France Odeon festeggia i 15 anni con una serie di film di grande interesse, scelti con cura da Francesco Ranieri Martinotti. Nell’arco di 5 giorni il Festival del Cinema Francese presenta al Cinema La Compagnia di Firenze 14 lungometraggi, tra commedie e film d’autore, la maggior parte dei quali in anteprima italiana. Ci soffermiamo su tre di essi che, in modo diverso, descrivono la coppia, i prime due nelle sue difficoltà, il terzo in una modalità di sogno.
L’amour et les forêts
Questa Italia funestata da frequenti femminicidi, apprezzerà il nuovo film di Valérie Donzelli, L’amour et les forêts, che rende lo spettatore edotto su come possa rovinarsi una relazione di coppia. Basato sull’omonimo best seller di Éric Reinhardt, entra profondamente nella quotidianità di un rapporto uomo/donna apparentemente ideale nel suo incipit, ma da subito basato sulla menzogna. Quando Blanche (Virginie Efira) incontra Grégoire (Melvil Poupaud), pensa di aver trovato l’uomo giusto. Piano piano il rapporto si deteriora, con l’accettazione della vittima, che, è mostrato chiaramente, si fa connivente col suo carnefice.
Grégoire alterna tenerezze a richieste e controllo sempre più pressanti. Coinvolge i figli per stringere sempre più il laccio attorno alla voluttuosa Blanche, fino a spegnerne la vitalità e farla vivere nel terrore. Una grande recitazione dei due protagonisti trasforma la fiction in vita reale, tenendo lo spettatore col fiato sospeso fino all’epilogo.
Il titolo del film, in uscita in Italia a gennaio 2024, prevedo non sarà tradotto letteralmente, data la completa distanza fra ciò che evoca e l’atmosfera del film nel suo insieme.
Anatomie d’une chute
Nell’altro film, Anatomie d’une chute, ciò che sembrava un incidente, la caduta accidentale di Samuel (Samuel Theis) dal terzo piano della baita in legno che stava restaurando, diventa, per l’autorità giudiziaria, una selva oscura di ipotesi. Si è trattato di una disgrazia, di un suicidio o di una morte procurata? Indiziata la moglie Sandra (Sandra Huller), l’unica persona in casa al momento della caduta. Viene interrogato anche il figlio undicenne della coppia, Daniel (Milo Machado Graner). È lui, anzi per primo il suo cane, a portarci al cadavere per terra nella neve, in una pozza di sangue, davanti a casa.
L’interrogatorio di Daniel è penoso, primo perché il fatto è successo quando era fuori casa col cane, e poi perché è ipovedente. Il suo difetto di vista non è dalla nascita. A quattro anni, uscito dall’asilo senza trovare il padre ritardatario, è stato investito da una macchina. Le molte cure fatte non gli hanno ridato tutta la vista, hanno solo impoverito i genitori. E creato una frattura pesante nel rapporto di coppia.
Da subito appare una straordinaria capacità narrativa della regista Justine Triet, che fa emergere particolari importanti del passato per costruire il rapporto fra Samuel e Sandra, in assenza di Samuel, che apparirà solo molto dopo in un flash back. La regista sa creare nel pubblico l’attesa di capire che persona era Samuel, avendo sentito, all’inizio del film, solo il volume esagerato della musica, cui costringe la moglie, anche quando lei sta lavorando. E lei pazientemente sopporta. Poi lo vediamo morto.
Triet scava negli episodi quotidiani e nelle risposte di lei e del bambino, che inizialmente, oltre al dolore, ha paura di incolpare la madre con le sue risposte e si contraddice. Recupererà dopo alla grande, dando l’impressione di essere più adulto dei suoi anni.
Penso che la giuria di Cannes 2023 abbia tributato la Palma d’oro a Triet soprattutto per questo modo di raccontare. Il personaggio viene costruito con le testimonianze o i resoconti che Sandra fa all’avvocato Vincent (Swann Arlaud), un suo amico di gioventù, che lei ha chiamato a difenderla. Inizialmente, come detto, non vediamo Samuel. Sentiamo solo la musica che lui tiene a volume supersonico, mentre lavora a restaurare la baita, sicuramente di malavoglia, a giudicare da questa sua violenta intromissione nella vita che si svolge a piano terra.
Sandra ha ricevuto la visita di una studentessa che la vuole intervistare perché è una scrittrice di successo. Lui pure vorrebbe fare lo scrittore ma vedremo che incolpa lei di costringerlo a occuparsi del figlio al posto suo, perché lei non se ne occupa abbastanza. Si capisce invece che non ha avuto successo come scrittore. E che Daniel sta crescendo senza complessi, malgrado l’handicap, segno evidente che non gli è mancato l’appoggio di entrambi i genitori. Prima della fine, vero colpo di scena, assisteremo alla registrazione vocale di uno scontro fra i due, che ci farà scoprire il loro rapporto. Col dubbio che il marito, che registrava, avesse alzato i toni per creare un dialogo più interessante, come materiale per un suo libro!
A parte la fine drammatica, un rapporto di coppia così è molto vicino alla realtà. Ti domandi, verso la fine, come la regista lo terminerà. Si aprono molte possibili conclusioni, viste le tante sfaccettature dei rapporti descritti. Lei ne ha trovata una inaspettata e geniale. Peccato indulgere per qualche secondo di troppo, nell’ultima scena. Pochi attimi da cancellare in confronto alle due ore e mezzo di durata del film. Palma d’oro meritata.
Sidonie au Japon
Film di bellezza impalpabile, difficile da descrivere, Sidonie au Japon ci voleva, a France Odeon, per dissipare le nebbie e dare un posto alla speranza di bei rapporti uomo-donna possibili. Oltre a Isabelle Hupper e Tsuyoshi Ihara, il terzo protagonista è la cultura del Giappone, in bilico fra antico e ultramoderno. Isabelle e Tsuyoshi sono reduci da lutti multipli, che hanno bloccato la loro evoluzione artistica e umana. L’incontro di due culture diverse è reso possibile dalle esperienze di vita così simili. E dal fatto che la cultura giapponese ammette la possibilità di rapportarsi ai morti per riuscire a separarsene. Si torna così a vivere, a permettersi di nuovo di amare.