La crescita esponenziale della quantità di dati digitali disponibili, oggetto di elaborazione ed analisi mediante algoritmi e tecniche avanzate ad alto potere computazionale, ha permesso di compiere un enorme passo in avanti in ambito medico. Un grande volume di dati non corrisponde peraltro automaticamente ad una migliore qualità delle inferenze e delle applicazioni che da queste derivano. Il dato, infatti, non è un’entità chiusa, “data”, ma un costrutto sociale, risultato concreto di specifiche scelte culturali, sociali, tecniche ed economiche. Lo stesso concetto di raw data (dato grezzo) è un ossimoro: non esiste il dato non contaminato da teoria, analisi o contesto, ma è sempre frutto di operazioni ed elaborazioni di varia natura.
Come affermato da Federico Cabitza “La tecnologia dovrebbe farci vedere più lontano e più in profondità, ma lasciare a noi l’interpretazione di cosa vediamo”. Si tratta di scegliere quali informazioni sono veramente utili e affidabili per essere utilizzate nei processi di cura e nelle relative decisioni. È necessario per questo un dialogo interdisciplinare tra medici ed esperti di numeri per dare un senso alla raccolta ed alla elaborazione dei dati, per tradurre le esigenze cliniche in requisiti tecnici, guidando la scelta degli algoritmi appropriati e dei metodi di analisi e identificare le priorità, le ipotesi di ricerca, la selezione dei campioni, l’interpretazione delle informazioni.
Si deve per esempio risolvere quello che P. Keane e E. Topol definiscono “AI chasm”, il fatto, cioè, che anche un sistema di IA con un’altissima efficacia in ambiente selezionato può non essere di grande valore se non dimostra di migliorare gli esiti clinici, mediante studi di validazione in contesti di real-world1. Caruana et al. 2 hanno per esempio rilevato una situazione clinica in cui l’efficacia predittiva dei sistemi di supporto decisionali è risultata tecnicamente valida ma in pratica fuorviante. In oltre 14.000 pazienti affetti da polmonite sono stati valutati differenti algoritmi per predire il rischio di mortalità. Il risultato è stato che i pazienti con storia di asma erano classificati come a rischio minore di morte rispetto ai non asmatici.
L’inatteso risultato è stato spiegato dal fatto che i pazienti con polmonite e storia di asma erano in genere ricoverati in terapia intensiva e la minore mortalità dipendeva probabilmente da una tendenza dei medici a trattarli in modo precoce e con maggiore aggressività.
Dati e datomi
L’esperienza quotidiana insegna che l’assistenza sanitaria deve comprendere anche (soprattutto?) le circostanze di vita del paziente, la sua ability to cope3, i suoi valori, la sua personalità, lo stato psicologico, le priorità, le precedenti esperienze, i fattori economici e familiari, i timori e le speranze, i dati di contesto, le convinzioni religiose, la voglia o stanchezza di esistere e molti altri fattori extraclinici che hanno, come cause e come fattori prognostici delle malattie, un peso importante perché modulano il realizzarsi effettivo del percorso diagnostico, terapeutico e di follow-up. Occorre dunque un approccio globale “narrativo” incentrato sulle storie biologiche ma anche biografiche, sulla identificazione e condivisione di valori, senso, interessi tra clinici, esperti di dati e pazienti.
La disponibilità sempre maggiore di dati (profilazioni genomiche facilmente disponibili on line, strumenti diagnostici a portata di smartphone, dispositivi indossabili a basso prezzo), in grado di rilevare e misurare diversi parametri biologici e fornire informazioni sullo stile di vita determina una sempre più estesa “sensorizzazione” della vita quotidiana di molte persone, soprattutto peraltro di quelle che in realtà ne hanno meno bisogno: giovani, mediamente benestanti, tecnologicamente competenti e già fortemente orientati ad utilizzare la tecnologia4. I dispositivi indossabili possono permettere diagnosi precoci, ad esempio nel morbo di Parkinson o nella malattia di Alzheimer, ma, attualmente, non sono evidenziati i reali benefici clinici di una diagnosi nelle primissime fasi di malattia. I cittadini dovrebbero pertanto essere informati su limiti e potenzialità dei diversi approcci di cura, a volte difesi da una “prevenzione di precisione”, basata su impronte “digitali” che possono degenerare in una predizione fine a se stessa, senza risvolti pratici ma con enormi effetti psicologici e sociali.
Il prezzo da pagare per la grande disponibilità di dati è inoltre una espansione della medicalizzazione, una cultura medica sempre più orientata verso la misurazione della salute e l’adozione in maniera sempre più estesa di parole chiave come calcolabilità, quantificazione, controllabilità. La realizzazione di una scienza sempre più esatta della vita delle persone per oggettivarla e “calcolarla” può portare, oltre la auspicabile personalizzazione delle cure, verso un riduzionismo perverso: il medico sostituito dal procedimento, il cittadino dai dati su benefici e costi, il paziente una entità calcolata secondo codici diagnostici più o meno rimborsabili, titolare di interventi più o meno evidence-based ma non di reale presa in carico5. In tale paradigma culturale, il clinico potrebbe in futuro relazionarsi con un cittadino considerato un datoma6, un essere privo di diritti, digitalizzato e gestito da algoritmi, un prodotto della massa di informazioni, in un contesto relazionale disincarnato, centrato sui dati anzichè sulle molteplici narrazioni della vita, che finirebbero dissolte in regolarità inflessibili e appropriate. Per condividere un’attenzione sempre maggiore alla comprensione dell’individuo, oltre la biologia di base, concordiamo con R. Ziegelstein, che ha proposto di aggiungere il suffisso –omics alla parola persona, coniando il termine personomics7.
Conclusioni
Lo sviluppo delle conoscenze biomediche si accompagna alla “contaminazione” con altre branche del sapere, soprattutto quelle tecnologiche. Per garantire cure migliori e rispondere alle sfide della complessità, è necessaria una collaborazione tra i professionisti che lavorano intorno a progetti comuni, una coordinazione interdisciplinare per far si che gli obiettivi degli esperti dei numeri coincidano con quelli dei clinici, in modo da rispondere ai veri bisogni delle persone e alle loro necessità di cura. La “contaminazione” dovrebbe per questo essere a tre vie, medico, analista e paziente, con le sue narrazioni, i suoi bisogni, le sue domande di senso rispetto a quello che gli sta accadendo, per esempio le sue esperienze dirette, positive o negative, di vissuto digitale.
Note
1 Keane P. & Topol E., With an eye to AI and autonomous diagnosis, NPJ Digt. Med 2018; 1, 40.
2 Comprende i processi psicologici di adattamento di fronte a situazioni critiche ed emotivamente impegnative, finalizzati al raggiungimento di una percezione soggettiva di controllo, essenziale per pianificare risposte efficaci e recuperare adeguatezza.
3 Caruana R. et al., Intelligible models for healthcare: predicting pneumonia risk and hospital 30-day readmission. Proceeding of the 21th, ACM SIGKDD International Conference on Knowledge Discovery and Data Minings 2015; 1721-30.
4 Collecchia G., De Gobbi R., Intelligenza artificiale e medicina digitale. Una guida critica, Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2020.
5 Collecchia G., La partecipazione dei cittadini alla produzione di conoscenza, IsF 2016; 36, 4: 21-23.
6 Saracci R., Epidemiology in wonderland: big data and precision medicine, Eur J Epidemiology 2018; 33: 245-257.
7 Ziegelstein R.C., Personomics, JAMA Intern Med 2015; 175: 888-9.