Non sono tanto preoccupato per la Terra o per la Natura, che ne hanno viste ben di peggio, sono preoccupato per noi umani e soprattutto per le nostre generazioni di transizione che hanno potuto assistere, uniche nella storia, al cambiamento.
Perché non è certo la prima volta che il pianeta si riscalda fino ad avere le convulsioni o si raffredda tanto da congelarsi quasi completamente, solo che il cambiamento climatico avveniva, quando era veloce, in una scala di qualche decina di migliaia di anni ora invece avviene nel corso di una vita umana, la mia, per fare un esempio. Infatti ricordo benissimo gli inverni della mia infanzia, negli anni Sessanta del secolo scorso, belli gelidi, carichi di neve e le estati che quando arrivavano i 30 gradi duravano sì e no 15 giorni poi, come si diceva allora, dalla metà di agosto, si “rompeva la stagione” e iniziavano quei bellissimi autunni nebbiosi e piovosi che allora mi sembravano così tristi e che ora, invece, con questo secco, mi parrebbero una benedizione.
In questa bella giornata di ottobre sono davanti al camino, in una baita in Cadore con un bicchiere di vin santo del Chianti e degli ottimi cantucci, e guardo fuori dalla vetrata le boscose pendici del Pelmo, uno dei giganti dolomitici qua attorno. In ottobre è già in corso quello straordinario fenomeno che i radical chic di Cortina, che sembrano averlo scoperto solo adesso, chiamano “foliage” e che altro non è se non la naturale senescenza fogliare autunnale che, nelle caducifoglie, fa emergere i pigmenti rossi e gialli che normalmente sono eclissati dalla clorofilla che in questa stagione si degrada e sparisce.
Quindi sotto un meraviglioso cielo azzurro, tra il verde cupo dei boschi di abete che si estendono sotto quel gigante di roccia che mi ricorda il trono di Zeus, compaiono chiazze rosse di aceri montani, isole giallo oro di larici e, da qualche anno tristi macchie color grigio cenere. Cosa significa una tale nota stonata in questa sinfonia autunnale? Per spiegarlo devo raccontare una triste storia.
Sulle Alpi il clima non è mai stato clemente e di tempeste se ne sono sempre viste, ma il 26 ottobre del 2018, una vasta perturbazione di origine atlantica, che se non fosse stata potenziata dal “turbo” di energia causato dal surriscaldamento atmosferico globale non sarebbe passata alla storia con il nome di tempesta Vaia, scaricò sulle aree montane del Veneto 715 mm di pioggia in 3 giorni, accompagnate da raffiche di scirocco che al passo Rolle hanno raggiunto i 217 km/h e che hanno spazzato il nordest italiano, soprattutto la montagna, con venti ad una velocita media di 180 km/h.
Questi venti mostruosi hanno abbattuto intere foreste, tra cui la celebre foresta di Paneveggio, sotto le Pale di San Martino, un bosco di abeti rossi centenari dove Antonio Stradivari si recava per scegliere gli alberi da cui trarre i suoi famosi violini. Colossi vecchi di 300 anni si sono spezzati come fiammiferi sotto le mazzate di quella che erroneamente è stata chiamata tempesta ma che, con venti a oltre 200 km/h , grado 12 della scala Beaufort, doveva essere chiamata con il suo nome: uragano Vaia, con un energia che normalmente si dovrebbe sviluppare solo sui mari tropicali.
Ecco quel veloce cambiamento di cui parlavo all’inizio e cui mi è toccato in sorte di assistere, perché a memoria d’uomo, almeno in epoca storica, una simile potenza distruttiva alle nostre latitudini non si era mai vista. Milioni di alberi abbattuti sul massiccio del Lagorai, nell’Agordino, in val di Fassa e di Fiemme, Comelico, devastato l’altopiano dei sette comuni, l’altopiano di Piné fino alla lontana Valcamonica in Lombardia solo per citare le zone più colpite.
Ma anche nel Bellunese, nella valle del Boite da San Vito fino a Cortina, Vaia ha picchiato duro lasciando a marcire sul terreno delle foreste e una quantità di tronchi abbattuti che a mio parere dovevano essere rimossi molto più celermente di quanto non si sia fatto anche se, bisogna ammetterlo, spesso la stessa orografia del territorio rendeva molto difficile la rimozione di una tale quantità di alberi schiantati al suolo. Purtroppo, come sanno anche i bambini, i guai non vengono mai soli.
Valle del Boite, Cadore. Abeti rossi morti per infestazione da bostrico
Da sempre, nelle immense foreste di abete rosso dell’Eurasia, vive un minuscolo coleottero curculionide chiamato bostrico tipografo, per via delle intricate gallerie che incide sotto la corteccia degli abeti infestati. La presenza endemica di questo piccolo insetto, in una condizione di equilibrio ecologico, ha un ruolo di controllo e selezione naturale sui boschi di abete rosso nel senso che attacca e uccide le piante deboli, malate o eccessivamente vetuste senza incidere in modo significativo sulla copertura forestale.
Invece, in caso di eccezionali eventi come tempeste o forti nevicate, si assiste, per una massiccia presenza di piante danneggiate o abbattute, ad una pullulazione dell’insetto che passa da una condizione endemica ad una condizione epidemica. In passato, dopo eventi particolarmente traumatici si era potuto constatare una invasione epidemica di bostrico con vaste perdite forestali che, nel giro di 4 o 5 anni nei casi più gravi si arrestavano. Ma questa volta, con l’uragano Vaia, le cose sono andate diversamente. Proprio per l’inaudita violenza del fenomeno che ha raso al suolo vastissime estensioni forestali mettendo a disposizione dell’infernale insetto enormi quantità di legno morto, l'infestazione di bostrico, agevolata anche da estati siccitose e da inverni eccessivamente miti conseguenza del riscaldamento globale, a 5 anni dall’evento non accenna a fermarsi.
Nel quinquennio 2019-2023 l’infestazione di bostrico tipografo ha già ucciso nel Nordest un numero di abeti rossi pari a metà di quelli abbattuti da Vaia, estendendosi per la sua virulenza anche a territori come il Cadore che erano stati risparmiati dalla tempesta. Ecco cosa sono quelle tristi macchie grigiastre che guastano il tripudio multicolore del foliage autunnale che sto guardando dalla mia finestra affacciata sul Pelmo che intanto, come un vero sovrano magnifico e sdegnoso, raccoglie nuvole per cingersene il capo come una corona, incurante delle angustie che affliggono i suoi sudditi.
Dal 6 al 22 febbraio del 2026 si terranno a Cortina d’Ampezzo i XXV Giochi olimpici invernali con immani investimenti, colate di cemento, versanti montani arati per ampliare le piste da sci, enormi parcheggi e altre simili infamie perpetrate, nel silenzio di un’Europa che sembra avere altro a cui pensare, a danno di quelle dolomiti che abbiamo inserito nel novero dei World Heritage Site, luogo sacro Patrimonio della Umanità mentre invece sembra essere divenuto proprietà esclusiva di un manipolo di palazzinari e costruttori senza scrupoli con la benedizione delle autorità regionali.
Sarà allora un bene che una simile tragica pagliacciata si svolga in inverno, in un bianco e nero di colori nel sonno dei boschi, forse così i milioni di visitatori non si accorgeranno di quelle grandi macchie grigie che stringono d’assedio le pendici delle montagne e che forse, impiegando meglio le risorse investite nelle Olimpiadi, avrebbero potuto essere se non evitate almeno frenate nella loro spaventosa marcia di morte.