Il pianeta Terra ha una storia infinitamente più lunga di quella della vita, quale la conosciamo. Se poi guardiamo a quella particolare forma di vita che è rappresentata dalla specie umana, questa appare ancor più breve. E ogni tanto rimettere le cose in prospettiva aiuta non poco. Sul pianeta, si sono succedute innumerevoli forme di vita, dalle più semplici alle più complesse, e la loro sopravvivenza - o la loro scomparsa - è dovuta ad innumerevoli fattori; tra tutte queste, la specie umana può senz’altro definirsi la più fortunata. La singolarissima, e lunghissima, storia evolutiva che ha prodotto l’homo sapiens, infatti, altro non è che una straordinaria concatenazione di ‘mutamenti evolutivi’ fortuiti, il cui esito finale è una specie - l’unica - capace tra l’altro di osservare e studiare se stessa, le altre forme di vita, il pianeta che la ospita.
Questa unicità ci spinge talvolta a sopravvalutare, nel bene e nel male, il nostro ruolo nell’ecosistema, attribuendoci responsabilità e capacità che trascendono la loro effettiva portata. Ovviamente, come per ogni altra specie vivente, anche la nostra presenza ha un impatto sul pianeta, e questo impatto altro non è che una interazione. Il punto è semmai comprendere se e quanto questa interazione altera un equilibrio più ampio, e se questa alterazione può effettivamente essere pericolosa. La specie umana abita la Terra da moltissimo tempo, durante il quale - ad esempio - altre specie viventi sono state cancellate, come conseguenza dell’azione antropica diretta. Oggi una parte non secondaria degli umani ha maturato una coscienza ‘conservativa’, è ritiene giusto e necessario proteggere quelle più a rischio di estinzione. Purtuttavia, sappiamo bene che la storia della vita sul pianeta ha visto innumerevoli specie viventi apparire e poi scomparire, anche prima che ad apparire fosse quella umana. E questo ha senz’altro prodotto dei mutamenti negli equilibri ecosistemici.
La scomparsa dei grandi sauri, ad esempio, ha tra le altre cose permesso un maggiore sviluppo dei mammiferi, cosa che a sua volta ha portato all’evoluzione di una particolare ‘famiglia’ che, ad un certo punto di tale processo evolutivo, si è concretizzata nella specie umana. Tutto ciò è avvenuto ovviamente lungo un corso del tempo estremamente lungo, ed attraverso la creazione spontanea di nuovi equilibri ecosistemici. Inoltre, il pianeta ha subito mutamenti globali, in virtù di quello che potremmo definire equilibrio planetario; in particolare, il pianeta Terra ha registrato innumerevoli mutazioni della temperatura, anche estreme, con tutto ciò che ne consegue. Ciò chiaramente non toglie che l’impatto antropico sul pianeta sia un fattore che induce mutamenti. Quanto questi siano significativi è la questione vera.
Se guardiamo alla ‘storia’ delle scienze ambientali, ad esempio, vedremo che in passato sono stati spesso lanciati allarmi... allarmistici. È stato detto più volte “se non faremo questo, entro l’anno XXXX accadrà questo!”, e quasi sempre tali previsioni catastrofistiche si sono poi rivelate infondate. È ragionevole presumere che una parte di quanti lanciavano (e lanciano) questi allarmi fossero in perfetta buona fede convinti che effettivamente il disastro fosse imminente; qualcun’altro era magari consapevole di esagerare, ma lo ritenevano necessario per scuotere le coscienze. Ma il risultato più significativo (anche a prescindere dall’effetto “al lupo, al lupo!”) è che su questi temi si è via via generata una ideologizzazione, un approccio assolutistico, il cui primo risultato è la ‘fideizzazione’ della scienza. Scienza che, per definizione e per esperienza storica, è dubbio e ricerca continua, è scoperta. È dibattito. Assistiamo invece oggi ad una progressiva eliminazione del confronto scientifico; c’è una scienza ‘politicamente corretta’ ed un’altra a cui, in quanto in disaccordo con questa, è persino negata la dignità scientifica.
Non per caso, per bollare chi dissente con le peggiori stigmate, viene utilizzato il termine ‘negazionista’, originariamente adoperato per indicare quanti negavano la verità storica della Shoah. Ovviamente, rendendo impossibile il confronto, e criminalizzando il dissenso, ne consegue che l’informazione assume la veste della propaganda, e la percezione delle opinioni pubbliche risulta distorta. Ed è altrettanto ovvio che a tutto ciò non sono affatto estranei colossali interessi economici e politici. Basti vedere non solo la compattezza ed il furore con cui le élite politiche ed i media (occidentali) se ne fanno sostenitori, ma anche da dove promanano le ‘direttive strategiche’. Il World Economic Forum è precisamente il think tank in cui vengono elaborate.
D'altronde, ci vuole davvero un’ingenuità colossale per credere che un’oscura ragazzina sedicenne sia stata trasformata - a velocità stratosferica - in una icona mondiale, e lanciata in un proscenio mediatico globale, per la bontà e la ‘forza’ delle sue idee, e non piuttosto perché funzionale ad un disegno di ben più ampia portata, e di cui ovviamente lei rimane totalmente inconsapevole. Naturalmente la questione non è se vi sia o meno un ‘climate change’, da cosa sia eventualmente prodotto, e quanto sia effettivamente problematico. La questione è che questa è divenuta la bandiera impugnata da una parte delle élite politico-economiche occidentali (oggi predominanti), e che serve come strumento - motivazionale, ma anche coercitivo - per portare a compimento una trasformazione dell’ecosistema sociale (non di quello ambientale), funzionale ad una ristrutturazione degli equilibri ritenuta necessaria. Non per salvare il pianeta, né per salvare noi, ma per salvaguardare e rafforzare le posizioni dominanti.
Sarebbe invece necessario - e per certi versi urgente - sovvertire questo schema, riaprendo non solo il dibattito scientifico e politico, ma soprattutto spezzando l’ordine gerarchico con cui viene gestito, e che vede una casta di ‘sacerdoti-scienziati’ assumere la posizione di chi possiede la verità, e pertanto anche il diritto di decidere per la vita di tutti. Casta che, ovviamente, agisce poi nell’interesse di chi detiene i poteri effettivi. E tanto per cominciare, piuttosto che inseguire deliri ansiosi sulla quantità di Co2, magari provare ad aprire un serio ragionamento sul più importante impatto antropocentrico, quello derivante dalla crescita esponenziale della specie umana, con tutte le sue conseguenze (consumo di cibo, di acqua potabile, di risorse energetiche, di suolo...). Una questione - questa sì - gigantesca, a cui non è per niente facile trovare soluzione, Ma che, proprio per questo, necessita di essere affrontata in modo quanto più ampio possibile. Non è accettabile l’idea che a decidere della vita di otto miliardi di persone siano poche migliaia.