L’uomo è uno scimpanzé che si dà un sacco di arie.
(Bert Keizer)
In questo articolo la parola lingua, idioma gentil sonante e puro
come diceva Vittorio Alfieri, non è intesa come idioma (italiano, francese, russo eccetera), e nemmeno come la semplice articolazione dei suoni, fonemi e morfemi, che emettiamo quando parliamo e comunichiamo con qualcuno, ma come quella parte anatomica della bocca che utilizziamo per compiti diversi da quelli strettamente linguistici, sebbene senza di essa non potremmo emettere nessun suono articolato: per mescolare e masticare il cibo in bocca prima di inghiottirlo o, paradossalmente, per mettere in ridicolo qualcuno protendendola in avanti, con la bocca aperta nel gesto della boccaccia nei bambini e spesso anche tra gli adulti che lo fanno, forse, per gioco, diletto e forse anche per vessare il prossimo! (Su questo fenomeno molto interessante, però, non esiste ancora una letteratura scientifica adeguata, soprattutto psicologica).
Abbiamo poi le mani e anch’esse non le utilizziamo solo per svolgere lavori manuali, muovere oggetti, guidare la macchina o battere lettere su una tastiera di un computer, ma per svolgere altri comportamenti, per esempio quelli gestuali o nei comandi deittici quando chiediamo a qualcuno più alto di noi di prenderci un libro da uno scaffale che indichiamo chiaramente con la mano alzata, la destra o la sinistra a seconda che siamo destrimani o mancini, e l’indice puntato verso il libro desiderato.
È quello che facciamo tutti e in tutte le culture umane e che in diversi casi fanno anche gli animali. Per esempio, lo fanno gli scimpanzé rivolti a un essere umano quando vogliono qualcosa che non possono raggiungere con le loro mani. Insomma, qui stiamo parlando di due organi che potrebbero essere visti e indagati sotto una luce diversa da quella con cui è stato sempre fatto: le mani per manipolare e la lingua per parlare.
Per anticipare dove si andrà a parare, partiamo da un presupposto importante e cioè che i movimenti della nostra lingua in bocca e quelli delle nostre mani sono spesso coordinati tra loro (non si sa esattamente come, qualcuno sostiene che forse lo si fa inconsciamente), anche se sappiamo che la lingua è sotto il controllo di un nervo cranico, l’ipoglosso, esattamente il dodicesimo, e le mani sono sotto il controllo dei nervi spinali. Però, senza scomodare l’inconscio e senza dover padroneggiare l’anatomia del sistema nervoso centrale e periferico umano, potremmo dire che il collegamento tra queste due funzioni ha radici biologiche evolutivamente molto remote che probabilmente risalgono all’origine della nostra specie, se non addirittura a prima che diventassimo degli uomini sapiens tra 150 mila e 200 mila anni fa.
Come si accennava, anche nelle scimmie esistono collegamenti coordinati di questo genere e in alcune di loro, ovvero negli scimpanzé, si sono sviluppati tanto quanto nell’uomo. La questione è molto intrigante perché per quello che sappiamo del cervello e della corteccia cerebrale, i centri nervosi che controllano i movimenti della lingua in bocca e delle mani sono diversi per estensione e non sono nemmeno vicini tra loro. Per capirlo meglio consideriamo il famoso Homunculus che abbiamo studiato in psicologia e in medicina all’Università. Se osserviamo il numero dei neuroni della corteccia cerebrale coinvolti nelle attività sensoriali e in quelle motorie, si ottiene una figura veramente singolare e sproporzionata del corpo umano. Si vede che la bocca, la lingua e le mani, di cui stiamo parlando, hanno aree coinvolte molto più grandi rispetto ad altre parti del corpo, per esempio a quelle del viso o del collo che sono molto più piccole.
Allora se queste due aree corticali sono relativamente così distanti, il collegamento come si realizza e in quali zone del cervello? Probabilmente in due zone: quella che controlla l’uso del linguaggio articolato con tutta la sua generatività, flessibilità e ricorsività grammaticale (area di Broca e di Wernicke) e quella che controlla l’uso manuale degli strumenti (corteccia motoria), tra l’altro vicine tra loro. Però, per quello che ci riguarda, più che sull’uso del linguaggio articolato dovremmo concentrarci sull’uso degli strumenti che noi esseri umani (e anche alcuni animali) abbiamo costruito con le nostre mani molto prima che cominciassimo a parlare.
Non è un caso che quando li utilizziamo, semplici o complessi che siano, proprio mentre lo stiamo facendo, inconsapevolmente, muoviamo la lingua in bocca a destra e sinistra, in alto e in basso, la tiriamo fuori tra i denti e abbassiamo spesso la mandibola emettendo dei vocalizzi, a volte onomatopee, mai parole vere e proprie. A conferma di ciò basta vedere, per esempio, un tennista mentre gioca: in coincidenza dei suoi colpi e rilanci apre la bocca, tira fuori la lingua, emette gemiti o urla strozzate. In sostanza, noi uomini usiamo la lingua in bocca anche durante lo svolgimento di compiti in cui il suo uso non sarebbe proprio necessario o, almeno, così sembra.
Questo è però ancora più evidente tra gli oratori (ammesso che ne esistano ancora!), o comunque tra coloro che parlano animatamente o fanno un discorso, che gesticolano mentre parlano e i cantanti che mentre cantano in aggiunta all’uso delle parole, spesso incomprensibili, ai movimenti del corpo e ai gesti che fanno con le mani, muovono e tirano fuori esageratamente la lingua (in questo Mick Jagger dei Rolling Stones è certamente un campione indiscutibile, molto meno lo erano i Beatles), come se ci fosse una stretta connessione tra l’uso delle mani e quello della lingua in bocca più che con le parole.
Oppure, osserviamo, per esempio, Donald Trump mentre fa i suoi discorsi semplici e chiari, per quanto discutibili: muove incessantemente le mani e le braccia, le alza e le abbassa, le porta in avanti, poi le ritrae, apre eccessivamente e spesso la bocca. Trump gesticola molto più di quanto faccia, per esempio, Joe Biden, il suo rivale, che parla sempre sotto tono, quasi immobile con il corpo, a bocca socchiusa e spesso strascicando le parole.
Certo, al di fuori di questo, se non muovessimo più la lingua in bocca moriremmo in poco tempo, ma non è questo il punto. In sostanza, ciò che si vuole mettere in evidenza sono due fatti. Il primo è ciò che facciamo con la lingua in bocca oltre che parlare; il secondo è ciò che facciamo con la lingua in bocca mentre eseguiamo in silenzio un compito manuale con uno strumento in mano, per esempio un cacciavite, un trapano o altro di questo genere.
In realtà, non dovremmo concentrarci esclusivamente sulle questioni corticali e sulle aree che controllano questo o quel comportamento, sulla plasticità del cervello, sulle patologiche sovrapposizioni percettive di un’area corticale su di un’altra che provocano casi di sinestesia olfattiva, uditiva, tattile, visiva eccetera, che sono certamente fenomeni importanti e interessanti, soprattutto da un punto di vista clinico, di cui già sappiamo molto. Dovremmo concentrarci anche su un’altra questione evoluzionistica sollevata diverso tempo fa da un noto paleontologo americano, Stephen Jay Gold, purtroppo deceduto nel 2002, a 61 anni di età.
Ci riferiamo all’esattamento (exaptation), cioè il concetto in base a cui è stato solo un caso se nel corso della nostra evoluzione alcuni nostri organi (bocca, lingua, laringe, corde vocali, polmoni eccetera) si sono evoluti per svolgere certe funzioni, certamente quella respiratoria, ma che poi, nel tempo, queste funzioni si sono modificate per svolgerne anche altre, per esempio per sviluppare, ma in un secondo tempo, il linguaggio articolato.
L’anatomia del nostro apparato fonatorio, per esempio, rispetto a quello di uno scimpanzé, confermerebbe questa ipotesi. Se così stanno le cose, ecco come si spiega, almeno così sembra, il legame stretto che esiste tra gestualità, manualità e i movimenti della lingua in bocca, legame che si è creato molto prima che noi esseri umani cominciassimo a emettere le prime parole.