“Il mondo naturale non contiene alcuna linea dritta”: Italo Rota descrive la mediateca perugina, che progetta e realizza tra il 2002 e il 2004, attraverso questa considerazione tratta da una nota lezione del matematico polacco Benoît Mandelbrot. Non è un caso che l’architetto milanese utilizzi tale riferimento provocatorio per descrivere un edificio che, a prima vista, colpisce per il suo aspetto ultratecnologico e per i colori accesi immersi nella periferia industriale suburbana a sud ovest del capoluogo umbro. In questo senso appare evidente la volontà ambigua del progettista, che sottintende con disinvoltura binomi apparentemente inconciliabili quali naturalità tecnologica, periferia colorata e biblioteca vivace. Che, a ben guardare, esprimono una contemporaneità che caratterizza la quotidianità di molte città smart del secondo millennio, ma che in Italia, e purtroppo particolarmente in Umbria, caratterizzano puntualmente solo alcuni interventi urbani particolarmente riusciti.
La Biblioteca Comunale “Sandro Penna” si presenta come un grande disco volante di vetro rosa shocking, atterrato in città e appoggiato su un fazzoletto di verde tra i palazzi del quartiere di San Sisto a Perugia. L’ingresso all’edificio avviene dal piano seminterrato, attraverso un varco ricavato nel terrapieno sfruttando il declivio naturale del terreno, e la grafica che accoglie il visitatore riecheggia le pagine di testo di un libro aperto, enfatizzando l’attrattività della biblioteca stessa. Tale spazio ipogeo è destinato alla raccolta e alla fruizione dei materiali audiovisivi conservati nella mediateca oltre che all’accoglienza, agli uffici e all’area dei periodici. Morfologicamente il livello superiore costituisce il podio cilindrico trasparente che innalza il corpo vetrato curvilineo soprastante, ma in realtà ospita nell’area più interna la grande scaffalatura circolare che accoglie la maggior parte dei volumi attorno a cui sono distribuite le postazioni adibite alla consultazione. Queste rifuggono lo schema cartesiano che ordina le biblioteche tradizionali, laddove sono costituite da tavoli di forma sinuosa modulabili in modo da facilitare l’aggregazione e configurabili in base alle esigenze degli utenti. In tale contesto alcuni divani della serie Victoria and Albert di Ron Arad ribadiscono la complessità semantica degli spazi interni grazie al loro disegno esuberante.
Il volume traslucido che costituisce il terzo livello risulta esternamente un solido di rotazione stereometrico mentre internamente è composto liberamente come uno spazio specifico per bambini: le librerie sono leggere e trasparenti, le sedie di piccole dimensioni e i contenitori dei giochi di utilizzo immediato e di facile accesso. Peraltro l’illuminazione sfrutta il più possibile la luce naturale, filtrata attraverso i lucernari e le vetrate colorate, che conferiscono all’ambiente una tonalità che rilassa e favorisce la concentrazione. Tutto lo spazio è concepito all’insegna della flessibilità e della libertà d’utilizzo e, in tal senso, il patrimonio librario è organizzato “a scaffale”, ovvero in modo che sia possibile scegliere autonomamente il testo da consultare e, una volta individuato, sfogliarlo liberamente in ogni spazio della biblioteca. L’attenzione alla distribuzione interna appare evidente se si tiene conto che l’area per i bambini è allestita al centro della sala e risulta facilmente controllabile dai genitori, ma allo stesso tempo sono allestibili anche spazi di lettura e per lo studio di gruppo che consentono una maggiore privacy. E in quest’ottica di inclusività anche il patrimonio librario è arricchito nel tempo tenendo conto della presenza di fruitori molto diversificati sia per età che per estrazione sociale e, ad esempio, la presenza di una cospicua comunità di cittadini stranieri ha suggerito una strategia mirata di acquisizione di materiale consultabile nelle lingue più diffuse tra i residenti nel bacino d’utenza della mediateca.
È innegabile che l’involucro tecnologico definisca in modo univoco un “esterno” e un “interno”, tanto che lo spazio verde che lo circonda appare un vuoto urbano lungo viale San Sisto, ma l’edificio è concepito come un “contenitore” piuttosto che come un “isolatore”, laddove le vetrate traslucide di giorno riflettono i visitatori della biblioteca e di notte si trasformano in un segnale urbano contemporaneo attraverso la luce che si diffonde dalle sale lettura. E tale significato è stato riconosciuto anche dagli abitanti del quartiere, che l’hanno eletta a icona rappresentativa utilizzandone l’immagine al fine di pubblicizzare alcune manifestazioni a carattere locale fin dai primi anni successivi alla cerimonia pubblica di inaugurazione svoltasi nella primavera del 2004. Infatti ciò che colpisce maggiormente il visitatore della mediateca high tech di Rota è che la ricercatezza compositiva non enfatizza l’autoreferenzialità dell’edificio, come avviene per quella parte dell’architettura contemporanea nota per il carattere algido e minimalista, bensì riecheggia l’eteroreferenzialità di uno spazio pubblico accettato e vissuto dalla comunità, senza per questo rinunciare a un linguaggio internazionale schiettamente contemporaneo. Risultato che, specialmente nella provincia italiana permeata di tradizionalismo e di localismo, non è di poco conto.