Permettetemi di cominciare questo articolo con qualche reminiscenza personale.
Nel 1982, per arrotondare i miei guadagni di giovane giornalista alle prime armi, accettai senza pensarci su troppo di fare da accompagnatore turistico per un viaggio organizzato del Touring Club Italiano in Guatemala.
Come fosse venuto in mente ai dirigenti del TCI di organizzare quel viaggio in quel paese, in quel particolare momento, francamente non l’ho mai capito. Si era infatti nel bel mezzo della guerra civile che insanguinò il Guatemala dal 1960 al 1996. Conflitto che vide contrapposti il governo e diversi gruppi ribelli di sinistra, causò fra i 140 e i 200 mila morti, un tentato genocidio della popolazione Maya e la sistematica violazione dei diritti umani da parte dell’esercito. Alla base del conflitto, annose questioni legate all'iniqua distribuzione delle terre e le disuguaglianze socio-culturali fra i criollos (le élites “bianche”), i ladinos (meticci) e gli indigeni maya.
In questa situazione mi ritrovai a essere responsabile dell’incolumità di un gruppo di una quarantina di turisti - perlopiù coppie di pacifici e attempati borghesi di Milano e dintorni, ma anche di Canicattì, Saluzzo o Senigallia - che mai e poi mai si sarebbero aspettati di trovarsi in una situazione del genere.
Nel rigoroso rispetto delle visite programmate, ci muovevamo in pullman fra rovine fumanti e campagne desolate, incrociando gruppi di laceri campesinos armati di machetes e bastoni, organizzati in gruppi di autodifesa per proteggersi dalle violenze delle varie parti in conflitto. Il pericolo maggiore l’avevamo corso quando, a causa dell’avaria dell’aereo militare che ci aveva trasportato, rischiammo di restare bloccati alle rovine maya di Tikal, in una giungla infestata dalla guerriglia.
Una sera tardi, avendo messo a letto i turisti, prendevo il fresco all’esterno del nostro hotel nella periferia residenziale di Città del Guatemala, rammaricandomi che la visita al centro città ci fosse stata preclusa per ragioni di sicurezza. Ad un tratto vidi pararmi davanti un microbus dai colori sgargianti, diretto proprio verso il centro storico della capitale. Non mi parve vero: senza pensarci due volte ci salii sopra così com’ero, in maniche di camicia, senza documenti e con pochi soldi addosso (beata gioventù!). Dopo un viaggio di circa mezz’ora, per strade deserte e buie, qua e là rischiarate da incendi e scoppi, mi vidi scaricare nel bel mezzo dell’enorme Plaza de Armas, la piazza principale della città. Non sentendomi al sicuro nel vasto spazio deserto, mi rifugiai sotto i portici che circondano la piazza su tre lati.
Non l’avessi mai fatto! Fui subito assalito da una turba di mendicanti, storpi e derelitti, coperti di piaghe e stracci che, avvinghiandomi le caviglie e strattonandomi per i vestiti, chiedevano l’elemosina. Mi resi conto che l’intero porticato era una gigantesca corte dei miracoli, quasi un verminaio, brulicante di umanità dolente. Scappai in preda all’orrore, solo per incappare in un posto di blocco al centro della piazza, con militari armati fino ai denti, sacchi di sabbia, blindati e grovigli di filo spinato. Miracolosamente riuscii a rimediare al volo un taxi che mi riportò alla quiete dell’albergo.
Mi sono dilungato su questo episodio perché rimanda, curiosamente e icasticamente, all’ argomento principale di questo pezzo, il romanzo El señor presidente di Miguel Ángel Asturias, che inizia proprio di notte, fra i mendicanti che vivono sotto i porticati della Plaza de Armas.
Il romanzo, che descrive la vita a Città del Guatemala durante la dittatura di Manuel Estrada Cabrera (1898-1920) può essere per molti versi considerato la fonte originaria del moderno romanzo latinoamericano. E ciò, per due motivi: da un lato, introduce quel realismo magico che si sarebbe in seguito sviluppato nel "Boom" della letteratura ispanoamericana degli anni Sessanta e Settanta e che avrebbe trovato la sua espressione più emblematica in Cien años de soledad di Gabriel García Márquez. Dall’altro, è il capostipite di quel sottogenere narrativo caratteristico della letteratura latinoamericana noto come il "romanzo del dittatore". È dalla confluenza di questi due elementi che nasce un mondo narrativo nuovo che si discosta dallo stile storico e realista che aveva dominato i romanzi ispanoamericani fino a quel momento.
Prima di addentrarmi nell'argomento, provo a mettere qualche punto fermo.
Il realismo magico latinoamericano
In generale, il realismo magico non ha niente a che fare né con la letteratura fantastica di un Téophile Gautier, di un Edgar Allan Poe o di un E.T.A. Hoffmann, né con quella (orrore orrore!) cosiddetta fantasy dei vari Tolkien, C.S. Lewis, J.K. Rowling e compagnia.
È piuttosto quello stile (oltre che letterario, pittorico e cinematografico), in cui elementi magici appaiono in un contesto altrimenti realistico, confondendo i confini tra fantasia e realtà. Nel realismo magico gli eventi non hanno una spiegazione logica o psicologica. Il realista magico non cerca di copiare la realtà della vita quotidiana, ma di coglierne il mistero che vi si cela dietro, rendendo plausibili visioni oniriche o fantastiche. Appartengono a questo stile opere all’apparenza diverse fra loro come i romanzi di Massimo Bontempelli, i film di Jean Cocteau o la pittura di Carrà e De Chirico.
Nel caso di Asturias è ancora diverso: per comprenderne lo stile, bisogna tener conto della profonda influenza esercitata su di lui sia dalla cultura maya - una cosmovisione che affonda le sue radici nel pensiero magico - che dalla cultura europea - l'influenza del surrealismo francese e dell’ultraìsmo spagnolo, l'amicizia con Paul Éluard, il modello dell'Ulisse di Joyce.
All’uso di una tecnica espressionista e onirica mutuata dalle avanguardie europee - frequente l’uso dei monologhi interiori e del flusso di coscienza - si aggiunge l'atmosfera di paura, di insicurezza, di violenza che permea la storia e il paesaggio stesso del continente latinoamericano, dando vita ad uno stile unico che è anche stato definito "barocco tropicale". Quasi un portato di quell’incontro-scontro fra le civiltà Maya, Azteca e Inca da una parte, e il cattolicesimo umanistico dei conquistadores dall’altra, che ha dato vita a quella maionese impazzita che è tuttora l’America Latina. E gli elementi grotteschi, deformi e mostruosi che dominano il realismo magico latinoamericano si discostano assolutamente dal sognante (neo)classicismo che permea quello europeo.
Il "romanzo del dittatore"
E per venire al genere letterario noto come "romanzo del dittatore", inventato anch’esso da Asturias nel señor presidente. Come si è detto, il romanzo del dittatore è un sottogenere narrativo caratteristico della letteratura latinoamericana che affronta nello stile del realismo magico la costante storica delle dittature di quei Paesi.
Il sottogenere dei romanzi di dittatori comprende opere come Yo el supremo (1974), di Augusto Roa Bastos, sul Paraguay, El recurso del metodo (1974) del cubano Alejo Carpentier, e El otoño del patriarca (1975) di Gabriel García Márquez e, (solo in parte, manca il realismo magico), La fiesta del Chivo (2000) di Mario Vargas Llosa, sul dittatore dominicano Rafael Leónidas Trujillo.
Volendo generalizzare si può dire che il romanzo del dittatore, il prodotto più chiaramente autoctono della letteratura latinoamericana, attinga a dati storici per creare versioni archetipiche e di fantasia dei dittatori.
Quando Miguel Ángel Asturias pubblicò El señor presidente, era già uno scrittore affermato. Il suo primo libro importante era stato Leyendas de Guatemala (1930), una raccolta di racconti su miti e leggende maya, apparsa a Parigi, dove l’autore conduceva studi di antropologia. Il libro ebbe l’onore di una prefazione di Paul Valéry, il “principe” dei poeti francesi dell’epoca, che con sicuro intuito scrisse: «Queste leggende mi hanno lasciato stupefatto. Niente mi è sembrato più strano di queste storie-sogni-poesie. Che miscuglio di natura torrida, di botanica confusa, di magia indigena, di teologia di Salamanca, che compongono il più delirante dei sogni!». Insomma, il grande poeta aveva da subito capito la novità di quello che sarebbe divenuto il realismo magico latinoamericano.
El señor presidente, che descrive la corruzione, gli intrighi di potere e la miseria in cui un dittatore senza scrupoli costringe a vivere il suo popolo fu scritto nel 1932 durante il soggiorno dello scrittore a Parigi, ma fu pubblicato solo nel 1946 alla caduta del dittatore Jorge Ubico.
Anche se la società guatemalteca del primo Novecento non è esplicitamente identificata come cornice della trama, il personaggio principale del romanzo è ispirato, come si è detto, alla ventennale presidenza di Manuel Estrada Cabrera. Il fatto che il Presidente non venga mai nominato e appaia raramente nel romanzo conferisce al protagonista una dimensione mitologica, lasciando che siano altri personaggi (a cominciare da Faccia d’angelo, l’anima nera del tiranno poi caduta in disgrazia e infine redenta, e i mendicanti della Plaza de Armas) a dimostrare i terribili effetti della dittatura.
Fra le opera successive di Asturias, a cui fu assegnato il Premio Nobel per la letteratura nel 1967, va ricordato Hombres de maíz (1949) che, nel denunciare la dolorosa situazione del Guatemala, ripropone l’elemento mitico maya e la sua trilogia sullo sfruttamento delle banane da parte delle compagnie yankee: Viento fuerte (1950), El Papa verde (1954) e Los ojos de los enterrados (1960). Week-end en Guatemala del 1955 rievoca le malefatte della United Fruit Company e il famoso colpo di stato da essa finanziato contro il presidente riformatore Jacobo Arbenz. In queste ultime opere, l'impegno sociale dello scrittore prevale sul realismo magico.
Lasciatemi concludere il pezzo così come l’avevo cominciato, con altri ricordi personali. Mi recai nuovamente in Guatemala nel 2012, esattamente 30 anni dopo la prima visita, per organizzarvi una conferenza internazionale antidroga. La guerra civile era terminata, e potei finalmente visitare la fatidica Plaza de Armas, questa volta in pieno giorno, compreso il mostruoso Palacio Nacional costruito dal dittatore Jorge Ubico (1931-1944). Gigantesco, buio, cavernoso, di uno stile indefinibile e di un incongruo colore verde, è una rappresentazione perfetta dell’atmosfera malsana del señor presidente. Fra le altre cose, vi abbondano le fontane interne, volute dal dittatore per nascondere alle orecchie della servitù i suoi bisbigli e le sue tenebrose trame e serie infinite di cinque finestre, per ricordare nome e cognome del tiranno composti da cinque lettere ciascuno.
La mia conferenza fu inaugurata dal presidente del momento, Otto Pérez Molina, autorevole e paterno con la sua capigliatura candida e gli abiti di ottimo taglio (in poche parole, una specie di Sergio Mattarella in salsa guacamole). In quell’occasione tenne un discorso onesto e coraggioso in cui ammise l’impotenza del suo governo ad arrestare i flussi di cocaina inviati negli Stati Uniti dai narcotrafficanti messicani.
Tre anni dopo, nel 2015, ero di ritorno in Guatemala per un’altra conferenza. Scoprii che il presidente Pérez Molina, accusato di coinvolgimento in un giro di corruzione, era nel frattempo stato arrestato e mandato nel tetro carcere di Matamoros! Alè! Incerti del mestiere (o gajes del oficio, per dirla in lingua locale) tipici di quella realtà dificile che è l'America Latina.