Sembra esserci una contrapposizione di fondo tra persone che pensano che una revisione dell’apparato sociale sia possibile solo attraverso la politica e chi crede che una soluzione più profonda, definitiva passi necessariamente attraverso una presa di coscienza e di conoscenza di chi noi siamo e di quale sia il nostro posto nel mondo. Queste due visioni le percepiamo come contrapposte, come se non fosse possibile conciliarle, ma è proprio così?
Come può un essere abbondantemente imperfetto, supponente, arrogante, presuntuoso e profondamente ignorante come l’essere umano ideare e vivere in una società evoluta? Come si può conoscere la matematica, come riparare una bicicletta, preparare una pietanza gustosa o guidare una macchina? Imparando. E come si fa a non essere più supponenti, arroganti, presuntuosi e ignoranti? Imparando. E, in questo caso, imparando a conoscerci, imparando noi stessi.
Questo primo passo lo ritengo fondamentale; se non cerchiamo di capire come fare per diventare esseri evoluti, tutto quello che faremo e penseremo non solo sarà inutile per la società, ma potrebbe anzi rivelarsi molto pericoloso. Chi mi segue sa che questo è un tasto sul quale batto periodicamente: non ci può essere evoluzione sociale se non ci sarà prima una presa di coscienza individuale. Le buone intenzioni da sole non bastano. Un filosofo potrà anche essere animato dalle migliori intenzioni a far crescere le piantine del suo orto, ma se non sa da che parte cominciare potrebbe causare più danni che benefici. La storia è piena di esempi di decisioni prese per il bene comune e che, al contrario, hanno peggiorato la soluzione.
Cito un banale esempio molto attuale, riportando le parole del Prof. Ing. Vincenzo D’Agostino, presidente del corso di studio in “Riassetto del territorio e tutela del paesaggio” del dipartimento Tesaf, tratto dal blog dell’Università di Padova, da un’intervista del 2018 realizzata da Antonio Massaruolo:
[...] La manutenzione degli alvei è un po’ ingessata dal punto di vista normativo: tutti i permessi/pareri/autorizzazioni del caso sono richiesti a livello legislativo con un iter che finisce per rallentare quello che dovrebbe essere un passaggio snello all’interno di ogni ente pubblico preposto alla sicurezza idraulica. Basta ancora rileggere l’art. 115 del d.lgs 152/2006 che ci dice che la trasformazione del suolo e soprassuolo prevista nella fascia dei 10 metri dalla sponda dei fiumi può avvenire solo per ragioni di pubblica incolumità. Anche la nuova Legge forestale (d.lgs 34/2018) fornisce una definizione indistinta di “bosco”, non facendo eccezioni per l’alveo e le relative pertinenze. Per le manutenzioni dei fiumi queste leggi rischiano di pesare in modo eccessivo sulla sicurezza idraulica, imponendo ad esempio tagli selettivi e il rilascio di necromassa, criteri che sono assolutamente validi per i boschi ma fuori dall’alveo.
Naturalmente chi ha redatto la legge non voleva di sicuro che avvenissero disastri come in Emilia Rimagna, ma il risultato è stato quello che abbiamo visto. E non è la prima volta. Quindi, buona volontà non significa successo.
Altro esempio che mi viene spesso in mente è quello di diverse ONG occidentali che decidono di alleviare la fatica delle donne del Kachchh - un distretto dello Stato indiano del Gujarat che si presenta come un deserto salato – che devono percorrere ogni giorno diversi chilometri a piedi per approvvigionarsi dell’acqua che viene raccolta in un pozzo. L’acqua ora arriva nelle case delle famiglie, ma le donne hanno perso l’unica possibilità di avere uno scambio sociale con le altre donne dei villaggi limitrofi e, da allora, le relazioni e gli scambi tra i villaggi sono finiti.
Stessa cosa è successa in diverse parti quando la televisione ha soppiantato la piazza. Ho assistito personalmente a questi cambiamenti prima nell’Italia meridionale degli anni ’60, poi in Egitto alla fine degli anni ’70 e poi in Asia verso la metà degli anni ’80. Certo, ci può anche essere chi preferisce starsene a casa a guardare la TV, ma in alcune aree del mondo l’introduzione di questo mezzo di “distrazione di massa” ha fatto sì che le relazioni interpersonali venissero completamente abbandonate, che la gente non si conoscesse più e si disinteressasse completamente di cosa stesse succedendo al vicino della porta a fianco. Situazione per noi cittadini occidentali ormai accettata. Ma non era così per quelle società che basavano l’idea stessa di società nella relazione con il prossimo, come per esempio quella indiana.
Quindi non fermiamoci alla superficie, ma analizziamo in profondità i problemi, così come le possibili soluzioni e i loro effetti a lungo termine. Per non commettere tali errori o superficialità, direi che la cosa migliore sarebbe prima chiarirci bene le idee. Mi sembra logico e razionale cominciare dalla formazione della goccia d’acqua per, successivamente, ottenere un oceano.
Quindi primo passo per cambiare il mondo, cambiare noi stessi. Lungo, difficile, probabilmente un percorso senza fine. Quindi lasciamo perdere? Non ci interessa, non lo riteniamo una priorità oppure non disponiamo di tempo sufficiente per pensare anche a queste cose?
Il punto finale, l’obiettivo che ci poniamo è quello di sviluppare una società dove, forse noi, ma di sicuro i nostri discendenti possano vivere senza la paura di essere coinvolti in guerre assurde, di morire di fame di fianco a un miliardario che non li guarda nemmeno, di uscire per strada senza che vengano violentati, dove i politici si spendano per far sì che la società sia un posto dove poter vedere fiorire e realizzate le nostre inclinazioni naturali.
Se questo è l’obiettivo non possiamo nemmeno pensare di raggiungerlo finché ci terremo stretti i nostri lati più oscuri, quelle parti di noi che sappiamo essere controproducenti, ma che tentenniamo nell’affrontare seriamente una volta per tutte, perché, sotto sotto, abbiamo paura di cosa sarà di noi senza di loro. La solita storia della strada vecchia per la nuova o della coperta di Linus. Rinunciamo così alla più grande avventura che avremmo potuto vivere in prima persona, quella del viaggio nella nostra vita e poniamo le basi per l’ennesima eventuale rivoluzione che ci potrebbe far cadere dalla padella alla brace.
Ma i tempi sono stretti, molti sono concordi nel dire che siamo nel bel mezzo di una transizione, ma che non necessariamente sarà una transizione che ci porterà dei benefici, anzi. Quindi dobbiamo correre ai ripari, non abbiamo il tempo di guardarci dentro, crescere, evolvere come esseri mentre ci tirano le bombe in testa, ci avvelenano con farmaci inutili, con cibi chimicamente alterati e quant’altro.
Personalmente non lo so, nel senso che non ho sufficienti elementi per poter abbracciare appieno questa visione. Di sicuro non nutro molta fiducia nell’essere umano, quindi ritengo possibile una svolta verso l’abisso. Ma solitamente sono abituato a ragionare su quello che posso fare ora, non domani o in caso di apocalisse. Quindi mi do da fare adesso seguendo quelle che secondo me sono i percorsi conoscitivi che mi aiuteranno a raggiungere il mio obiettivo.
O forse no, ma non è questo che conta. Quello che conta è fare tutto il possibile per fare ciò che si ritiene giusto e non lasciare che le cose vadano per il loro verso. Mi torna sempre in mente una scena del film “Papillon” quando Steve McQueen sogna di essere al cospetto di una giuria la quale lo giudica colpevole e lui chiede “colpevole di cosa?” – “Di aver sprecato la tua vita!” e lui china il capo ed ammette “Colpevole!”
Penso sia il peccato peggiore che un essere umano possa commettere. E guardate che con questo non intendo dare importanza all’aver raggiunto un obiettivo o meno, ma aver dato tutto noi stesso per raggiungerlo. Il risultato non inficia l’azione e non bisogna esserne attaccati. Facciamo quello che facciamo perché sentiamo, nel profondo del nostro essere, che è giusto farlo, di più, perché non possiamo fare a meno di farlo.
Sinceramente non credo sia possibile fare di più per il nostro prossimo se non dare l’esempio. I bambini imparano molto di più dai loro insegnanti da quello che non dicono che da quello che dicono. Diversi pedagogisti ci insegnano che, se con le parole possiamo far credere ai bambini che siamo delle persone che sanno quello che dicono e che fanno e, quindi, abbiamo l’autorevolezza per essere i loro maestri, in realtà loro “vedono” come ci comportiamo e tengono in minor considerazione quello che diciamo. Perché quello che siamo risulta evidente da quanto facciamo più che da quel che diciamo. Quindi l’esempio è formativo per chi ci sta intorno.
Se noi cominciassimo da subito a cercar di ripensare a chi siamo, a come siamo, al perché commettiamo sempre gli stessi errori, a come poter capire profondamente la nostra natura, questo nostro impegno si rifletterebbe all’esterno di noi stessi, perché non potremmo più far finta di niente, non potremmo più essere arroganti, poveri egocentrici che credono di poter cambiare il mondo dalle parole che escono dal buco che hanno in mezzo alla faccia, così come non potremmo più accettare le meschinità degli altri. E allora questa nostra disposizione verso noi stessi e gli altri si rifletterà inevitabilmente al nostro esterno coinvolgendo le persone più vicine a noi, per poi diffondersi come in un effetto domino.
E se questo accadesse sarebbe la base di cui un reale cambiamento sociopolitico ha disperato bisogno. Sarebbe l’inizio di una vera trasformazione. A meno che non ci vogliamo accontentare di modifiche superficiali, magari utili a breve termine, ma che potrebbero comportare problemi molto più grandi in futuro.
Lo ritenete utopistico? Forse, ma quanto ancora più utopistico è pensare di poter cambiare il mondo tramite delle fredde normative?
In conclusione, non solo ritengo che cambiamento interiore e sociale possano coesistere, ma che sia l’unico modo per poter disporre di uomini e donne di buona volontà che avranno cominciato un percorso di evoluzione interiore che invariabilmente si rifletterà sulla loro vita e sulla vita di tutti gli altri, facendo crollare le basi di un mondo fautore di un falso progresso, che non è nient’altro che il luogo in cui far crescere gli uomini e le donne d’allevamento che sono felici di dare la propria vita e quella dei propri figli per perpetrare il benessere di pochi.