Tanto è stato scritto nel corso del tempo su Easy Rider. Un film, quello diretto (oltre che interpretato) da Dennis Hopper, che si colloca in una finestra temporale estremamente importante per la storia e per il cinema.
Siamo sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso. Si respira un’aria carica di fermento e ancora priva di quella recessione economica, unita alla stagflazione, che colpirà l’Occidente con la crisi energetica del 1973. L’atavico conflitto generazionale vive uno dei momenti di maggior scontro frontale, con la controcultura hippie ad alimentare quel clima rovente assieme alle proteste per la guerra del Vietnam, alle Pantere Nere, ai musicisti, agli scrittori e a tanto altro ancora.
Contestualmente, la Settima Arte vive una profonda fase di rinnovamento, con le istanze avviate dal Neorealismo italiano e dalla Nouvelle Vague francese ormai ben assimilate nel nuovo modo di fare cinema. Viene infatti sempre più apprezzato il lavoro autoriale dei grandi registi, che in questa fase colorano le pellicole di nuove e imprevedibili sfumature: ogni director riesce, mediamente, a portare avanti il proprio stile con una grande e inedita libertà.
La New Hollywood è la risposta americana alle nuove esigenze del pubblico, consapevole della rinnovata autorialità che andava diffondendosi in tutto il mondo. Nuovi percorsi che partono da una ridefinizione dei rapporti tra registi e produttori, creando le premesse per delle sceneggiature più originali, spontanee e libere dalle costrizioni imposte dai finanziatori dei singoli lungometraggi. Easy Rider non fa eccezione alcuna: Billy (Dennis Hopper), “Capitan America” Wyatt (Peter Fonda) e George Hanson (Jack Nicholson) offrono una panoramica intensa dell’America di fine anni ’60, costruendo dei personaggi di diversa estrazione e capaci, proprio per questo, di mostrare uno spaccato ampio della società.
La struttura on the road della narrazione permette ai protagonisti di muoversi proprio tra diverse realtà, cittadine e non, ognuna diversa dalla precedente. Come una piccola ma accogliente fattoria; o una comunità hippie. O, ancora, di vivere i pittoreschi festeggiamenti di un Martedì Grasso a New Orleans.
Una spirale positiva e avventuriera pare accompagnare Billy e Wyatt per almeno metà pellicola, fino a quando una sfilata in moto non autorizzata porta i due a scontrarsi concretamente con la legge. Ne scaturisce una breve soggiorno in cella, dove i due fanno conoscenza del giovane George Hanson, avvocato col vizio dell’alcol e che, però, può vantare un cognome capace di farlo uscire di galera in pochi attimi.
Tale condizione vantaggiosa viene presto sfruttata anche dai due protagonisti, che divenuti amici con George decidono di proseguire il viaggio insieme. Ma l’idillio della prima metà di pellicola si è ormai irrimediabilmente incrinato, con i tre che cominciano ad interagire con la parte più “conservatrice” dal Paese. L’accoglienza nella fattoria della prima parte di pellicola è un lontano ricordo.
Il lungo viaggio dalla California a New Orleans, meta prescelta al fine di poter vedere il noto carnevale, assume una connotazione più amara e beffarda. La lunga conversazione che i tre hanno prima di subire un agguato notturno da parte di alcuni uomini, pone molte domande e spunti di riflessione allo spettatore. In particolare, è George a fornire una risposta eloquente, perfettamente in grado di far emergere tutta l’ipocrisia su cui si sorregge il pensiero di una considerevole fetta della popolazione:
“La libertà è tutto, d’accordo; ma parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse. Voglio dire che è difficile essere liberi quando ti comprano o ti vendono al mercato. E bada, non dire mai a nessuno che non è libero, perché allora quello si darà un gran da fare a uccidere, a massacrare, per dimostrarti che lo è. Ah, certo: ti parlano e ti parlano e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura”.
Diventa presto chiaro come tale stato emotivo non sia, però, propedeutico ad un atteggiamento passivo-difensivo. A corredo della lunga risposta, George spiega infatti che tali persone, sentitesi minacciate sul piano della libertà, potrebbero diventare molto pericolose. Una dichiarazione decisamente sinistra e che purtroppo viene seguita, poco dopo, dai fatti.
Una lettura che ribalta, si potrebbe dire, la connotazione animalesca che alcuni cittadini avevano conferito, poche ore prima, ai tre viaggiatori. I titolari di un agire istintivo e primordiale – capace, addirittura, di condurre ad un’offesa violenta in risposta a quella che viene percepita come una minaccia esterna, pur se innocua – diventano proprio gli evolutissimi e civilizzati homo sapiens di città.
Ma non ci sono soltanto la narrazione on the road, i pensieri dei protagonisti e le loro azioni. L’aspetto formale della pellicola diventa uno strumento molto interessante e originale per analizzare la tematica della libertà. Il filmico, soprattutto nella misura di un certo uso del montaggio, diventa una manifestazione radicale almeno quanto ciò che viene catturato dalla macchina da presa (profilmico).
Uno degli elementi che la New Hollywood ha saputo scardinare è stato proprio il modo di collegare tra loro le singole inquadrature. Tali cellule fondamentali assumono significati e connotazioni diverse sulla base delle relazioni che vengono a crearsi tra di esse; una potenzialità che, ad esempio, il cinema d’avanguardia sovietico, con Ėjzenštejn soprattutto, aveva saputo subito cogliere.
Il cinema classico hollywoodiano, più prudentemente, aveva consolidato alcune di queste giustapposizioni, rafforzando e rendendo istituzionale quel sistema di raccordi che da Griffith in poi aveva permesso al cinema di acquisire un linguaggio sempre più chiaro, comprensibile e, soprattutto, trasparente. Si è parlato, non a caso, di montaggio invisibile, proprio perché il fine ultimo era quello di rendere la visione cinematografica immersiva e fluida.
In Easy Rider tutto ciò non manca. Ma vengono implementate delle scelte di montaggio decisamente originali e “scioccanti”, come raccordi sbagliati, jump cuts, transizioni quasi epilettiche, flashforward ed altro ancora. Senza dimenticare, nel finale, la celebre sequenza sotto LSD all’interno di un cimitero: piena compenetrazione tra contenuto e forma, oltre che quintessenza dell’opera di Dennis Hopper.
Uscito nelle sale il 14 luglio 1969 al Beekman Theater di New York, Easy Rider è tutt’oggi un lungometraggio capace di colpire, di stupire e di far sognare, grazie anche alle panoramiche mozzafiato del viaggio e ad una colonna sonora leggendaria: Jimi Hendrix, Steppenwolf e Bob Dylan (qui reinterpretato da Roger McGuinn) sono soltanto alcuni dei nomi che accompagnano i protagonisti.
Easy Rider è stato uno dei capolavori della New Hollywood, oltre che una delle prime pellicole di quel glorioso periodo cinematografico giunto fino all’alba degli anni ’80. Un successo che, in qualche misura, giunge dall’Italia: non è un segreto, infatti, che Dennis Hopper abbia tratto ispirazione per la propria pellicola da Il sorpasso (Dino Risi, 1962), noto oltreoceano con il titolo The Easy Life.
Ma questa è un’altra storia.