Può apparire un semplice luogo comune, ma il nome “piramide” è sicuramente uno dei termini tra i più iconici e maggiormente evocativi conosciuti. Su questo i dubbi sono pochi. Del resto, sono ben pochi a non sapere cosa siano le Piramidi, specialmente se il contesto di riferimento è per esempio la civiltà dell’Egitto Antico. Anche su questo non si hanno grandi incertezze.
Ora, le indecisioni più scomode si trovano nel definire quale sia la provenienza di questo sostantivo antico e, soprattutto, se calato in un orizzonte etimologico, cosa può aver voluto significare originariamente la denominazione “piramide”. In questo breve studio si cercherà di risolvere, almeno in una certa misura, la vexata quaestio, che come si dimostrerà non è proprio una vuota questione di lana caprina.
Anzi, tutt’altro a ben vedere. È doveroso per completezza, prima di addentrarci negli insidiosi meandri della semantica e dell’etimologia legati al termine “piramide”, sostantivo con cui s’identificano inequivocabilmente i celebri edifici monumentali egizi di cui si discute, è doveroso, si diceva, partire con la definizione di “piramide” data dalla disciplina sorella dell’aritmetica e dell’algebra, ossia dalla Geometria.
Ovvero della geometria
La sagoma sottesa alla struttura della “piramide” è geometricamente ben definita, precisando che in geometria solida si definisce “piramide” un poliedro limitato da un poligono qualsiasi e da tanti triangoli quanti sono i lati di questo poligono, aventi tutti un vertice in comune. È appunto il modulo costitutivo e caratterizzante le piramidi egizie note, il riferimento primario è a quelle esistenti sull’altipiano di El – Giza, che hanno proprio una base poligonale quadrata e quattro triangoli isosceli uniti in un vertice in comune. Fin qui tutto scorre.
Un po’ di Storia
Senza addentrarci troppo oltre nelle pur importanti definizioni di Geometria, tentiamo di ricostruire in estrema sintesi l’attendibile traiettoria storica compiuta dal concetto geometrico di piramide e dal relativo portato nell’articolato contesto dell’Egitto Antico. È noto che furono i Greci, mirabile civiltà che ha attinto a piene mani dalla ancor più stupefacente cultura sviluppatasi sulle sponde del Nilo, i primi a studiare le caratteristiche delle figure di geometria solida, i poliedri appunto, di cui la piramide è parte.
In genere i principali poliedri che si prendono in considerazione per la loro semplicità, sono i cubi, i parallelepipedi, appunto le piramidi e i prismi. Di qui ai solidi che formano il gruppo dei poliedri più complessi, i cinque “poliedri regolari”, il passo è molto breve. Le regolarità dei solidi definiti platonici, sono oltremodo affascinanti. Questo ha fatto sì che tali figure geometriche venissero ampiamente studiate fin dall’antichità, spesso cercando in esse significati nascosti e attribuendo loro ineffabili valori arcani. I “poliedri regolari” in discorso sono più noti appunto come “solidi platonici”.
Lo storico Proclo (V sec. d.C.), nondimeno, attribuisce a Pitagora e non a Platone la scoperta di queste peculiari figure geometriche. Ad oggi quest’ipotesi, pur essendo suggestiva per essere certamente ammissibile, non trova riscontro documentale, giacché non sono pervenuti frammenti originali delle preziose opere pitagoriche e pertanto l’ipotesi in discorso non può essere convalidata. A tutti gli effetti, i poliedri regolari compaiono per la prima volta nel “Timeo” di Platone, il più antico scritto pervenutoci nel quale si è ritrovato il riferimento a questo genere di solidi geometrici.
È ovvio quindi che tradizionalmente i poliedri regolari siano chiamati “solidi platonici”, sia per il ritrovamento nello scritto platonico sia per il ruolo fondamentale giocato nella cosmologia elaborata dall’autorevole Platone. Ora, si può leggere nel “Timeo”: “… D’altra parte, fra tutte queste figure, quella che ha il minor numero di basi è naturale che abbia la proprietà di essere quanto mai mobile, perché è la più tagliente ed in ogni sua parte la più acuta di tutte, non solo, ma è la più leggera poiché è costituita del minor numero delle medesime parti. E così la seconda di queste figure possiede in secondo grado tutte queste qualità di cui abbiamo parlato per la prima, e in terzo grado la terza.
Ne segue, dunque, logicamente e verisimilmente, che la figura solida della piramide sia elemento e semenza del fuoco (tetraedro), mentre la seconda, in ordine di generazione, diciamo che sia l’elemento dell’aria (ottaedro), terza quello dell’acqua (icosaedro)…”. Questo, secondo l’influente Platone poiché la piramide ha: “… la proprietà di essere quanto mai mobile… Ne segue… che la figura solida della piramide sia elemento e semenza del fuoco…”. È molto probabile che sia quest’asserzione platonica il motivo per cui il termine “piramide” deriverebbe proprio dal greco πυραμίς – ίδος, letteralmente “della forma del fuoco”, in latino pyrămis – ĭdis. Il sostantivo piramide praticamente da sempre è utilizzato per identificare gli straordinari monumenti costruiti dagli Egizi Antichi.
Ecco allora chiarito come sia stato possibile, quasi un banale gioco da ragazzi per i pionieri dell’Egittologia e per tutti gli studiosi successivi, in voce corale associare la piramide egizia al fuoco per eccellenza, ossia al Sole, del resto una tra le divinità più rappresentative per la civiltà dei Faraoni. Semplicissimo. Già. Troppo. Per tutti, le piramidi egizie sono così diventate loro malgrado e a dispetto delle intenzioni originarie dei loro ideatori, una simbologia schiettamente solare. Facilissimo. Troppo. Nulla di più sbagliato. Nulla di meno autentico. Nulla di meno coerente con il significato primigenio celebrato dal loro articolato nome, come si avrà modo di dimostrare.
Questo ha contribuito ad aumentare il fastidioso “rumore di fondo” che non ha consentito d’intendere pienamente la finalità principale per cui sono state create le piramidi menfite. È bene ricordare che la disamina qui proposta è orientata alle tre piramidi esistenti sull’altipiano di El – Giza proprio per la loro estrema importanza storica documentale, sebbene il risultato cui si è pervenuti sia estensibile a tutti gli altri edifici piramidali. Si deve obbligatoriamente anche notare, però, ed è cosa del tutto inaspettata a conferma nondimeno dell’incertezza di cui si è detto, che sempre secondo gli studiosi il sostantivo “piramide” è un nome dall’origine controversa.
Davvero curioso: non si conosce l’origine del vocabolo piramide. Si è detto che il termine è associato in età ellenistica, al greco πũρ (pyr), ossia “fuoco”. Il termine pyr si considera indicare la forma della piramide giacché l’edificio in discorso è idealmente accostabile alla sagoma di una fiamma, larga alla base e terminante a punta. In quest’accezione la semantica del termine è quindi senza dubbio in continuità con l’autorevole e condizionante definizione platonica riportata più sopra. Non basta. Per l’archeologia gastronomica il termine piramide troverebbe una corrispondenza in un tipo di dolce della cucina greca antica. Si tratta di una torta di grano dalla forma piramidale ricoperta di miele chiamata allo stesso modo dei monumenti egizi, ossia πυραμίς, pyramis appunto.
Si crede pertanto che le piramidi dell’Egitto Antico siano state denominate così proprio perché simili anche a questa forma di dolce. Ora, per quanto autorevole possa essere stato Platone, per quanto suggestivo e appetitoso possa sembrare il dolce pyramis, per quanto gli studiosi si siano sforzati di trovare una derivazione storica più o meno accettabile per il sostantivo piramide, mi sento almeno in dovere di mettere in evidenza alcuni dettagli ben noti, ma ad oggi del tutto trascurati, che potrebbero invece dirimere la tutt’altro che insipida questione.
In effetti, è curioso se non proprio semplicistico attribuire alla pur importante cultura greca, certamente testimone, erede e custode delle robuste conoscenze sapienziali fiorite sulle sponde del Nilo, certe derivazioni etimologiche caratterizzanti esclusivamente la primigenia cultura elaborata ab origine dai raffinati pensatori di “Km.t”, Kemet, ossia la Terra Nera. In questo senso, si ritiene di poter affermare con un certo margine di sicurezza, più oltre si capiranno ovviamente le motivazioni, che il termine analizzato in questo caso specifico, ossia piramide, potrebbe essere a tutti gli effetti, una rigorosa definizione sostanziale, meditata, didascalica, di funzione, propria ed esclusiva dell’Egitto Antico, piuttosto che poter essere considerata approssimativamente come una denominazione quasi insignificante, tramandata da altre culture del tutto estranee al peculiare habitus mentale maturato sulle sponde del Nilo.
Il precedente clamoroso: il “Libro dei Morti”
Un chiaro esempio su tutti per cosa intendo, è la denominazione data dagli studiosi moderni, si badi bene, esclusivamente “per convenzione”, a quel corpus di formule rituali magico – religiose confezionate dagli acuti savants faraonici per consentire al trapassato di superare ostacoli e pericoli di ogni genere nel travagliato percorso che questi doveva affrontare nella Dw3t, Duat, ossia nell’Aldilà, per riuscire a “rinascere”. Si tratta del ben noto “(ru nu) Peret em heru”, ossia il cosiddetto “Libro dei Morti”. Gli Egizi Antichi avrebbero avuto certamente più di qualcosa da obiettare in merito a questa lugubre titolazione. Vediamo perché. Per soddisfare la loro vivace curiosità intellettuale, i penetranti e lucidi pensatori egizi nel corso dei secoli cercarono in primo luogo di stabilire l’autore originario di tali formule.
Giunsero alla conclusione, che si trattasse di un dio, tuttavia mai chiamato per nome, ritenuto originario però di Ermopoli, in egiziano Khemenu. Con tutta probabilità il dio in questione era Thot, dio lunare della scrittura e della conoscenza nativo appunto di Ermopoli, anche se tale paternità è indicata solo saltuariamente nel “Libro dei morti”. L’esistenza del cosiddetto “Libro dei morti” era già nota nella nostra Età di Mezzo. Venendo spesso ritrovato all’interno di tombe, fu giudicato fin da subito un testo religioso di un certo rilievo e così paragonato impropriamente alla Bibbia e al Corano. Sono svariate le formule liturgiche magico – religiose espresse dalla cultura religiosa egizia e riversate in questi testi, al momento ne sono note 192, benché nessuno dei manoscritti scoperti fino ad ora le contenga tutte contemporaneamente. Questo repertorio di formule illustrate erano calibrate in base alle specifiche esigenze e richieste del defunto, al contempo artefice committente e proprietario del “libro”. In altri termini ogni “libro”, in realtà un rotolo di papiro che va da poco meno di un metro per arrivare a quello più lungo ad oggi noto che tocca i 40 metri, è un costoso esemplare unico. Pertanto i vari “libri” al momento noti, vere e proprie opere d’arte, sono composti da testi eterogenei in diverse combinazioni completati da preziose illustrazioni esemplificative. Numerosi componimenti, tecnicamente sottotesti, iniziano con il termine “ru”, parola che possiede diversi significati: da bocca a discorso, da capitolo a formula per arrivare a incantesimo. Gli studiosi per definire questa raccolta di scritti hanno quindi optato per il termine “formula” piuttosto che discorso o altro. Questo è già indicativo di una certa discrezionalità generalizzante puramente convenzionale. Non basta. Si deve notare che “Kitab el – Mayytun”, letteralmente il “Libro del Morto”, fu la designazione araba impiegata dai violatori delle necropoli faraoniche per qualsiasi rotolo di papiro rinvenuto nelle numerose tombe depredate.
È poi nell’anno 1824 che Karl Richard Lepsius, uno dei padri dell’Egittologia, pubblicò la traduzione di un manoscritto d’epoca tolemaica, periodo che va dal IV al I secolo a.C. circa, ora conservato al Museo Egizio di Torino, noto come “Libro dei Morti di Iuefankh”. Fu proprio per questa traduzione, che l’autorevole studioso coniò sdoganandolo definitivamente, il titolo di “Libro dei morti” prendendo spunto quasi certamente dall’infelice definizione araba detta più sopra. Tale cupa titolatura è così rimasta tenacemente invariata ad indicare il corpus di questi componimenti magico – rituali. Ora, può sembrare un eccesso di acribia, ma si deve rendere assolutamente evidente un dato di fatto. La denominazione “Libro dei Morti” sarà anche una facile convenzione, ma è soprattutto un’infelice titolatura completamente sbagliata e assolutamente fuorviante.
È un accordo stipulato fra studiosi, per quanto autorevoli, ma evidentemente non Egizi Antichi. Può sembrare solo una frase stravagante, ma così non è. In realtà, infatti, la mentalità del popolo di Kemet, è ben distante da qualsiasi concezione di morte e da tutto ciò che a questa è associabile, come altre civiltà successive erroneamente hanno inteso e attribuito alla luminosa civiltà faraonica. Prova ne sia l’incessante, quasi spasmodica ricerca da parte dei brillanti teologi egizi di calibrare una potente escatologia di rinascita e di mantenere per quanto possibile una parvenza di vita viva, scusate il gioco di parole, anche, se non soprattutto, proprio nei luoghi preposti all’inumazione degli scomparsi. In effetti, si ribadisce, gli Egizi Antichi non consideravano la morte un annichilimento definitivo dell’uomo. A ben vedere, anzi, in Kemet si arrivò quasi a negarla la morte tout court, ritenendo piuttosto che ci fosse una continuazione della vita nell’oltretomba, topos fisico questo, quasi tangibile, concepito come un vero e proprio ambiente ipogeo tettonico, con relativo labirinto di cavità carsiche immaginate e descritte ad andamento orizzontale e verticale, governato dall’immortalità.
Le numerose tombe note, con le loro elaborate decorazioni che includono oltre a scene della vita vissuta dal proprietario anche composizioni con le formule magico –religiose del predetto libro, diventano in questo senso dispositivi veri e propri. Questi monumenti funebri sono congegni che consentono al defunto, oltre che di mantenere una sorta di continuità d’esistenza con il mondo che ha abbandonato, anche la possibilità di giungere all’agognata rinascita poiché:“…La casa della morte serve alla vita …”. Ora, la raccolta delle espressioni rituali del “(ru nu) Peret em heru”, in effetti indica l’insieme delle liturgie magico – cultuali finalizzate alla “rinascita” del trapassato piuttosto che non riferimenti alla sua morte, ridotti all’essenziale. Di conseguenza, il titolo autentico che si “deve” utilizzare in via esclusiva per individuare questo repertorio formulare, come da diverso tempo auspico, è “Libro per uscire alla luce” e non certo, assolutamente, “Libro dei morti”. Sono due titolature proprio agli antipodi. I titoli, infatti, indicano concezioni addirittura opposte per il contenuto che è invece fedele specchio delle originarie concezioni religiose, liturgiche ed escatologiche tramandate dai teologi compilanti con questo compendio di espressioni procedurali religiose. È evidente a questo punto che per qualche strano motivo non si sono capite né la funzione sottesa al contenuto e men che meno il suo portato, visto che questo peculiare catalogo di formule è travisato già dall’accettazione della sua impropria titolatura.
Ciò significa essere proprio lontani dall’autenticità delle concezioni che improntano e informano il testo stesso. Significa stravolgere totalmente le finalità concepite per questa sorta di manuale d’istruzioni prescrittivo e di conseguenza significa far diventare il tutto incomprensibile e misterioso. Questo indubbiamente ha fornito la sponda ad ogni tipo di speculazione. Scrive Boris De Rachewiltz nell’introduzione al suo “Il libro dei morti degli antichi egiziani”: “… Il vero titolo della raccolta è Libro per uscire al giorno, riferendosi alla possibilità, da parte dello spirito del defunto, mediante il retto impiego di tali formule, di uscire durante il giorno dal sepolcro. Naville interpreta invece “uscire dal giorno” intendendo per “giorno” la vita dell’uomo e conseguentemente attribuendo al testo il valore di formulario per agevolare il passaggio dalla vita alla morte e l’insediamento dell’entità spirituale del defunto del nuovo stato.
Tale è anche l’opinione del Marucchi che interpreta il titolo come Libro per uscire dalla vita. Esotericamente “uscire al giorno”, come evidenziato da J. Evola, significa penetrare nella luce immortale…”. Orbene, senza nulla togliere alle diverse interpretazioni riportate da De Rachewiltz nel suo testo, si deve dare risalto al fatto di non secondaria importanza costituito dal riconosciuto modus pensandi orientato alla pragmaticità, radicato profondamente nella civiltà dei Faraoni. Gli Egizi Antichi in sostanza scrivevano ciò che vedevano e ciò che vedevano lo descrivevano in modo preciso secondo cognizioni, concetti e termini per loro usuali, ordinari e comprensibili. S’inventavano poco o nulla gli Egizi Antichi.
Essendo lucidi pensatori e soprattutto osservatori formidabili elaboravano le numerose informazioni ricavate osservando attentamente lo stimolante ambiente che li circondava distillando poi il tutto in forme di pensiero originali e decisamente evolute rispetto ai loro tempi, tanto avanzate da sorprendere a volte anche noi “moderni”. In questa prospettiva al fine d’intendere almeno in una misura accettabile il significato predisposto dai teologi faraonici per il titolo del testo in discorso, per restituire un titolo più autentico, ossia rimanendo il più aderente possibile alla mentalità fiorita sulle sponde del Nilo, è bene qui utilizzare il tanto amato “rasoio occamico”, prassi che suggerisce tra soluzioni ugualmente valide di un problema, di scegliere quella più semplice.
Da osservatori scrupolosi e attenti quali erano, ai perspicaci savants nilotici non era certamente sfuggita la ciclicità, a volte più o meno regolare (si pensi alle piene del Nilo, alla fioritura di alberi e fiori, alla maturazione e raccolta delle messi…) a volte occasionale ma sempre portatrice di fenomeni simili tra loro (si pensi ai temporali, ai terremoti, al vento del deserto khamsīn, alle eclissi di Luna o di Sole et cetera) dei poderosi eventi che osservavano nel ricco e multiforme ambiente che li circondava. Non era loro sfuggito certamente il meraviglioso, divino momento della nascita degli esseri viventi, dagli animali all’uomo è ovvio. Associare la nascita al “venire alla luce” il passo è veramente molto breve. Su questo non si discute. Credo. Del resto ancora oggi le potenti espressioni “dare alla luce” o “venire alla luce” sono state mantenute inalterate, abbinandole a diverse situazioni. Per i pensatori di Kemet, che vedevano in ogni momento materializzarsi davanti ai loro occhi il fluido concetto di ciclicità insito nella Natura, concludere che il trapassato, anche lui come tutto il resto in Natura, era destinato in qualche misura a rinascere, a tornare alla luce dopo il percorso intrapreso per superare la terrificante oscurità della Duat, “…l’orrore (del re defunto) è l’oscurità...”, deve essere stato estremamente logico e semplice. Così tutto funzionava. Così tutto rispettava rigorosamente Maat.
Così tutto era in accordo con la cosmicità che i sapienti pensatori nilotici vedevano prendere forma nel loro mondo. Il colpo di genio è stato quello di redigere un manuale d’istruzioni da tramandare per riuscire a rinascere: del resto è il minimo che si può pensare per facilitare l’evento. In questo fervido milieu spirituale Osiride diviene l’esempio primigenio, tanto da essere definito il “Primo degli Occidentali”, ossia il primo di “quelli che sono rinati”. Anche Osiride, però, ha subito la triste ed infelice sorte del “Libro per uscire alla Luce”, diventando così il funereo “Dio dei morti”. Osiride non è assolutamente questo. Osiride è ben altro. Osiride è vestito di blu seduto su uno scranno anch’esso blu perché è il “Signore dell’Acqua” della rinascita. Osiride è verde poiché è la forza vegetativa della Natura che rinasce.
Osiride è, o meglio, così si dovrebbe definire per autenticità e coerenza di pensiero, il “Dio dei Rinascenti”. Non esistono i “morti” nell’Egitto Antico, esistono soltanto coloro che possono rinascere, ossia i “rinascenti”. Cambia decisamente, quasi s’inverte la percezione dell’orizzonte cultuale, religioso, escatologico, addirittura l’atteggiamento verso la vita proposto e mantenuto fino ad oggi per il mondo faraonico. Quello che filtra è un habitus permeato da un sottile ma robusto ottimismo filosofico. Sì perché per l’escatologia dell’Egitto Antico, in maniera estremamente coerente con quanto è ad oggi ben noto, coloro che dimorano nell’Aldilà non sono “morti”.
Nel “bell’Occidente”, che senso avrebbe chiamarlo così altrimenti, sono presenti esclusivamente, solo e soltanto coloro che sono destinati alla rinascita, ossia i “rinascenti” coloro che superano la “Psicostasia” o pesatura dell’Anima. Tutti i documenti ritrovati, tutte le rappresentazioni iconografiche, tutte le liturgie, tutto il repertorio magico – religioso comprendendo anche se non soprattutto tutte le emergenze architettoniche note, templi, sepolcri, piramidi e quant’altro, indicano univocamente questo: la “rinascita”, o meglio “l’uscita alla Luce”. È evidente che sarebbe auspicabile il cambiamento di un paradigma intensamente sbagliato, che non restituisce la giusta dimensione ad un pensiero tanto lineare quanto sofisticato e “luminoso” come quello forgiato dai profondi teologi egizi già agli albori della meravigliosa civiltà dei Faraoni.
Osiride, chi è costui
Perché parlare del “(ru nu) Peret em heru” del “Libro per uscire alla luce” se il termine è piramide? Cosa c’entra Osiride con il nome “piramide”? Può sembrare una boutade, ma evidentemente non è così: “Libro per uscire alla luce”, Osiride e Piramide, sono la stessa cosa. Vediamo perché e in quali termini. I “Testi delle Piramidi” antesignani del “Libro per uscire alla Luce”, sono scritti denominati così poiché rinvenuti incisi sulle pareti all’interno di alcune piramidi.
I Testi delle piramidi compaiono per la prima volta nel monumento funebre di Unis, ultimo sovrano della V Dinastia. Il contenuto scritturale della piramide di Unis è una rassegna di 228 formule che insieme ad altri esempi riconoscibili, risultano essere la versione più antica di questa tipologia di composizioni magico – rituali, risalendo grosso modo intorno al 2400 a.C. – 2300 a.C. A differenza dei successivi “Testi dei Sarcofagi” e del più tardo “Libro per uscire alla Luce”, i Testi delle piramidi erano composizioni rituali riservate ai soli Faraoni, con delle eccezioni come per le tombe di alcune regine di Saqqara. I testi in discorso non prevedevano illustrazioni. Dopo la “Pietra di Palermo”, frammento di una stele su cui sono incisi annali regali, che li precede cronologicamente, i Testi delle piramidi contengono la più antica menzione di Osiride. Inizialmente il corpus dei Testi delle piramidi ritrovati era costituito da 714 formule distinte. Successivamente ne furono scoperte altre, portando il loro numero a 759. Esattamente come per il Libro per uscire alla Luce, non sembrerebbero esistere esempi di compilazione dei Testi in antiche sepolture, contenenti insieme tutte le formule oggi conosciute.
Le espressioni liturgiche riportate in queste incisioni parietali avevano l’importante scopo, oltre che di garantire la protezione delle spoglie del Faraone, di rivitalizzare nuovamente lo spirito latente nella sua mummia così da consentirne l’ascesa tra gli dei e realizzare l’agognata riunificazione con il dio Sole Ra e così essere accolti nel ciclo perenne di rinascita quotidiana dell’astro. Questi Testi, dunque, descrivendo in qual modo il trapassato regale può rinascere e raggiungere gli dei, ora servendosi di rampe, poi di gradini, ora di scalinate ed anche volando, sono in sostanza, un esclusivo manuale d’istruzioni riservato alla rinascita del Faraone. Non è certamente casuale che questo ricco formulario magico – religioso sia stato graffito in una piramide. È idea comune ritenere in una prospettiva teologica le piramidi essere costruzioni sepolcrali che consentirebbero la rinascita del Faraone. Quasi che le Piramidi, mi si consenta l’accostamento moderno, siano per dir così l’hardware, e i diversi componimenti rituali un vero e proprio software per attivare e gestire il sofisticato e complesso meccanismo della “rinascita”.
Non si è molto distanti dalla realtà. Si tratta di una diversa pratica devozionale quella che assegna al Faraone un destino differente rispetto alla sorte riservata ai comuni mortali. Proprio sulla diversa rappresentazione mentale di un Aldilà conferito esclusivamente al re, si origina la disputa speculativa, forse non solo astratta visti gli interessi materiali delle caste sacerdotali coinvolte, che voleva il re destinato non al mondo sotterraneo di Osiride, ma a quello solare di Ra, benché una precisa collocazione in questo esclusivo ritrovo oltremondano per Osiride, vista la sua prerogativa d’essere il dio dei Rinascenti, sia coerentemente conservata. È certamente difficile individuare il momento preciso in cui la teologia solare ebbe il sopravvento o piuttosto, la sovrapposizione sulla dottrina osiriaca, e quando l’edificio sepolcrale divenne mezzo effettivo per il raggiungimento da parte del sovrano della sua rinascita solare. Si ritiene, tuttavia, che questa situazione possa essersi materializzata verso la fine della II dinastia.
Il prevalere di un oltretomba solare per i re, destinati quindi non ad occidente come fin dalle origini della civiltà egizia era previsto per i comuni mortali, ma ad oriente, non è stata proprio serena. Alcune formule dei Testi delle Piramidi, infatti, contengono imprecazioni contro gli dèi del ciclo ctonio osiriaco al fine d’impedire loro di entrare nella piramide del Faraone, poiché dominio completamente solare. Il concetto solare della piramide, intesa sia teologicamente e sia materialmente come una scala verso il cielo, in effetti, sembrerebbe rafforzarsi e fissarsi nei testi dell’Antico Regno. Da questi si può arguire un’ulteriore spiegazione che definisce poeticamente le strutture piramidali quali “raggi di pietra solidificati filtranti dalle nubi”.
Non è certo il significato che intendevano attribuire alle piramidi gli architetti/sacerdoti/teologi del mondo nilotico quando le hanno progettate. In ogni caso, questa è la concezione che è passata. Scrisse, infatti, Alexandre Moret (1868 - 1938) egittologo francese: “Questi grandi triangoli che formano i lati delle piramidi sembrano cadere dal cielo come raggi del sole… l’impressione più profonda è quella di un edificio che sorge dal suolo facendo convergere verso un punto del cielo quattro pareti lisce che sembrano poi ricadere sulla terra in triangoli perfetti…”. È bene tener presente, tuttavia, che il concetto solare dell’aldilà del re non esclude totalmente la venerazione per Osiride, o per altre divinità di cui il re viene indicato come figlio.
Alcune formule, infatti, specificano i favori portati da altri dei e dallo stesso Osiride: “Tu non te ne vai come morto Unis, tu te ne vai come vivo, assiso sul seggio di Osiride, col tuo scettro in mano tu impartisci ordini ai vivi”. Del resto anche Ra alla fine del suo viaggio notturno per rinascere al mattino deve poter navigare nella sua barca solare sull’Acqua senza incappare nelle pericolose secche causate dal serpente Apophis. In diverse raffigurazioni, infatti, il Sole nasce proprio dalle Acque primeve. Nel capolavoro rappresentato dal sepolcro di Ramses VI, una vera e propria Cappella Sistina ante litteram, si vede il disco solare di Ra ormai rinnovato dopo il pericoloso viaggio notturno, rinascere al mattino proprio grazie alla provvidenziale, imprescindibile spinta che il Nun, ossia le Acque primordiali qui rappresentate come braccia che si levano verso l’alto, fornisce all’astro diurno.
L’Acqua, come si può evincere è quindi indispensabile anche al Sole per la sua rinascita ciclica. Forse è banale ricordarlo, tuttavia, l’Acqua per l’Egitto Antico, civiltà fluviale per eccellenza, è elemento imprescindibile per la sua nascita, sviluppo e continuità. L’Egitto, in questo senso è veramente il “dono del Nilo” come ebbe a scrivere Erodoto. Del resto è ben noto che, per la Civiltà del Nilo quando si parla di rinascita, in effetti si parla sostanzialmente di Acqua. È l’Acqua che consente la rinascita, nient’altro. Questo non sfuggì agli Egizi Antichi. Per nascere l’uomo “rompe le Acque”.
Effettivamente si nasce nell’Acqua e dall’Acqua. Indubbiamente anche questo non sfuggì agli Egizi Antichi, è per lo meno difficile pensare il contrario. Le Acque: “… sono la materia base dell’universo e tutte le cose viventi ne dipendono… e il ritorno della stagione dell’inondazione segna l’inizio di un nuovo anno di vita… Si tratta, dunque, di << acque di vita >>, sì che l’Oceano Primordiale, noto agli Egiziani come Nun, è il << padre degli dei >>…”. Osservare che dopo la piena del fiume, Kemet, la Terra nera riprende il suo ciclo vegetativo più intensamente che mai, è semplice per gli acuti indagatori egizi. Notare che nell’Acqua esiste una forza potentissima che consente al seme piantato di germogliare rapidamente dopo l’inondazione periodica è consequenziale. Nelle Acque del Nun vive Atum, “Ua Neter”, il Dio Uno, “il Completo” che tutto crea, facendo sorgere dalle acque primeve il tumulo primordiale su cui si stabilisce. È il Tep Zepi, è il “primo momento” che, si è già detto, in un ciclo imperituro si replica tutti i giorni. I teologi faraonici cercarono di scoprire qual era questa forza immensa che è evidentemente insita nell’Acqua. Arrivarono ad una conclusione coerente con tutto il complesso apparato che permea il sentimento religioso peculiare della terra dei Faraoni.
Si può leggere nei Testi delle Piramidi che: “…Riempiti sono i canali, straripati sono i fiumi, con la purificazione uscita da Osiri…”. La “purificazione uscita da Osiri” è evidentemente l’acqua dell’inondazione. Così, infatti, viene inteso questo testo che secondo il Donadoni connette l’inondazione a Osiride. Del resto: “Quando l’anima giunge al luogo che essa conosce non devia dalla sua via di ieri, non la respinge nessuna magia quando essa giunge a Coloro che danno l’acqua…”. Coloro che danno l’acqua da bere all’anima per consentire la sua rinascita, sono le divinità del bell’Occidente. Osiride è uno di questi, anzi, come già detto più sopra è il “Primo degli Occidentali”: “… Gli altri grandi dei sono trascendenti… Osiride, invece, è immanente… è tutta la forza di rinascita e di fertilità di questo mondo. È il potere di germinazione nelle piante e della riproduzione negli animali e nel genere umano. È morto, e insieme fonte di vita. Divenire un Osiride, perciò, è divenire una cosa sola con i cicli cosmici della morte e della resurrezione…”. In un “Testo dei sarcofagi” Osiride: “appare ovunque ci sia un traboccare [d’acqua]…”. Fino ad ora lo studio condotto sembra riguardare tutt’altro piuttosto che la tematica oggetto della discussione, ossia la derivazione del nome “piramide”. Esatto, sembra. Così non è.
L’origine di un nome… forse
Si può leggere su un rotolo in cuoio ora al Museo di Berlino: “…Farò un lavoro, cioè un grande tempio per mio padre Atum…farò i suoi altari sulla terra… La mia perfezione sarà così ricordata nel suo tempio: il mio nome è la piramide, il mio monumento è il lago: è l’eternità la cosa che procurano queste opere eccellenti…”. Si può evincere da quanto scritto da Sesostri I, faraone appartenente alla XII Dinastia, sempre usando il setaccio implacabile del rasoio occamico, che a quanto pare per la mentalità degli Egizi Antichi la piramide è un tempio, non un cenotafio e men che meno una tomba, ed ha a che fare con un lago, ossia con l’Acqua, di conseguenza con Osiride e quindi con la rinascita, in una stringente progressione logica, quasi un assioma, come si è specificato più sopra.
Alcune indicazioni precise si direbbero qui già emergere in filigrana, tuttavia, se ci s’inoltra più a fondo nella selva oscura dei documenti conosciuti, ci s’imbatte in uno scritto appartenente proprio ai “Testi delle Piramidi” disponibili e che sembrerebbe dirimere almeno una parte della questione legata alla piramide. L’egittologo Robert Thomas Rundle Clark, docente di filologia all’Università di Birmingham scrive: “… I teologi dell’Antico Regno fecero grandiose rivendicazioni a favore di Osiride. Nel paragrafo 600 dei Testi delle Piramidi egli è paragonato all’intero complesso delle piramidi… Osiride è questa piramide, Osiride è questi edifici… non stare lontano da lui nel suo nome di <>…”. Non occorre interpretare credo.
Dal momento che ora si hanno tutti i coefficienti necessari e sufficienti per formulare una prima equazione, si può entrare nel vivo della questione. Vediamo dunque: Osiride, come si è visto, è la forza vitale insita nell’Acqua dell’inondazione ma Osiride è anche identificabile con l’edificio templare della Piramide. Dunque non è fuor di logica poter dire che la Piramide è Osiride ed in quanto tale è Acqua. Non è un paralogismo, anzi. Coincide esattamente con quanto affiora dai testi pervenuti, è tutto conforme alla teologia e all’escatologia prodotta nella terra di Kemet. Si deve sottolineare per contro, che quanto è stato affermato fin qui dagli studiosi, appunto dagli studiosi e non dagli Egizi, sul possibile ruolo giocato dalle piramidi, potrebbe divergere non poco dall’orizzonte cultuale espresso ab origine dai teologi nilotici. In effetti, gli Egizi Antichi, un nome per l’edificio che da sempre si conosce come Piramide l’avevano, e curiosamente ha poco o nulla a che vedere con il termine greco, si ribadisce “greco” passato alla Storia.
Si tratta della parola “mr” che si vocalizza per convenzione in “mer”. Qualsiasi buona grammatica o dizionario di lingua egizia antica lo può confermare. Ora però vien da chiedersi quale senso potrebbe avere il termine greco “piramide” se gli Egizi Antichi utilizzavano un altro sostantivo per denominare il medesimo importante edificio? O meglio cosa può voler realmente significare il termine piramide se è vero che per gli Egizi l’emergenza architettonica in questione era chiamata “mr”? Una risposta potrebbe trovarsi in una considerazione: e se il termine “piramide” innanzi tutto non fosse greco, bensì effettivamente fosse una parola “originale” egizia ancorché composita, una crasi, ossia qualcosa come “pira + mide”? La questione sembrerebbe complicarsi, o imboccare un’altra strada. Proviamo a ragionare.
Per gli Egizi Antichi, gente pragmatica, avrebbe avuto un senso rimpiazzare il sostantivo che identifica uno dei loro edifici più importanti, ossia “mr”, con un termine ridondante come sembra essere piramide solo se questo nome sottintendesse qualcosa di più importante o indicasse una funzione diversa e specifica rispetto ad un normale edificio templare a forma di piramide destinato al culto. Poche le indicazioni in merito salvo che, per una strana quanto indiscutibile assonanza, il sostantivo “faraone”, secondo gli studiosi un’altra corruzione greca di un termine egizio, in questo caso Per – aā, il cui significato dovrebbe essere “Grande Casa”, sembrerebbe proprio richiamare la prima parte del lemma greco pyramis, ossia “pyra”.
Tecnicamente “grande casa” si scrive “pr – aā”. Per convenzione si vocalizza con la “e”. Essendo una convenzione e pertanto non di autentica derivazione egizia, la vocalizzazione di “pr – aā” può tranquillamente essere fatta con la “i”. La parola in questo modo suona “pir – aā”. Il significato non cambia restando sempre “grande casa”. Stimando la parola “pira + mide” essere il risultato dell’unione di due sostantivi, proviamo anche noi ad unire “pir – aā” con il precedente “mer”, ma anch’esso vocalizzato con la “i”. Si otterrà un curioso “pir – aā mir”. Già “pir – aā mir”. L’assonanza tra “pir – aā mir” ed il moderno “pira + mide” di derivazione greca è innegabile e indiscutibilmente interessante.
Si percepisce d’essere sulla buona strada. C’è però ancora una questione non da poco da risolvere: ha un senso “Grande casa a piramide” per gli Egizi Antichi, quando già il termine “mr” indica precisamente proprio quell’edificio specifico? In effetti, si può pensare ad un rafforzativo pur percependosi la locuzione pleonastica. Qualche cosa s’intuisce non girare rotondo. Secondo gli studi che ho condotto e in base alle indicazioni documentali raccolte e che qui ho parzialmente esposto, infatti, le tre piramidi e le probabili due Sfingi esistenti sull’altipiano di El – Giza, si possono valutare essere gli speciali ingredienti di un unico quanto straordinario complesso monumentale dedicatorio all’Acqua. In questa prospettiva la piramide è a tutti gli effetti, un’architettura commemorativa per il ritorno alla vita, di conseguenza è una struttura celebrativa per l’imprescindibile figura del Dio dei Rinascenti incarnata da Osiride.
Le piramidi, ed è cosa risaputa, sono edifici finalizzati alla rinascita poiché, e questa è la parte fino ad oggi meno nota o soltanto meno rilevata, le piramidi come è lucidamente documentato dai testi hanno senza dubbio a che fare non tanto con il Sole, bensì sostanzialmente con l’Acqua. Qui sembra nascere un problema. A ben vedere, infatti, il termine che si è ricostruito “pir – aā mir”, sembra avere sì foneticamente assonanza certa con il sostantivo alterato e grecizzato di “piramide”, ma non si direbbe andare oltre, nel senso che il significato sotteso a “pir – aā mir”, così com’è, non si direbbe riferirsi all’Acqua. Eppure. Ecco la sorpresa. Continuando a cercare tra i vari termini egizi conosciuti s’incontra nuovamente, è curioso, “mr”. Già, ancora proprio “mr”. Questa volta però dalla ricerca emerge che il significato del termine è ben diversa. Questa volta “mr” ha significato di lago (già, proprio quel lago che si è incontrato prima: “… il mio nome è la piramide, il mio monumento è il lago…”), piscina, cisterna, bacino, canale pieno d’acqua, inondazione.
Il “mr” in questione parla indiscutibilmente di Acqua. La cosa ancor più sintomatica di una certa quale autenticità del tutto, è che “mr” in questo caso si riferisce ad un’Acqua artificialmente governata, incanalata, costretta in una struttura non naturale. Il nostro “pir – aā mir” si direbbe proprio assumere così una coloritura estremamente coerente con l’orizzonte cultuale elaborato dai precisi teologi egizi. Il nome composito “pir – aā mir” in quest’accezione, pertanto, si può tradurre francamente con l’evocativo significato di “Grande casa dell’Acqua”, o meglio ancora, il che come si è visto è la stessa cosa, con “Grande Casa della Rinascita”. Già, Grande Casa della Rinascita. Almeno sorprendente.
È poi curiosa, in questo senso, anche la potente assonanza fonetica, non certo fortuita credo, con il già visto “Per em heru”, il “Libro per uscire alla Luce”, se più autenticamente vocalizzato in “Pir am hiru”. Tutto è coerente anche in questo caso. Tutto è cogente e consequenziale. I significati delle due locuzioni “pir – aā mir” e “Pir am hiru” si riflettono incessantemente uno nell’altro: “Grande Casa della Rinascita” “Libro per uscire alla Luce”, “Libro per uscire alla Luce” “Grande Casa della Rinascita”. È strano, ma in questo caso senza i consueti oscuri, incomprensibili e misteriosi giri di parole cui la terra dei Faraoni ci ha abituati, le due espressioni configurano e trasmettono esattamente l’identica rappresentazione mentale in maniera estremamente lucida e chiara. Sorprendenti assonanze arcaiche. Corrispondenze arcane dimenticate. Nulla però si avverte essere forzato, casuale o stridente.
Riversando il concetto antico di “pir – aā mir” appena ricostruito nel termine moderno “piramide”, si genera una visione completamente diversa ancorché intimamente coerente con tutta la potente teologia elaborata dai profondi pensatori nilotici tanto per la funzione quanto per la simbologia custodite in uno degli edifici più iconici tramandati dalla Storia Antica. Il suo nuovo evocativo significato di “Grande Casa della Rinascita” trasforma il sostantivo greco “pira + mide” in un espressivo, logico e più autentico ingrediente di una ancor più sorprendente ricetta unica ed originale.
La piramide, di per sé struttura già da tempo celebrata, in questa nuova accezione assume le ricche sfumature di una preziosa memoria, di una gemma finemente cesellata dalle raffinate menti che hanno plasmato l’Egitto Antico, ma che fino ad oggi non è ancora stata rischiarata con la dovuta intensità luminosa che le compete. Con questo breve e certo non esaustivo studio si spera, almeno in parte, d’aver contribuito a porre un rimedio seppur esiguo alla questione. La ricerca in ogni caso prosegue...