È andato in scena nei giorni scorsi per la Stagione Lirica 2023 del Teatro Filarmonico di Verona, in prima nazionale, una “rarità” di sicuro interesse per tutti gli appassionati di teatro: Amleto, il capolavoro dimenticato del compositore e direttore Franco Faccio (1840-1891) su libretto di Arrigo Boito.
Si tratta di un’opera tornata in scena per la prima volta in Italia dopo oltre 150 anni in edizione critica e con uno spettacolo inedito. E già questa è una novità, ma lo spettacolo è stato davvero una grande sorpresa per amanti e appassionati della tragedia lirica, in quanto a ben ricordare già negli anni Sessanta dell’Ottocento il panorama musicale italiano era dominato dall’ormai celebre Giuseppe Verdi. E, all’ombra di Verdi, i più giovani compositori tentavano nuove vie per il melodramma: tra questi, anche in modo aspramente polemico, il ventenne veronese Franco Faccio, guida della giovane Scapigliatura musicale, ma pochi anni dopo, destinato a diventare una delle figure di riferimento dell’establishment culturale.
Franco Faccio, apprezzato compositore, si affermò come direttore d’orchestra diffondendo il repertorio sinfonico in tutta Italia presentando le più importanti opere del secondo Ottocento. Ma le più alte ambizioni artistiche le ha serbate proprio per Amleto, suo secondo e ultimo melodramma, su libretto che l’amico Arrigo Boito ricreò da Shakespeare con estrema varietà linguistica e formale: l’opera debuttò con successo a Genova nel 1865 e fu accantonata per alcuni rimaneggiamenti fino all’unica sfortunata ripresa alla Scala del 1871. L’autore, che già eccelleva come direttore d’orchestra, ritirò subito la partitura e si oppose ad ogni richiesta di rappresentare l’opera: un oblio che durò ben dopo la sua prematura scomparsa, fino al 2014, quando il direttore statunitense Anthony Barrese ne curò un’edizione per Ricordi e l’esecuzione a Baltimora (in concerto) e ad Albuquerque (in forma scenica). È così che l’opera Amleto rimise piede in Europa per il quarto centenario shakespeariano a Bregenz nel 2016, ed è stata straordinariamente riproposta al Teatro Filarmonico di Verona pochi giorni fa, in una nuova produzione di Fondazione Arena.
In questo spettacolo uno dei tratti distintivi dell’impianto scenico è la ricerca di nuove forme per il melodramma, in una contaminazione fra teatro e musica. E questo singolare codice emerge in questo Amleto in cui si manifestano originali sperimentazioni letterarie e musicali e compromessi fra la tradizione italiana e le innovazioni ispirate alla scena franco-tedesca dell’epoca. E ancor più evidenti nel corso della rappresentazione sono le partiture e le scritture musicali in un’originale versione visiva firmate dal regista veronese Paolo Valerio.
Ma è nella la scena del funerale di Ofelia, che prende vigore il contrasto tra la marcia funebre e il canto dei becchini; è così che il Requiem per il re morto si “contamina” ai festeggiamenti per il nuovo sovrano, lungo una sequenza drammaturgica di grande impatto. Ma in tutto questo Amleto si respira un’energia dinamica e di grande impeto, nella quale è possibile rimembrare fluide citazioni: dal Verdi di Rigoletto a quello del Macbeth. Insomma, un’opera che nella propria complessità, si caratterizza dentro uno “spazio e un motivo vitale”, lungo il quale il maestro Giuseppe Grazioli, assai bravo e apprezzatissimo, ha dato prova di grandi capacità e precisioni, coniugando un singolare rapporto tra orchestra e cantanti; calcando partiture che sono diventate motivo di maggior fascino e di grande interesse sonoro e visivo.
Ma allo stesso modo assai lodevole è stata la regia di Paolo Valerio, al suo debutto nell’opera, che ha creato uno spettacolo costituito da proiezioni vibranti, simboli e modelli per uno spazio scenico dai forti risvolti come lo specchio, il cappio nel Monologo di Amleto, o le corde da burattino nella scena teatrale della recita, che hanno determinato la forza e la carica di Amleto, la sua identità ma una sua freschezza e il motivo di una rappresentazione che non ha mancato di emozionare. Forse, anche per quanto Paolo Valerio ha ricordato, che nello spettacolo si assiste a uno “Shakespeare che racconta la fragilità di un uomo, per un destino segnato lungo il quale cerca nella sua mente una via d' uscita. […]”. Un Amleto diretto e talvolta brutale: la sua malinconia in chiaroscuro scivola così nell’ironia corrosiva e nello scherno”.
E proprio in questa direzione, in questo quadro scenico emerge via via la scrittura di Faccio-Boito, i “due giovani scapigliati rivoluzionari, antiromantici, alla ricerca dell’arte totale, già predestinati a segnare quella traccia dell'avanguardia”, forse contratta e sospesa in Amleto, ma in cui si delineano gli “elementi più viscerali e raccapriccianti dell’essere umano”, e dove “colori strumentali inediti, registri vocali portati ai limiti della tessitura, recitativi bisbigliati a velocità quasi eccessiva per dare più realismo a certi passaggi”, costruiscono la forma visiva del testo, il suo carattere e la sua identità o di un Amleto su cui Faccio e i grandi maestri della scena musicale e teatrale hanno fatto rivivere nella maniera più ideale e diretta, o nella forma di una presenza.