina Bausch, Ert, Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, Funaro, Teatro Povero di Monticchiello.
Mario Biagini, allievo di Jerzy Grotowski, uno dei registi più innovatori del Novecento, dopo aver diretto fino al 2021, con Thomas Richards, il Workcenter of Jerzy Grotowski di Pontedera, nel 2022 ha fondato a Firenze l’Accademia dell’Incompiuto.
Eternamente giovani, potenti, no limits. No, basta.
Sirianni e Biagini spiegano che è necessario parlare del nostro morire.
Come è nato il progetto?
E. S.: Ho trovato una formula sintetica per dirlo: c’era stata una pandemia, io ho avuto un incontro personale molto intenso con la finitezza e lavoriamo in teatro. Una serie di temi risuonavano, amplificandosi nella mia vicenda, mentre eravamo tutti lì, su Radio3, ad ascoltare le riflessioni di fronte alle quali ci aveva messo una malattia globale. E mi sono accorta che quello che mancava nella mia esistenza, nel mio percorso di cura, forse mancava a tutti. Dalla fortuna, la capacità, il caso, di avere una grande vitalità, a partire da quell’incontro con la finitezza, e dalla mancanza di spazi di dialogo sul tema è venuta l’idea di lavorarci collettivamente.
Prima che rapporto avevi con la finitezza?
E.S.: La ringrazio per la domanda (ride nello scimmiottare le interviste n.d.r.). Voglio dirlo da tanto, magari succede a tanti bambini: mi capitava spesso di addormentarmi temendo che i miei morissero. Non ho mai parlato di questo, credo accadesse alle elementari, piangevo. E, da piccola, non mi portavano ai funerali. La morte è presente nella mia natura. Mi piacciono i cimiteri, luoghi di pace e non di ansia.
Mario?
E.S.: Abbiamo cominciato a frequentarci da amici e professionalmente in tempi non sospetti…
Da vivi!
M.B.: Da vivi! Ho sempre pensato che Elisa non dovesse fare solo comunicazione, che fa molto bene. Io, per deformazione professionale, penso a come tramutare in realtà quello che ci immaginiamo con altri. Da solo, mi immagino ben poco. Parlando con Elisa ho pensato a come rendere reali queste parole.
E.S.: nelle vicende di malattia ci sono persone che compaiono e persone che scompaiono e non sono per forza gli amici stretti, gli estranei o gli amici di più recente data, che fanno una cosa o l’altra. Dopo la brutale divisione fra buoni e cattivi riesci ad affinare il ragionamento: non vedono più Elisa, ma il loro rapporto con la morte, ti sta vicino chi ha risolto e chi non ha risolto non ce la fa. Mario si è fatto molto sentire mentre io stavo poco bene e quindi il dialogo si è intensificato. Inoltre pensavo da tempo che lui e Massimiliano Civica si dovessero parlare.
Mario, il tuo rapporto con la finitezza?
M.B.: Penso che, se si fa teatro, di solito ci si occupa della morte, anche se non ce lo diciamo. Le scomparse, gli abbandoni, le malattie degli altri, le proprie. Tutto questo ci segna in maniera che nascondiamo, però nella pratica artistica credo sia uno dei temi fondamentali. In Čechov ogni dieci minuti c’è qualcuno che muore. La narrazione ti pone sempre di fronte al limite.
E.S.: Affrontiamo questo tema a teatro non solo perché lì lavoriamo, ma ci tornava la “metafora festosa” del rito funebre: si va a teatro per una cosa che nasce e muore ogni sera. Ci accende entrambi l’idea di un teatro utile, un’agorà, chiamiamolo come vogliamo, le parole diventano facilmente retoriche, che abbia una ricaduta sulla vita di noi tutti, non un fatto intellettuale. È una caratteristica importante del progetto.
M.B.: Abbiamo un’idea voyeristica del teatro quindi le assemblee pubbliche di Da Vivi sembrerebbero distanti dalla scena: in realtà durante un’assemblea non ti esprimi con la lingua della quotidianità, ma con la lingua della retorica, e questa è un’arte teatrale che non è limitata all’ambito palcoscenico-platea. C’è la possibilità di un lamento, formalizzato come una tragedia, e anche di un ragionamento che, forse, crea qualcosa di nuovo.
E.S.: E un elemento di democrazia. L’occasione di cambiare le cose non soltanto nei cuori e nel pensiero, ma dando seguito con un fatto politico. Il Patto di ospitalità dovrebbe derivare da ciò che emergerà dalle assemblee, dalle conferenze, dal gruppo di pensiero degli esperti, dalle interviste che sto facendo. Un documento firmato da Comune, cittadini ed ente sanitario che dirà quali sono le migliori pratiche che siamo riusciti a immaginare per un migliore morire (lieve intonazione interrogativa n.d.r.), per un più umano morire. E dovrebbe tradursi in nuovi codici deontologici per gli enti che firmano. Non che la cultura da sola non sia sufficiente però si tenta di dare una veste politica.
Quando è nato il tabù di parlare della morte?
E.S.: Non sono una storica né una sociologa, lo riferisco in modo impreciso, ma sembra che uno degli snodi sia stata la Prima guerra mondiale. La tanatologa Marina Sozzi spiega che la radicalizzazione avviene quando il tema diventa di pertinenza quasi esclusivamente ospedaliera: come medico o tieni in vita la gente oppure fallisci. Eppoi le persone andavano a combattere e la paura era incommensurabile quindi bisognava in qualche modo dire: va tutto bene.
M. B.: È complessissimo. Dopo i due conflitti mondiali non c’è stata in Europa una digestione di ciò che era successo. I massacri, l’Olocausto, settanta milioni di morti sono diventati mito per la maggior parte dei cittadini, non storia. Dalla fine degli anni Settanta c’è la tendenza, ora fortissima, di dover essere di successo, cioè anche sani, con un certo aspetto: se ci ammaliamo è colpa nostra. Come se la malattia non fosse un fenomeno naturale da che mondo è mondo. Durante le ultime due assemblee, pensando in maniera più autobiografica mi sono chiesto: è vero che era diverso? Quand’ero bambino, con tragedie in famiglia, una gemella morta molto piccola, sì, si andava al cimitero tutte le settimane, la tomba era tenuta bene, c’era il pellegrinaggio ai vari sepolcri, ma davvero quei lutti erano integrati nella vita? Penso di no. Nemmeno allora. Un lutto si trasformava in una narrazione, come la guerra, in un mito familiare che però non andava davvero a spiegare a un bambino la morte. E i bambini lo chiedono.
E.S.: Non c’è tempo di approfondire, ma cito l’esperienza di Anna Solaro a Genova. Anna, una regista che si occupava di teatro sociale, si è ammalata di cancro e ha creato un laboratorio piuttosto innovativo, Versi di cura che prosegue oggi al Teatro dell'Ortica, in cui ha messo nella stessa stanza, una volta alla settimana, medici, infermieri, pazienti e parenti a parlarsi attraverso lo strumento teatrale. Non sono una filosofa, ma quello che veniva fuori, nelle mie conclusioni che sono diventate l’inizio di questo progetto, è la sfrenata predominanza dell’esigenza dell’economia su quelle delle persone e il tabù della morte. Mix letale.
M.B.: Letale, appunto (ridono n.d.r.).
I morti non consumano. Ci sono ammorbidenti per i capi neri, per i jeans, all’orchidea selvaggia, all’edelweiss te li compri e…
M.B.: … sei immortale. Oggi noi, in queste circostanze così straordinarie - un sistema sanitario, un sistema giudiziario, più di settant’anni senza guerra, una democrazia, anche se si sta sfaldando - forse potremmo parlare con i bambini in modo da educare degli esseri umani che non hanno paura di parlare della morte. Hanno paura della morte: sarebbe snaturarsi non averne, ma ora il problema è estremo perché la fine, la perdita, la malattia il fallimento sono relegate, uso una parola francese bellissima, nell’oubliette (prigione sotterranea dei castelli n.d.r.).
E.S.: Le reazioni alla pandemia sono state soprattutto due: sono terrorizzata, non voglio più vedere neanche mio marito o faccio finta di niente. Forse adesso si può parlare: “Torino spiritualità” dopo tanto si dedica alla morte. Murgia, Vialli, De Gregorio hanno il merito di aver fatto coming out sulla salute. Fedez lo ha fatto sul cancro e sulla malattia psichica, e va benissimo, perché si rivolge a un altro target, ai ragazzi meno intellettuali. Quello che manca è sistematizzare il discorso e costituire spazi di dialogo permanente perché nel momento del distacco si provi dolore e non ci si schianti nel dolore. Non significa non rispettare il silenzio, ma togliere lo stigma.
M.B.: E la possibilità di vivere situazioni dolorose accettandone l’inevitabilità perché la sofferenza, anche se la combattiamo, è parte integrante della vita. In un’assemblea una signora con una figlia con un tumore al cervello diceva: io volevo esserle accanto come madre e invece dovevo fare la spesa, da mangiare, l’infermiera, il precettore spirituale (senza sapere come) e avrei voluto qualcuno che mi avesse aiutato a pulire la casa. Se c’è il tabù non si può parlare nemmeno di questi bisogni elementari, concreti, che aggiungono sofferenze evitabili a una sofferenza inevitabile che è brutta, terribile, non augurabile a nessuno, ma che non necessariamente ci renderà la vita meno viva.
E.S.: Al contrario. E il titolo magnifico, poetico che ha trovato Mario, schivando la parola morte? Da vivi. il miracolo della finitezza.
M.B.: Finiti o “finibili" è l’unico modo di essere. Una sorta di dio non avrebbe un’alterità da sé.
E.S.: Sarebbe insignificante quello che facciamo. Marina Sozzi spiega che la possibilità di essere empatici deriva da quello che ci accomuna più di tutto, insieme alla nascita, cioè la morte.
M. B.: Che è quello che dice Leopardi.
E.S.: Sono arrivata a sostenere che voteremmo persino meglio. Un esempio pratico: stanno privatizzando la sanità sembra, per la mia sensibilità, nel disinteresse generale. Come cittadino occuparmi del tombino o, persino, dell’immigrato… ce la posso fare. Ma non di questo argomento spaventosissimo. Sennò sarebbe sconcertante non essere in piazza tutti i giorni a manifestare.
Il tabù è diverso per la morte nostra e quella altrui?
M.B.: Non lo so. La filosofia ha una posizione chiara, l’ha ridetto anche Carlo Sini: quando c’è la morte non ci sei tu, quando ci se tu non c’è la morte. A me questa formula è sempre sembrata una cosa da sofisti. Una bella trovata. In realtà, quella con cui ho avuto a che fare è la morte degli altri. E quando muore un altro, tu ci sei! Forse la nostra è più difficile da immaginare, abbiamo paura del suo avvicinarsi. Non lo so. Insomma, Elisa e io ci siamo messi in un bel calderone.