Ma qui siamo a Casablanca? Sì
Casablanca Casablanca? Sì, Casablanca, Casablanca.(Francesco Nuti, Casablanca Casablanca)
Ogni biografia è immaginaria.
(Carmelo Bene, Maurizio Costanzo Show)
La donna è sostanza, l’uomo riflessione.
(Luigi Pareyson, Kierkegaard e Pascal)
Cosa troviamo di unico nella poetica dell’artista Francesco Nuti? Cosa lo differenzia da Benigni e da Troisi? Perché ebbero così successo i suoi film in un decennio folgorante (1981-91)? Cosa avevano di differenziale? Il primo dettaglio identificante lo trovo nel suo sguardo. Uno sguardo fanciullo, quasi ingenuo, penetrante ma disarmato, contemplativo e stupìto, assorto. Quasi un punto mediano fra stoica accettazione e attesa di una novità. E’ Aion che appare nel suo sguardo? E’ il fanciullo senza tempo evocato da Hillman?
C’è veramente un carisma pinocchiesco cioè nomade e randagio nel suo volto? Certo. Non è una malinconia mediterranea alla Troisi: Francesco non esprime saudade né mai nostalgia ma appare molto concentrato nel suo presente; appare meditativo, contemplativo, mai malinconico, al massimo melancolico, cioè incazzato ma tutto in lui s’agita incluso in un senso di naturalezza primigenia, trasparente, dove emergono alcuni aspetti decisivi della condizione umana andando oltre i limiti dei meccanismi comici, restando lui sempre libero da maschere e limitatezze localistiche. macchiettistiche.
La sua indubbia toscanità viene sublimata in una forma universale. Una toscanità che fiorisce in un sorriso quasi antico, ancestrale, dove il bambino e l’anziano si congiungono. Un sorriso quanto una serietà che condensano i carismi etrusco-toscani che Curzio Malaparte celebra nel suo splendido: Maledetti Toscani. Un senso di calma irrequietezza che sà aprire spazi di intimità ed empatia imprevisti con ciò che è più estraneo quanto scandire distanze siderali con la propria prossimità. Nuti non ha mai paura di abitare i paradossi esistenziali meno comodi: la difficoltà di comunicare e di condividere, la non riducibilità della singolarità umana al sociale e alla dimensione anche passionale dell’attività.
Quando in Io, Chiara e l’Oscuro batte il campione di biliardo è felice come un bambino ma non ha nessuno con cui parlarne e allora lo dice come un fanciullo a Chiara, uscendo dal tram: ho vinto l’Oscuro, nell’indifferenza spaventata di lei. Non a caso le sue figure protagoniste svolgono lavori semplici, umili, dimessi, prosaici ma il personaggio centrale non è mai soddisfatto pienamente né del suo lavoro, né del contesto sociale e neppure delle sue passioni. Nel contempo resta se stesso, concentrato nella sua intransitività, unicità, come avesse sempre se stesso, la sua anima ferma allo specchio spietato di uno sguardo autentico fino all’estremo.
La sua vena surreale sorge appunto intrecciata da questo fondo esistenziale spigoloso, naturalmente critico e scomodo. Nel suo darsi creatività e criticità non si distinguono, come insegnava Carmelo Bene. Una surrealtà situazionistica, vitale, casuale-caotica, che sembra sorgere dagli interstizi non risolti di un accadere interiore, fatidico, sconnesso. Una narratività borderline in una soglia fluida fra leggerezza e pesantezza, incertezza e fedeltà a se stesso, alla propria insoddisfazione o non accettazione del reale. Ogni fanciullo desidera “il tutto”, la totalità. Così è Nuti nei suoi personaggi, sia quando incontra e vive l’amore sia quanto l’imprevedibile del caso-fato vanifica la sua ritmica di vita come in “Son contento”.
Il senso del comico allora emana quasi di sponda, dall’assurdo del reale, dal suo deficit di senso a fronte dalla sua disarmante semplicità di sguardo e di atteggiamento. Come Pinocchio Francesco non recita: declina se stesso in vari contesti, sotto differenti maschere sociali come fa anche Troisi. Ma in Francesco si sente tutta la musica del silenzio, la poesia dell’intimità solitaria, eppur traboccante. Troisi lascia sempre il dubbio romantico che la sofferenza dipenda dal sociale, dal mancato riconoscimento altrui della nostra personalità. In Nuti il travaglio esistenziale non si distingue dal travaglio amoroso. E’ uno spirito tormentato? No: è Amore che ci tormenta. Francesco è l’ultimo stilnovista, orfano di una corte, cioè di una comunità di riferimento e allora costretto all’erranza, alla randagìa, nomade in città.
L’ingenuità è una potenza travolgente, spiazzante, penetrante. Il tema è tutto interiore, personale e universale nel contempo. Tutte le maschere si rivelano inadeguate, insufficienti a contenere ed esprimere la propria unicità. Non c’è sociologia in Nuti: i suoi personaggi hanno contesti di vita di per sè poco interessanti. Sono racconti sull’anima, non sulle cose, non sulle maschere. Come Pinocchio ha un grande cuore, da lottatore. Non si arrende. Vuole tutto, il suo tutto, abitare il proprio amare, il proprio sognare. “Eroe” viene da eros, dalla fedeltà al proprio porsi sorgivo, fino alla fine. Le donne dei suoi film spesso non reggono: lo trovano ad un certo punto troppo ossessivo, asfissiante (Caruso Pascoski), strano e pesante (Son contento), eccessivamente rigido e fuori dal reale (Casablanca Casablanca). Anche quando l’amore narrato incontra contesti sociali e relazionali oppositivi (Tutta colpa del Paradiso, Stregati) il senso che si coglie è sempre ulteriore rispetto ad un semplice meccanismo narrativo romantico ma appare chiaro indice di una difficoltà di vita intrinseca, naturale, data, universale.
Nuti è il poeta della “spigolosità esistenziale”, del “non detto”, magnificamente indicato e alluso nei suoi sguardi e nei suoi sorrisi totali, assoluti, aperti all’indistinto. Sguardi-orizzonte. Il poeta dell’ “indicibile quotidiano”, della nodosità irrisolvibile del vivere. Anche i suoi “lieto fine” appaiono non scontati ma si rivelano ad un’analisi attenta sempre fragili, delicati, quasi sussurrati e accennati (Stregati) mai celebrati, come ad indicare una loro genetica transitorietà. Nuti quale poeta della “non recita”, dell’improvvisazione esistenziale, come in “Madonna che silenzio che c’è stasera” nella celebre canzone goliardica cantata in un’esibizione non voluta, e in “Son contento” dove finge di recitare improvvisando una narrazione autentica su se stesso.
Siamo comparse gettate all’improvviso sul palco della vita. In questo senso appare molto kunderiano perché all’inizio dell’Insostenibile leggerezza dell’essere si illustrano pensieri simili quelli che Francesco sceneggia nei suoi film: siamo lanciati in mezzo ad una commedia dove non esiste il copione e ciascuno tenta di definire il senso e la forma di un racconto di cui è parte ma che non riesce mai ad abbracciare (com-prendere) del tutto. Ma questo palco vitale Francesco lo prende sul serio: non vi scende mai ma neppure vi finge qualcosa; non rappresenta alcunchè ma si limita ad esporre e presentare in condivisione la propria esigenza profonda e vitale di sincerità, unità, trasparenza, quasi ingenuità.
L’ingenuità è una potenza travolgente, penetrante. Questa è la stessa filosofia di Carmelo Bene: non c’è nulla da rappresentare perché l’essenza della vita è irrapresentabile, senza immagine né forma. Occorre abitare il proprio esserci, il proprio buio. In “Son contento” è proprio l’autenticità presentata teatralmente alla fine della storia che appare a Paola insopportabile, falsificante, come se la detronizzasse dal suo riconquistato ruolo sentimentale centrale a favore del “dio palco”, mentre Francesco intende questa sua nuova sperimentazione teatrale quale omaggio amoroso verso Paola, ora divenuta Musa che entra a far parte viva del “non luogo” magico del teatro, ricentralizzata amorosamente nell’unico luogo di piena libertà e vitalità: il palcoscenico (di cui il suo “divano coscienziale” è segno).
Un palco libero però benianamente da maschere e da recite, includente tutto, celebrante il flusso totale dell’accadere e quindi assorbente ora anche il loro ritorno amoroso. La serialità uccide la magia del dio Caso? La magia del palco ruba l’amore, lo simulacra? Paola rifiuta l’evocazione mitizzante del “Caso” oppure si sente schiacciata dal teatro assoluto di Francesco-Carmelo con la sua intensa immediatezza che compie una massima celebrazione dell’autenticità, della “non recita” e la compie per venirle incontro, a lei che vedeva il suo lavoro come qualcosa di divisivo? Le sembra finta tale operazione, snaturante rispetto alla normale finzione coessenziale alla presunta “autenticità nella vita”? L’amore vuole una finzione fuori dal palco nell’artificio, giocata nell’apparente normalità, sempre inseguita ma in realtà inesistente.
Questo film è importante perché pone l’accento sul reale tema del discorso: non tanto l’amore quanto il “teatro della vita” e la “vita come teatro” dove ciascuno appare fuori posto, improvvisato improvvisatore. Per Francesco non c’è distinzione fra palcoscenico e vita: in entrambe rifiuta la finzione. Il suo segno differenziale è in questo caso proprio il divano, al quale parla sia se vuoto sia se vi siede Paola. L’esperienza dell’immaginazione supera sempre l’esperienza sensoriale.
E’ proprio in questi dialoghi immaginati, in queste frasi ripetute ossessivamente, nel travaglio nella parola-pensiero sempre inadeguata, un passo indietro all’accadere dell’irreparabile quotidiano che possiamo cogliere tutto il daimon drammatico-poetico del nostro amato artista-autore. Questo discorso fondante di smascheramento della finzione nel rapporto immaginazione/relazione, giocato in una tensione lirica e vitale verso una totalità, cavalcato per liberare spazi di vita e di creatività amante regge il racconto anche in “Casablanca Casablanca” dove la ripetizione del nome fatta da Francesco all’usciere dell’albergo quando non trova più il Ricks Bar dove si è riunito sentimentalmente con Chiara introduce sottilmente ma efficacemente un dubbio irrisolvibile sulla percezione del reale e sulla sua consistenza.
Ha veramente passato del tempo al Ricks Bar di Casablanca oppure si è trattato di un sogno, di un’avventura immaginaria, di una proiezione sentimentale? Ritorna il bel paradosso del sogno della farfalla del filosofo cinese Zuangh zi. Ma lui crede al “rito magico” e tornandoci da solo in quel locale, dove poesia e quotidiano non si distinguono, tornandoci per caso, proprio lì ritrova una Chiara che sembrava già partita per la sua tournè da saxofonista. Qui la donna cede al desiderio irrealistico di totalità dove immaginazione e vita si confondono, mentre Paola invece questa totalità la voleva mascherare dietro il velo del proprio ego e dentro la finzione della “normalità” sociale.
Il singolo nella sua opera è stirneriano quanto romantik: non risolve il limite e il conflitto ma li accetta e li assume. E’ un singolo nudo, indipendente, fanciullo, senza un Io definito ma abitante una soggettività primigenia, diffusa, giocosa, sorgiva, che si reinventa ogni giorno. Quando il nostro porta le sue donne a casa sua in Stregati ecco apparire una sorta di set teatrale, molto beniano, fatto di ombra, un televisore acceso con colori modificati e immagini fisse, musica delicata e una torcia elettrica puntata sulla donna. Un teatro della seduzione.
L’eros messo in scena, vestito di mistero. L’eros chiede dei riti. La magia (materiam agere secondo Cesare della Riviera) non si dà senza riti, senza giochi e lui se li inventa, come a consacrare attimi di poesia assoluta separandoli artisticamente dal profano del diurno seriale. Il tema è la Notte, matrice amplessiva, sussurro d’anima, coscienza primordiale, eco senza fine. Il piccolo set domestico imbastito da Francesco resta uguale sia che si tratti di una semplice avventura erotica che di un reale innamoramento come quello con Ornella. E’ una declinazione della Notte stessa quale Amante. Ecco, così è la Scena in Carmelo Bene: il buio della maschera del proprio corpo, della propria voce, dove ci sentiamo attraversati dall’Altro, dal non perimetrabile che ci interpella e scuote; l’eco che precede l’azione, il risuonare che anticipa il pensiero.
Uno stato di trance, sub-liminare. Anche in Donne con le gonne la differenziazione culturale e di provenienza tra i protagonisti e l’approccio fenomenologico-documentaristico del film è solo un meccanismo di sceneggiatura. Il tema sostanziale non cambia, nonostante le apparenze sociologizzanti: il desiderio fanciullesco di totalità, la sovranità ancestrale del bambino, l’eterna lotta tra il volo di Aiòn e le durezze pesanti di Kronos. In Tutta colpa del Paradiso i nomi sono parlanti: Celeste è la grazia, il sogno, lo specchio dell’anima di Romeo, nome da pellegrino antico, giusta segnaletica del suo non aver luogo stabile nel mondo. Celeste scende tra prati e lo bacia.
Appare nel non-tempo di un silenzio scosso appena dai sussurri di suoni-colori fatui. Lui non chiede nulla. La grazia appare all’improvviso, non spiegabile. E’ un volo, un abbandono. Lui un “Don Giovanni” alla Kierkegaard ma che non si cura della propria libertà restando fermo nel dilatare all’estremo la magia dell’infatuazione-innamoramento, essenza della vita. Vorrebbe custodire e difendere l’afasia dell’interiorità (che non distingue dall’amare), la propria via meontologica all’Amore, limitarsi a celarsi nell’indicibile del mistero quotidiano chiamato vita ma questa grazia appare difficilmente sostenibile per chi non si rivela tenace come e quanto lui.
Per questo i suoi film sono così musicali e la musica è così importante per lui come protagonista: l’essenza misteriosa della vita è musicale, la “materia di desiderio” che sostanzia la vita è musicale ricorda Luigi Pareyson per il Don Giovanni visto da Kierkegaard quanto lo Schopenhauer citato da Carmelo Bene. Così il nostro poeta-cavaliere errante. Chi è più toscano e più italiano di Francesco? Si sente fisicamente nella sua opera tutta l’arte del sanguigno Duecento toscano che inventa la lingua italiana fra misticismo ed eros e la ritroviamo nel senso di assolutezza radicale nella sua messa in scena del sentimento amoroso quale situazione fatale, immersiva, olistica, universale.
Francesco volta le spalle ai fuochi d’artificio della festa del paese mentre suona la sua armonica nei prati del Gran Paradiso. Resta in se stesso, senza artifici. Solo in altezza, sopra l’artificio. Lo stupore stilla dal proprio animo, non ne abbisogna dall’esterno. Vento nel vento. Suono suonante nel suono del silenzio. E’ lui lo stambecco bianco: sfuggente, fuori posto, inadattabile. Un poeta amante randagio otto secoli fuori tempo. L’anomalia.