Se ripercorriamo quanto accadde durante la Guerra Fredda e la Corsa allo Spazio degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, possiamo trovare molte analogie con l’attuale ritorno ai Blocchi contrapposti, con Stati Uniti ed Europa da un lato, Russia, Cina e India, dall’altro. Questo nuovo confronto però, oltre al pacifico ritorno della Corsa allo Spazio, ha innescato la pericolosa ripresa della sua militarizzazione. Un “quadro” già visto in passato, che potrebbe celare il ritorno di un ciclo storico già sperimentato, dove da un lato l’umanità si accinge a esplorare pacificamente “nuovi strani mondi”, mentre dall’altro rischia pericolosamente, ora più che mai con l’invasione russa dell’Ucraina, e come accadde con la “crisi dei missili di Cuba”, di scatenare una guerra di proporzioni devastanti.
La Luna è al centro di un rinnovato interesse globale, e da alcuni anni obiettivo primario di diverse Nazioni che hanno “messo in campo” una vera flotta di veicoli spaziali. Sebbene nei decenni passati il nostro satellite abbia accolto molte missioni e lander robotici, solo negli ultimi tempi si è tornati sulla sua superficie grazie alla Cina, che è riuscita a far allunare con successo Chang'e 3 (2013), che ha portato il rover Yutu; Chang'e 4, atterrata con un altro rover sul lato nascosto della Luna a gennaio 2019; e la Chang'e 5, che nel 2020 ha riportato sulla Terra circa 2 kg di suolo lunare. A questo assalto, che tanto ricorda quello avvenuto negli anni ’50 del secolo scorso da parte di USA e URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) si sono uniti alla Cina anche India con Mangalyaan, il Giappone con SLIM e la Russia con Luna 25, che però ha fallito la discesa al polo sud del pianeta.
Anche se da queste missioni non appare alcun intrigo internazionale, in realtà arrivare sulla Luna per costruire delle basi e delle stazioni orbitanti è un obiettivo strategico, soprattutto per gli Stati Uniti, che del dominio dall’alto ne hanno fatto una vera e propria dottrina militare. Al momento attuale la supremazia degli USA nello Spazio è assoluta. Dei 5000 satelliti che orbitano sopra le nostre teste, circa la metà sono statunitensi, e utilizzati per scopi scientifici e di comunicazione, una tipologia questa destinata ad aumentare vertiginosamente, poiché i miliardari della tecnologia, come Elon Musk con Starlink e Greg Wyler con OneWeb, stanno cercando di portare l'accesso a Internet ad alta velocità in ogni angolo della Terra.
Il numero restante riguarda satelliti scientifici, sperimentali, per le comunicazioni e, infine, militari. Di questi, oltre 250 sono statunitensi, 125 quelli della Russia e 130 della Cina. Un primato, quello statunitense, che però durerà ancora per poco, ed è questo che preoccupa il Governo americano, perché con l’attuale ritmo di crescita è ipotizzabile che la Cina raggiunga la parità spaziale con gli USA entro il 2030, e ciò costituirà un pericolo per gli attuali equilibri strategici mondiali.
Costantemente concentrati a guardare “in basso” leggendo la cronaca di quanto accade sulla Terra, la maggior parte dei Media, dopo lo sbarco del primo uomo sulla Luna nel 1969, ha dimenticato d’osservare “in alto”, lasciando gli accadimenti dello scacchiere Spaziale a pochi esperti del settore ed agenzie specializzate. Eppure, basterebbe analizzare i comunicati ufficiali delle Agenzie Spaziali, per accorgersi delle strategie che le nuove superpotenze stanno attuando per dominare il pianeta, sia da un punto di vista militare che commerciale. Strategie poco conosciute al pubblico, e inserite all’interno di accordi bilaterali come gli “Artemis Accord” della NASA, che vincolano il contraente ad abbandonare o rivedere ogni collaborazione tecnica con la Cina o la Russia, e a non condividere con loro tecnologie d’importanza strategica.
Da qui l’imbarazzo dell’Italia, che ha firmato l’accordo nel 2020, ma che aveva già ratificato con la Cina, nel 2019, l’Agenda per entrare a far parte della “Nuova Via della Seta”. Memorandum nel quale erano inclusi 29 accordi, dieci fra aziende private italiane e cinesi e 19 istituzionali, dal valore complessivo di 7 miliardi di euro, che ora dovranno essere rivisti o annullati, per assecondare il Governo degli Stati Uniti.
Apparentemente, può sembrare che questa scelta sia andata a scapito dell’autonomia decisionale del nostro paese, ma l’Italia è da sempre un alleato degli Stati Uniti e membro della NATO, e necessariamente doveva compiere una scelta strategica: confermare da quale parte stare, se col Blocco Occidentale, che possiamo principalmente individuare nelle nazioni appartenenti al G-7 (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Europea; che però è un "membro non enumerato".) o con “gli altri”. Inutile ricordare che per l’Italia, uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale, non vi è l’opzione della neutralità come per altre grandi democrazie come il Brasile, l’Indonesia o l’India, solo per citarne alcune.
Eppure, al Blocco Occidentale, attualmente detentore del dominio militare ed economico del pianeta, appartengono appena due miliardi di persone. Se consideriamo che entro il 2030 la popolazione mondiale arriverà a dieci miliardi, tolti due significherà che almeno otto si troveranno dall’altra parte. E con una Cina in crescita vertiginosa, insieme a India, Brasile e Sud Africa, che con la Russia fanno parte del BRICS, un raggruppamento che mira ad affrancarsi economicamente dal potere occidentale del dollaro e al quale hanno richiesto l’adesione altre 40 nazioni, è facile capire dove si sposterà l’ago della bilancia economico del pianeta, con otto miliardi di persone che vorranno vedere il proprio tenore di vita migliorato, e possedere un frigorifero, un’auto o un cellulare.
Questa inevitabile trasformazione spaventa i “poteri forti” occidentali, che sebbene in agonia potrebbero voler mantenere a ogni costo il dominio economico sul resto del mondo. Uno squilibrio che diventerà sempre più pericoloso, e che potrebbe portare anche a una reazione militare da una delle due parti, se nel frattempo non si arriverà al dialogo e a una regolamentazione che tenga conto dei nuovi attori ora presenti nel campo spaziale, ivi compreso le emergenti aziende private come la SpaceX di Elon Musk, che con il progetto Starlink, una costellazione di satelliti attualmente in costruzione per l'accesso a internet globale, preoccupa non solo la Cina, ma anche gli USA, se il suo uso sarà sotto il controllo di una singola persona.
Se analizziamo le ultime missioni e leggiamo le dichiarazioni rilasciate dalle Agenzie Spaziali attualmente in corsa per la Luna, appare chiaro come da alcuni anni sia in atto un riallineamento generale verso uno o l’altro Blocco. Le agenzie spaziali guardano tutte in “alto”, al dominio dello spazio extra-atmosferico, vedendo nella Luna il luogo ideale nel vicino spazio profondo ove operare militarmente con maggior sicurezza, allontanandosi dalle ormai vulnerabili orbite basse, per intenderci quelle dove si trovano le attuali stazioni spaziali, che sono usate dai satelliti militari. A queste quote, i satelliti di comunicazione, posizionamento e sorveglianza, sono ormai diventati obiettivi vulnerabili con l’avvento degli armamenti antisatellite, già disponibili a tutte le attuali potenze spaziali.
Pertanto, stabilire avamposti lunari, occupando allo stesso tempo posizioni strategicamente utili come i punti di Lagrange (posizioni nello spazio in cui un satellite tende a rimanere fermo) sono visti come elementi di vitale importanza in caso di conflitto fra i due Blocchi. Contesa, che partirebbe necessariamente con un attacco preventivo alle infrastrutture orbitali, che se si trovassero molto più lontano (in alto), diventerebbero più difficili da raggiungere senza essere scoperti in anticipo, permettendo all’avversario di attuare le necessarie contromosse.
Una strategia che gli statunitensi hanno chiamato Look Up (Guarda Alto), intesa a mantenere il dominio delle orbite nello spazio profondo, e muoversi in anticipo rispetto alla Cina, che ha ufficialmente dichiarato di voler costruire una base sulla Luna insieme alla Russia entro il 2030. Questo nuovo orientamento, inoltre, ha fatto si che negli ultimi anni siano nati nuovi organismi interforze spaziali, il cui scopo dichiarato è il coordinamento delle singole tattiche nazionali nello Spazio, ma che prelude a possibili azioni di difesa e attacco, che possono andare dalla mera sorveglianza alla guerra elettronica, fino alla capacità di offesa orbitale con la distruzione dei satelliti potenzialmente ostili. Un reparto militare che in Italia è stato istituito nel 2020, con la nascita del “Comando delle operazioni spaziali”.
Questa strategia, inoltre, servirà a utilizzare e controllare il progressivo e veloce sviluppo dell’esplorazione spaziale di massa, che grazie alle nuove tecnologie ha consentito l’accesso allo Spazio a pattuglie di intraprendenti e ricchissimi privati, come Elon Musk e Jeff Bezos, che vedono nella commercializzazione di questa nuova frontiera una nuova e immensa fonte di guadagno. Ma anche a “seguire da vicino” nazioni che fino a pochi anni fa erano totalmente o poco interessate allo Spazio, come Israele e gli Emirati Arabi Uniti, per citarne due, che si stanno muovendo verso la Luna e Marte con la collaborazione della NASA.
Ovviamente, la nuova gara spaziale con il suo riposizionamento strategico manterrà inalterati tutti gli obiettivi scientifici. Pertanto, le ricerche sperimentali, industriali e mediche in ambiente di microgravità, continueranno anche quando la ISS sarà dismessa nel 2030, grazie allo sviluppo di nuove stazioni private più piccole, meno costose e facili da gestire, lasciando alla NASA la realizzazione della stazione Lunar Gateway, che servirà come base di approdo e partenza per la Luna delle missioni lunari Artemis.
All’appello della NASA, hanno risposto Boeing, Lockheed Martin e Northrop Grumman, che hanno dichiarato di essere pronte a costruire queste stazioni spaziali già nel 2027. Un’altra compagnia, la Axiom Space, ha inoltre confermato che la sua stazione sarà pronta due anni prima, nel 2025. A questo gruppo si è recentemente unita anche la Vast Space di El Segundo, California, che ha l’ambizioso obiettivo di sviluppare stazioni spaziali a gravità artificiale.
Il rispetto di queste date è molto importante per la NASA e i suoi partner. Proprio di recente l’Agenzia ha chiesto rassicurazioni al riguardo, perché la prima stazione possa essere operativa entro il 2028. Lo scopo è evitare che si ripeta quanto accaduto con il pensionamento dello Space Shuttle nel 2011, che lasciò gli USA per otto anni senza la possibilità di un accesso nazionale alla ISS, costringendola a stipulare un “contratto taxi” alla Roscosmos, fino al lancio della prima Crew Dragon di SpaceX. Un ritardo che spaventa il Governo americano, perché se si avverasse lascerebbe ancor più spazio ai rivali cinesi, che possiedono già una stazione orbitale nazionale operativa, la Tiāngōng, (Palazzo Celeste) e hanno apertamente dichiarato di essere intenzionati a sbarcare sulla Luna e costruirvi una base permanente insieme alla Russia.
Non sorprende che l’Agenzia spaziale cinese (CMSA) collabori con Roscosmos anziché con la NASA. Gli Stati Uniti hanno in gran parte escluso la Cina dai loro programmi spaziali, perché una legge statunitense del 2011 impedisce la collaborazione fra le due Agenzie. È questo il motivo per cui nessun astronauta cinese ha mai visitato la ISS. Un divieto che ci ricorda come la ISS non sia mai stata poi così “internazionale” come suggerisce il nome, e che ha dato alla Cina ampie ragioni per programmare da sola un sofisticato programma spaziale. In questo scenario sono meno chiare le intenzioni della Russia. Nonostante la guerra in Ucraina e le sanzioni imposte da una parte della comunità internazionale, la Roscosmos ha continuato a collaborare con i partner della Stazione Spaziale Internazionale, anche se i propri dirigenti hanno tentato di usarla politicamente per giustificare i propri interventi militari. Ne è un esempio l’annuncio dato dall’ex capo della Roscosmos, Dimitry Rogozin, di voler spostare il centro addestramento cosmonauti da Città delle Stelle in Crimea, per ricevere una approvazione indiretta dagli Stati Uniti alla sua annessione, minaccia poi mai portata a termine come quella di abbandonare la ISS prima dei tempi concordati.
Sulla Stazione Internazionale, Rogozin aveva più volte dichiarato di voler lasciare la partnership entro il 2024, per lanciare subito dopo la nuova stazione nazionale russa, cambiando poi più volte idea fino alla sua sostituzione con Yuri Borisov, attuale capo dell'Agenzia spaziale, che dopo essersi consultato con Vladimir Putin ha confermato l’impegno fino al 2028, annunciando il lancio del primo modulo della loro stazione entro il 2027.
È vero che la guerra in corso in Ucraina sta cambiando velocemente tutta la geopolitica spaziale, ma va ricordato come da decenni la politica spaziale russa mantenga nei confronti degli Stati Uniti un atteggiamento a dir poco “ondivago”, dimenticando che furono gli USA a correre in loro soccorso, con ingenti finanziamenti, per salvare il loro programma spaziale dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Così facendo li coinvolsero nella costruzione della ISS, evitando allo stesso tempo che molti scienziati russi prendessero la strada per paesi potenzialmente ostili.
Fin d’allora lo sviluppo del programma spaziale russo ha subito una lunga serie di difficoltà e ritardi, e il recente fallimento del Luna 25 ne sembra essere una conferma. La Russia non inviava sulla Luna una sonda fin dai tempi della gara spaziale con gli Stati Uniti. L'ultima missione infatti fu Luna 24, lanciata 47 anni fa. Luna 25, insieme alle programmate 26 e 27, era in programma già da un decennio, ma ha subito numerosi ritardi. Inizialmente era stata annunciata come pronta nel 2021, per poi scivolare nel 2022 e infine nel 2023.
Prima dell'invasione dell'Ucraina anche l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) era coinvolta nella missione, con la fornitura della telecamera Pilot-D, mai consegnata a seguito alle sanzioni internazionali. L’ESA ha dovuto inoltre rinunciare ad altre collaborazioni, ivi inclusa l’importante missione ExoMars, che prevedeva di lanciare con un vettore russo il rover Rosalind Franklin, costruito allo scopo di cercare su Marte tracce di vita passata o presente. La rinuncia in questo caso ha procurato più danni al programma europeo che ai russi. Infatti, la missione non potrà partire prima del 2028, sempre che nel frattempo si trovi un vettore idoneo al lancio, e che si realizzi ex novo la piattaforma automatica di atterraggio, che inizialmente era a carico (e già pronta) della Roscomos.
Il mancato utilizzo del sistema Pilot-D, ha obbligato gli ingegneri russi ad apportare modifiche al sistema di navigazione e atterraggio in brevissimo tempo, e lo schianto del lander sulla superficie lunare dopo una manovra orbitale fallita, vanificando la spesa di almeno 130 milioni di dollari, pare sia in parte dovuto a questa mancanza. Una missione che era importantissima per la Russia, perché non aveva solo lo scopo di ristabilire il proprio prestigio spaziale severamente in crisi da decenni, ma dimostrare alla Cina, di cui è partner per la realizzazione di una base lunare, di essere ancora in grado di “gestire lo Spazio” nonostante il dissanguamento economico dovuto alla guerra in Ucraina.
Negli stessi giorni di Luna 25, è l’India a cogliere un successo significativo con Chandrayaan-3, che era entrato in orbita lunare il 7 agosto, atterrando con un piccolo rover sull’emisfero sud della Luna il 23 dello stesso mese. Un’impresa, quella dell’India che la porta a diventare la quarta Nazione a scendere in modo autonomo sul nostro satellite. Un successo dell'Indian Space Research Organization (ISRO) che va a replicare quello di Mangalyaan, entrata in orbita marziana nel 2014 e che ha cessato di funzionare nel 2022, e che costituisce un messaggio preciso per Cina e Russia, come a dire: “Attenzione. Nella corsa allo Spazio ci sono anch’io e non ho bisogno di voi”.
Oltre all’India, altre Agenzie spaziali si sono messe in corsa per la Luna. Israele nel 2019 con Beresheet, missione poi fallita per un guasto al motore di frenata. La Corea del Sud, che in collaborazione con la NASA ha lanciato il Korea Pathfinder Lunar Orbiter (KPLO) nell'agosto 2022, per mappare la Luna e individuare i giacimenti di ghiaccio che si trovano al polo sud. Il Giappone, con lo Smart Lander for Investigating Moon (SLIM), partito il 6 settembre 2023, che tenterà l’impresa di diventare il primo veicolo spaziale giapponese ad atterrare sul nostro satellite. Altri tenteranno in futuro, come l’Australia che nel 2026, nell’ambito del programma di cooperazione Artemis, tenterà anch’essa lo sbarco di un rover.
Grazie ai progressi ottenuti dalla tecnologia robotica e informatica, e alla disponibilità di vettori di lancio privati, alle Agenzie nazionali si sono affiancate imprese private e startup, come la ispace di Tokyo, il cui lander lunare Hakuto-R, lanciato lo scorso aprile, non è riuscito a scendere sulla superficie lunare. Degni di nota sono la SpaceX di Elon Musk, proprietario di Tesla, il cui successo dei suoi vettori riusabili lo ha portato a stabilire lo strabiliante record di cento lanci in un anno, e che con la futuristica Starship conta di stabilire basi sia sulla Luna che su Marte. A SpaceX si affianca la Blue Origin del fondatore di Amazon Jeff Bezos, che ha in corso di collaudo un nuovo lanciatore riutilizzabile, e recentemente si è unita al programma di lander lunari della NASA, proprio in competizione con SpaceX, per sviluppare veicoli spaziali destinati a trasportare gli astronauti sulla superficie della Luna.
La comparsa di nuovi e numerosi attori interessati alla Luna, e il loro veloce avvicendamento, sta però creando una profonda destabilizzazione al Corpus Juris Spatialis e cioè all’insieme dei trattati internazionali sullo spazio. Questi accordi nascono il secolo scorso, in un clima di Guerra Fredda dettato dalla competizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica per il dominio dello Spazio. I sovietici furono i primi a lanciare un satellite nel 1957 (Sputnik-1) e a portare Yuri Gagarin nello spazio nel 1961, ma a vincere questa gara furono gli americani il 4 luglio 1969 con la missione Apollo 11, durante la quale il mondo intero poté assistere ai primi passi di Neil Armstrong sulla Luna.
Considerato il clima di competizione, e la pericolosità che potesse sfociare in una guerra, fu in quegli anni che lo Spazio divenne per la prima volta rilevante da un punto di vista politico e militare, e sorprende che il primo trattato internazionale sull’argomento, “Principi che governano l’attività degli stati nell’esplorazione ed uso dello spazio extraatmosferico, inclusa la Luna e gli altri Corpi celesti” sia stato firmato alle Nazioni Unite solo nel 1967, ma ben sappiamo che trovare un accordo senza che si ledano gli interessi delle parti è sempre molto difficile.
Questo accordo, conosciuto semplicemente come: “Trattato sullo spazio extra – atmosferico” o Outer Space Treaty, si compone di 17 articoli, che hanno posto le basi del Diritto Internazionale dello Spazio. Alcuni dei più interessanti sono l’art. 1, che stabilisce che l’esplorazione dello spazio extraatmosferico deve essere portata avanti nell’interesse di tutti i paesi; l’art. 2, che vieta alle nazioni di occupare risorse e di rivendicare in qualsiasi forma i corpi celesti; l’art. 4, che prevede l’uso pacifico dello spazio vietando l’utilizzo di qualsiasi arma di distruzione di massa e la costruzione di basi militari; e infine l’art. 7, che stabilisce il regime di responsabilità in caso di danno procurato da un lancio fallito o da un oggetto precipitato sul pianeta, stabilendo che è sempre responsabile lo Stato nel cui territorio è stato tenuto il lancio, anche se questo è stato organizzato da un’agenzia non governativa.
Successivamente, sempre alle Nazioni Unite, sono stati redatti e firmati altri quattro trattati Spaziali. L’Accordo sul salvataggio e recupero degli astronauti e degli oggetti spaziali, o Agreement on the Rescue of Astronauts, the Return of Astronauts and the Return of Objects Launched into Outer Space: firmato il 19 dicembre 1967; la Convenzione per la responsabilità internazionale su danni causati da oggetti spaziali” o Convention on International Liability for Damage Caused by Space Objects: firmata il 29 marzo 1972; la Convenzione sull’immatricolazione degli oggetti lanciati nello spazio o Convention on Registration of Objects Launched into Outer Space: adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1974 e infine il trattato sulle Attività degli Stati sulla Luna” (Agreement Governing the Activities of States on the Moon and Other Celestial Bodies): redatto alle Nazioni Unite il 18 dicembre 1978, ma che non ha trovato un consenso unanime. Infatti, riunisce solo 18 Stati, e manca ancora l’adesione di Stati Uniti, Russia e Cina, a dimostrazione che il clima pacifico dei primi anni sta pericolosamente indebolendosi.
Basterebbe che solo una delle tre firmasse per trovare un clima più sereno, ma al momento nessuna delle parti pare intenzionata a farlo. L’ultima volta che il “Trattato sulla Luna” è stato citato negli Stati Uniti, lo fece nel 2020 il presidente Donald Trump, che lo chiamò: “un tentativo fallito di limitare la libera impresa”, e questa citazione dà la misura dell’attuale atteggiamento verso la Luna delle Potenze spaziali. Per questo motivo, l’importanza nel diritto internazionale dell’Accordo è minima, mentre al contrario doveva essere un adeguamento rispetto al vecchio Trattato sullo spazio extra – atmosferico. Se il Trattato sulla Luna del 1978 non verrà ratificato, dopo essere stato aggiornato tenendo conto delle nuove tecnologie e dei nuovi attori presenti nello Spazio, il rischio è che diventi inutile l’intera architettura legislativa di questa prima storica convenzione, che fino a oggi ha avuto il merito di mantenere il dialogo fra le parti e impedire una guerra nello Spazio.
La mancanza di un accordo aggiornato che tuteli le rotte nello Spazio Profondo, e regoli lo sfruttamento della Luna e dei pianeti, potrebbe portare a una pericolosa deregulation, che a sua volta potrebbe costringere le Nazioni che dovessero sentirsi in qualche modo minacciate, a rispondere con la “politica delle cannoniere”. Una vecchia attività di politica estera che implicava dimostrazioni di potenza militare, sottintendendo una minaccia di guerra se non si dovesse venire ad un accordo. Fu con questa politica che un tempo le rispettive flotte nazionali proteggevano con le proprie navi da guerra, i porti e le rotte oceaniche legati agli interessi economici dei propri Paesi, una pratica abbandonata con la fine della Seconda guerra mondiale, grazie alla nascita di nuovi accordi commerciali fra le nazioni.
Pur non avendo firmato il trattato, gli accordi Artemis da una parte, e la Via della Seta dall’altra, confermano le intenzioni di Stati Uniti e Cina di voler contenere l’entusiasmo di privati e di molte Nazioni emergenti, legandole a una “propria” regolamentazione dello sfruttamento dello Spazio Profondo senza rivendicazioni di proprietà, sull’esempio del “Trattato Antartico”, firmato a Washington il 1° dicembre 1959. Sebbene vi siano sette Stati che ne rivendicano diritti di sovranità (Argentina, Australia, Cile, Francia, Norvegia, Nuova Zelanda, Regno Unito), e che l’Accordo necessiti di un aggiornamento in considerazione dei considerevoli cambiamenti politici e sociali che hanno avuto luogo nell’epoca successiva alla sua adozione, il Trattato e il regime da esso originato da un punto di vista pratico ha finora dimostrato una certa efficacia nella regolamentazione delle questioni antartiche, nonostante il crescente interesse per la ricchezza delle sue risorse e la sconfinata estensione dei suoi spazi. Una situazione analoga, quindi, potrebbe accadere anche sulla Luna, ed è per questo che è necessaria una regolamentazione che impedisca rivendicazioni nazionali che potrebbero innescare pericolose tensioni fra i due Blocchi.
Secondo alcuni analisti la soluzione potrebbe venire dall’aprirsi a una pacifica collaborazione economica internazionale. Una caratteristica già presente nelle missioni spaziali private, che per la massima parte sono appunto frutto di accordi commerciali. Ma non sempre il “mercato” porta alla pace e alla libertà, poiché la dipendenza economica può essere usata anche come arma bellica. È quanto sostiene il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman che ritiene che gli accordi commerciali in alcuni casi possono portare anche a dei ricatti politici.
Prendiamo come esempio l’aggressione russa all’Ucraina, appare chiaro che Vladimir Putin ha fatto conto sulla dipendenza dell’Europa, e della Germania in particolare, dal gas naturale russo e che questa forte dipendenza economica avrebbe costretto le nazioni Occidentali ad acconsentire alle ambizioni militari del Cremlino.
Krugman, quindi, fa a pezzi uno dei pilastri della concezione tedesca della pace e della guerra che è diventata un vangelo dopo il disastro delle due guerre mondiali. Cioè, la convinzione che i commerci e le relazioni economiche strette portino pace e fratellanza tra i popoli e scongiurino il ricorso alle armi per risolvere le controversie. Un’idea questa che è stata anche del pensiero illuminista e che troviamo ampiamente espressa, per esempio, in Voltaire.
È dunque vero che il commercio promuove la pace e la libertà? Certamente, succede in molti casi. In altri, tuttavia, i governi autoritari, più preoccupati del potere che della prosperità, possono iniziare a considerare l’integrazione economica con altre nazioni come una leva per scagionarli da cattive azioni, ipotizzando che le democrazie con un forte interesse economico nei loro regimi chiuderanno un occhio sulle loro reiterate malefatte.
Ciò nonostante, il commercio appare l’unica soluzione pacifica che possa aprire al dialogo i due Blocchi, requisito indispensabile per esplorare questo nuovo infinito oceano chiamato Spazio, senza preconcetti e barriere ideologiche, così da assicurare una giusta ed equilibrata prosperità al nostro pianeta.