Era una sera come tante quando il mio viaggio filosofico nelle profondità dell'esistenza ebbe inizio. Ispirato al romanzo di fantascienza "Picnic sul ciglio della strada" dei fratelli Strugatsky, con Stalker di Andrej Tarkovskij mi immergevo nella contemplazione del significato della vita.
La Zona, punto focale della riflessione di Tarkovskij sull'umanità, si presentava come un luogo inospitale e misterioso. Era qui che gli individui si scontravano con la propria dignità e capacità di distinguere l'essenziale dal transitorio. Lo Scrittore e il Professore si avventurarono in questo territorio alla ricerca della Stanza, luogo che prometteva di realizzare i loro desideri più profondi. I due rappresentavano prospettive diverse sui misteri della vita, incarnando il contrasto tra creatività artistica e ricerca scientifica.
La Zona era la rappresentazione della vita stessa, privata di ogni connotazione simbolica. Tarkovskij qui si avvicinava al precedente Andrej Rublëv (1966) sottolineando l'importanza della spiritualità e della contemplazione nel plasmarne il tema. Lo Stalker, guida dolente e provata, rappresentava la predisposizione a una realtà fondata sulla fede. Pur conoscendo l'ubicazione e le potenzialità della Stanza, lo Stalker non desiderava entrarvi mai, dimostrando che la fede non sempre necessita del concretizzarsi della felicità.
Ogni personaggio in Stalker incarnava una specifica forma di sofferenza umana e rifletteva sul proprio ruolo nel mondo. Tarkovskij cercava di riconciliare queste prospettive illustrando come l'unità potesse essere raggiunta attraverso l'apertura verso gli altri e l'accettazione delle differenze. Il film manteneva i temi esistenzialisti presenti ne Lo specchio (1975), ma se ne distanziava nello stile, enfatizzando la spazialità attraverso l’evocativa accuratezza delle immagini.
Il fluire incerto del tempo all'interno della Zona si integrava perfettamente allo stile visivo del film, suggestivo ma sobrio. L'esterno della Zona, immerso in tonalità seppia, si distingueva nettamente dall'atmosfera vibrante e autentica dell'interno. Il design sonoro enfatizzava questa estetica, con suoni ambientali che sottolineavano sottilmente le azioni e le decisioni dei personaggi. Il vento, la pioggia e gli altri elementi naturali si fondevano con l'essenza della Zona, creando un'esperienza coerente, immersiva, avvolgente.
Mentre proseguivo il mio viaggio, mi resi conto che la Zona, sia nella sua rappresentazione cinematografica che nel suo significato più ampio, ci invitava a una profonda riflessione sulla nostra umanità e sulla ricerca del senso delle nostre vite. Era un invito a superare le strutture narrative convenzionali e intraprendere un percorso di contemplazione che ci avrebbe aiutato a scoprire ciò che è essenziale nella nostra esistenza transitoria.
La distinzione tra sacro e profano si dissolveva, valorizzando la connessione intrinseca tra spiritualità ed esistenza umana. Il quotidiano e l'ordinario venivano elevati, sottolineando il ruolo essenziale del sacro nel dare significato alla vita di tutti i giorni. Era come se Tarkovskij ci suggerisse che il sacro non è confinato a luoghi o pratiche religiose specifiche, ma permea l'intera esistenza umana, trasformando gli aspetti più comuni in qualcosa di straordinario.
L'espressione "il cinema come preghiera" (utilizzata nel documentario dedicato al regista) racchiude l'essenza di Stalker come un'invocazione non religiosa, ma profondamente spirituale, percepita ad esempio nell'esperienza delle solitudini sofferte o nella ricerca incessante di vette più alte, di significati più profondi.
Attraverso quelle immagini camminiamo e ci trasformiamo, percorrendo universi di senso che spesso ignoriamo. Ma ci viene richiesto di ascoltare, di dare voce a quei rari momenti in cui percepiamo qualcosa al di là delle limitazioni della nostra esperienza quotidiana. Solo in quei luoghi, nella mente e nel corpo, possiamo liberare il mondo dal tempo e percepirlo come eterno, unificato e armonioso.
Stalker è un inno all'arte, all'umanità e alla circolarità della vita. Non a caso, nella scena finale del film, le parole di Tjutčev vengono pronunciate con la purezza e l’innocenza della piccola Martyshka.
Un atto di speranza e un invito al coraggio di cercare il significato profondo della nostra esistenza, mentre le imposte vetuste si chiudono sull’umanità di un umile focolare.