Il motel di confine, con il neon intermittente “no vacancy”, non era male e corrispondeva alla chiusura di una relazione sospesa in Messico. La farsa sul matrimonio si era rivelata fallimento e veicolo di conflitto. Non avevamo visto abbastanza Will & Grace o bevuto abbastanza martini. Dalla piscina dell’area comune, schiamazzi di famiglia numerosa. Adagiata allo stipite della porta che dava all’esterno mi sentivo finalmente serena. Una perfetta, solitaria, tiepida, notte californiana. Di mattina mi piazzai alla fermata. Aspettai sotto il sole con i piedi per aria. A San Diego mi misi alla ricerca di un alloggio. Una signora con vestito a falde, arricchita da gioielli, ostinata nell’aiutarmi, veniva dissuasa dal mio portafogli vuoto. La passai girovagando la notte, appisolandomi qua e là.
Trovai un posto, il giorno dopo. Una stanza con cinque persone, avvolta in una coperta ruvida, verde militare, noleggiata per meno di un dollaro, con ricami di ispidi peli pubici. Scrissi a Josh in Italia perché sapevo che aveva amici in città. Un tale Ben mi venne a prendere. Conviveva con vedove nere nutrite con cavallette fresche e dalla testata del letto lasciava pendere un paio di manette. Mi buttai avvilita sul divano e persi i sensi per la stanchezza e la fame.
Quando rinvenni, la casa era vuota e in penombra. Ben non c’era, e dalla porzione di vetro della porta insignificante vidi le luci della città. Quanto avevo dormito? Dove mi trovavo di preciso? Priva di risposte, continuai in direzione della vista e mi rilassai, affondando nel divano. Ben si occupava della promozione di locali. Il posto non era male, ampio, con grandi tavoli circolari ai margini dello spazio centrale dove conobbi Tomàs. Ci svegliammo sul divano di Brian e di lì a un rave, in un grattacielo scialbo e abbandonato nella periferia. Ragazze smunte ballavano seminude e alterate. L’ambiente era saturo, lurido, chiassoso e umido e il pavimento appiccicoso e viscido. Stavamo parlando quando si avvicinò, semplicemente. E rimase vicino, per giorni.
Alla fine, era arrivato. Abbastanza puntuale. Non aveva indossato un jeans corto e delle grandi scarpe da basket come avevo temuto. Aveva, sì, degli shorts ma, scarpe normali, appena gradevoli. Era un tipo tutto sommato banale. Sembrava cortese e sensibile. Due buone doti. Quando lo guardavo però, notavo le rughe. Erano loro i miei coetanei ma, non potevo evitare di pensare che erano vecchi. Un po’ come dovevo essere io quando a guardarmi erano quelli più giovani. Mi aveva invitato al mare il giorno dopo ma, avevo rifiutato. Allora aveva provato con il giorno successivo. Pensavo di dire di sì, al mare. Certo ci sarebbe stato anche lui. Parlava molto. Mi faceva venire voglia di silenzio.
“Giungere dove siamo partiti e conoscere quel posto per la prima volta” diceva Bobby citando T. Elliot prima di ballare con la seducente Purslane, una giovane Scarlett Johansson (A love Song for Bobby Long, 2004 – diretto da Shainee Gabel). Ero partita per Stromboli per il mio trentacinquesimo compleanno. Isola senza luce. Avevo passeggiato con uno skipper al chiaro di quella luna che aveva illuminato la strada, verso quella che era stata la mia dimora per tre notti di relax e punture di un insetto, appena intravisto e mai identificato, che mi gonfiò la gamba. Avevo camminato, indifferente alla pioggia quanto al sole. Avevo esplorato l’isola o quel poco di spazio che il vulcano aveva lasciato. Avevo parlato, guardato le stelle stesa sulla sabbia carbone, mangiato senza fretta o appetito. Avevo voglia di dormire. Stromboli era ancora lì quando chiudevo gli occhi. Rivedevo le foto e il volto di una donna. Ero cambiata. Lui era più grande, un uomo bell’è fatto, padre di tre figli, scappato dalla città venti anni prima. Avevamo bevuto una birra, parlando, guardando il mare e il dirimpettaio Strombolicchio.
Approdai a San Domino nel pomeriggio, dopo una lunga e calda attesa al porto di Termoli. Alla stazione molisana non si respirava. Dalla nave, mentre stropicciavo la pagina del sudoku, vidi le Tremiti. Ero arrivata in un mare azzurro. Al porto ad attendermi il proprietario del bed and breakfast.
Mi mostrò la stanza, bianca, pulita, accogliente, sulla parete dipinta una grossa medusa. Mi diede informazioni su luogo, colazione e spiagge, e se ne andò. Sudata, a fatica sfilai i vestiti appiccicosi e m’infilai un costume e una maglia comoda. Buttai quattro cose nella borsa e andai a cala delle Arene che sfollava al tramonto. Scomparivano trascinati gli ombrelloni e i lettini che avevano accolto i culi caldi dei turisti. Mi buttai a mare. Attraverso la pineta, risalii verso il paese da dove ero venuta e scesi verso cala Matano. La vegetazione era invadente e iniziavo a chiedermi se fosse la direzione giusta. Arrivai su una lingua rocciosa dove alcuni adolescenti stavano pescando e mi indicarono la piccola spiaggia. Scesi lentamente sudando. Non c’era nessuno.
Era una caletta risucchiata dalla marea, invasa da gabbiani. Frettolosamente tolsi le scarpe da ginnastica e m’immersi di nuovo. Risalii quasi di fretta. Mi lavai, accesi la tv, mi rilassai e uscii a mangiare tornando presto in camera. La mattina, Mauro mi offrì un lettino in spiaggia. Leggendo Pamuk e facendo finta che la gentilezza non mi colpisse, mi resi conto che mi veniva quasi da piangere. Un po’ mi facevo pena. A commuovermi per il buon cuore della gente. A cena mangiai spaghetti alla chitarra con cicale alla marinara. Mi trattenni a guardare per un po’ la presentazione di un sub in piazza e poi tornai in camera.
Stefano si presentò in maniera timida e m’invitò a cena. Entrai in un fuoristrada un po’ malandato che ci lasciò presto a piedi. Chiacchierammo. L’isola era un posto strano, microcosmo d’infelicità e pulsioni. Gente costipata in un ambiente troppo piccolo perché non diventi incestuoso. Andammo a prendere un maglione e sotto un cielo spaventosamente stellato, mentre aspettavo, arrivò Mauro con una canna e un cane. In quell’oscurità, sotto un cielo di fitti punti bianchi, fumammo. Andai a sentire il canto delle diomedee, trascinata a pochi passi dal nulla, da un perfetto sconosciuto, che mi teneva la mano, invitandomi a stare attenta. Alzai la testa e aspettai il canto. Andammo a cala Matano, dove ero già stata, da sola al mio arrivo.
Il cielo stellato non si vedeva più, la nave cisterna illuminava l’acqua. Mi sfilai rapidamente i jeans e m’immersi solo per metà, guardandolo avvicinarsi. Rimanemmo così, per un po’. Erano quasi le cinque e avevo due ore, prima della partenza. Mi riaccompagnò e mi chiese di restare e mentre era sotto la doccia, mi addormentai. Tornò offrendomi la spalla. Una volta imbarcata, credevo che le Tremiti si sarebbero concluse lì. Undici giorni dopo, ero tornata e con lui ero in Turchia, in stato di fermo o in volo in parapendio.
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.(Vincenzo Cardarelli)