La genialità precoce di un bambino può influenzare il suo futuro? È una domanda molto difficile. A ogni modo cerchiamo di capire quali siano le variabili più attendibili che potrebbero stabilire e fino a quanto potrebbero determinare questa possibilità.
La genialità precoce è una condizione naturale probabilmente indispensabile per affermarsi nel futuro in un settore specifico e a un buon livello; per esempio nella ginnastica artistica femminile italiana abbiamo avuto campionesse molto precoci e geniali, come Vanessa Ferrari e Sofia Raffaeli, solo per fare due nomi, ma ci sono esempi anche nella matematica, nella musica, nel gioco degli scacchi, nelle scienze e nella letteratura, anche se è vero che molti scrittori e scienziati, sia del passato sia del presente, da piccoli erano bambini normali privi di doti particolari o almeno così sembrava.
Non hanno cioè mai dimostrato di essere geniali in quei campi in cui da adulti avrebbero assunto dei ruoli importanti: di avere una grande capacità organizzativa tanto da diventare rispettabili e onesti capi d’azienda oppure un’intelligenza manageriale tanto da diventare direttori generali di grandi multinazionali o doti scientifiche particolari tanto da diventare bravi professori universitari, come lo fu Carlo Rubbia, o ricercatori di fama internazionale, quando non addirittura dei premi Nobel, come Francis Crick, lo stesso Carlo Rubbia, Rita Levi Montalcini, Eric Kandel e tanti altri; di avere una buona dialettica per diventare bravi politici o oratori di rilievo, anche se gli oratori, oggi, non esistono più; di avere doti musicali tanto da diventare famosi pianisti, violinisti o direttori d’orchestra. In questi ultimi casi, probabilmente, le loro doti da bambini erano nascoste, non si erano ancora rivelate, ma, a un tratto, soprattutto nella fase giovanile, sono esplose.
Per esempio, chi avrebbe mai potuto credere che il figlio di un semplice carabiniere sarebbe potuto diventare uno dei tenori più importanti al mondo come Giuseppe Di Stefano? Chi avrebbe mai potuto credere che il figlio di un’impiegata e di un piccolo imprenditore sarebbe potuto diventare un premio Nobel per la Fisica come Giorgio Parisi? Sono tutti esempi bellissimi in cui è bandita dall’umanità tutta quella mediocrità che spesso e purtroppo coinvolge molte delle nostre attività, soprattutto quelle pubbliche e istituzionali.
Luigi Pirandello era figlio di un commerciante di zolfo e scrisse la sua prima novella a 17 anni; Salvadore Quasimodo cominciò a scrivere poesie poco più tardi ma era figlio di un modesto ferroviere. La loro genialità non era quindi da mettere in relazione con il loro ambiente familiare o, forse, questi personaggi avevano ereditato dai loro genitori qualcosa di cui non sappiamo niente e che ignoravano persino i diretti interessati? Ciò che è certo è che, per esempio, Wolfgang Amadeus Mozart, fu un bambino prodigio e geniale e chissà se su questo dato di fatto abbia o meno inciso una discreta cultura musicale di suo padre o il suo patrimonio genetico insieme a quello della madre di Amadeus?
E, per passare a tempi più vicini a noi, chissà se sul prodigio di un bambino di 4 anni, Alberto Cartuccia Cingolani, nato in un piccolo paese dell’entroterra marchigiano, Caldarola, che a quella età già suonava il pianoforte magnificamente, abbia inciso l’amore per la musica classica dei genitori o il loro DNA o quanto l’uno e quanto l’altro? Questo non lo sapremo mai, né per Mozart, né per il piccolo Alberto, né per altri piccoli geni. È chiaro che non esiste il gene del prodigio, come quello del colore dei capelli o dell’iride, ma potrebbero aver inciso delle componenti genetiche multiple, cioè di più geni o di parte di essi, anche se non si sa e mai si saprà esattamente quali.
Di fronte a questi interrogativi, alcuni ricercatori americani, attraverso degli studi longitudinali, hanno indagato la questione cercando di mettere a confronto i risultati ottenuti da diversi adolescenti maschi e femmine in alcuni test di natura scientifica, prima che diventassero adulti e assunti in enti pubblici o privati. Coloro che avevano ottenuto dei buoni risultati e al di sopra della media ottennero poi un dottorato universitario: i maschi al 91%, mentre le femmine al 74%, quindi con una certa differenza tra i sessi ma anche nella scelta tra le diverse facoltà universitarie. I maschi si iscrissero prevalentemente a quelle scientifiche, mentre le femmine a quelle umanistiche.
Questo è comunque un trend che vale non solo per l’America ma anche per l’Europa, per l’Asia e per altri luoghi del mondo. I risultati dei test somministrati a questi ragazzi e ragazze, però, non ci dicono nulla su ciò che li ha veramente determinati. Possono essere dipesi dalla scuola che avevano frequentato da bambini, magari una scuola stimolante e creativa, dall’educazione ricevuta o da altro di questo genere, certamente non dalla posizione sociale dei loro genitori o di chi si era preso cura di loro dalla nascita. Se fosse stato così, i figli di genitori che rivestivano ruoli importanti nella società avrebbero dovuto essere da piccoli più geniali degli altri, ma come sappiamo questo capita raramente.
Succede più spesso proprio il contrario. In verità, i figli di questi genitori da adulti vanno spesso a rivestire posizioni importanti, indipendentemente dalle loro qualità, nelle strutture pubbliche e, a volte, anche in quelle private. Chi non ha mai avuto degli amici d’infanzia mediocri diventare persone importanti da adulti, direttori generali nelle grandi banche, nei ministeri, negli ospedali, nei Comuni, nelle Regioni e in altre sedi istituzionali e che per laurearsi hanno impiegato decenni?
Negli anni ’70 del secolo scorso nelle università italiane le iscrizioni ai vari corsi di studio salirono vertiginosamente, e questo ha riguardato non solo i figli degli operai, ma soprattutto i figli di genitori della classe media e medio alta che avevano capito l’importanza, per i loro figli, di possedere una laurea, poco importava che fossero capaci o meno di conseguirla in tempi decenti, per poi poterli inserire nell’amministrazione pubblica, in quanto, a questo scopo, il diploma e la licenza liceale non erano più sufficienti.
Tornando ai bambini prodigio, maschietti o femminucce che siano, come vengono psicologicamente percepiti dagli adulti, soprattutto da coloro con cui non hanno nessun legame di parentela? Il bambino e la bambina prodigio, salvo rare eccezioni, suscitano quasi sempre una sorta di timore reverenziale, o meglio, di profonda ammirazione da un lato, ma anche di apprensione dall’altro, soprattutto da parte di coloro che credono di controllare altezzosamente il “sistema” in cui siamo immersi.
Questi bambini e queste bambine, infatti, da adulti potrebbero diventare incontrollabili, mine vaganti, perché fuori dagli schemi e dalla mediocrità dominante, come ha ben illustrato un noto filosofo canadese, Alain Deneault, in un suo libro dal titolo, appunto, La mediocrazia, nel quale illustra come al mondo la mediocrazia stia prendendo il potere su tutto e tutti. Si tratta di un timore di cui non si è del tutto consapevoli, è vero, ma non per questo inesistente.
Per concludere, certamente, non tutti possono essere, per esempio, come Steven Jobs, inventore geniale e fondatore della Apple che divenne ciò che divenne semplicemente perché non ebbe mai queste preoccupazioni. Tra i suoi collaboratori selezionò e scelse sempre i migliori, anche quelli che lui riteneva essere più bravi e geniali di lui: un bell’esempio, purtroppo poco seguito da molti manager, presidenti e uomini e donne di potere del presente. Bill Gates della Microsoft, a un certo punto, assunse addirittura degli autistici perché trovò che queste persone riuscivano, in misura maggiore rispetto alla media, a elaborare contemporaneamente una quantità enorme di informazioni sociali e di riconoscerne le somiglianze e i dettagli, informazioni molto importanti per la sua azienda. Chi l’avrebbe mai fatto nel nostro Paese?