È un torrido pomeriggio di un luglio non troppo lontano quando, appena diciottenne, mi ritrovo a viaggiare seduta sul cassone di un pick-up, battendo sentieri di terra rossa, tanto secca e polverosa da dover utilizzare la bandana come riparo per occhi e bocca. Assieme al mio gruppo, sto procedendo da Cotriguaçu, un piccolo villaggio a nord dello stato del Mato Grosso, in Brasile, al confine meridionale della Foresta Amazzonica, o come viene semplicemente chiamata dai locali, da o Mato.
Dopo svariate ore attraversando ponti di legno barcollanti, un castanheira alto oltre 30 metri ci segnala che ci stiamo addentrando in un territorio protetto, la Terra Indigena Escondido. Così si chiama il piccolo fazzoletto di terra in cui sorge Babaçuzal, la riserva indigena dove, ancora oggi, vive un terzo del popolo Rikbaktsa, antichi abitanti della valle del Rio Juruena.
L’atmosfera è immobile, tra il magico e l’irreale: tucani variopinti razzolano all’ombra di castagni generosi, panni stesi al sole equatoriale ed uno spirituale silenzio rotto solo dal grido degli uccelli. A riceverci è il cacique, il capo tribù, un uomo basso con un copricapo di piume di ara in testa e le Adidas ai piedi. La visione è abbastanza stravagante ma non è questo che attira la mia attenzione: gli occhi dell’indio sono magnetici, tanto scuri quanto malinconici. Ha quasi cinquant’anni, nonostante le profonde rughe sul viso gliene facciano dimostrare almeno dieci in più, e ha passato la maggior parte della sua vita lottando per rimanere in questa riserva, per rivendicare il suo territorio.
I Rikbaktsa, il cui nome nel tronco linguistico Macro-gê significa “esseri umani”, sono conosciuti infatti per la loro etica guerriera e la tenacia nel difendere il loro territorio, mantenendo relazioni ostili con i gruppi indigeni circostanti e opponendosi agli esploratori di caucciù fino alla prima metà del XX Secolo.
I territori infatti, secondo l’antropologo Paul E. Little, altro non sono che prodotti storici di processi socio-politici ed il cui concetto viene inteso come “sforzo collettivo di un gruppo per identificarsi in una specifica parte del suo ambiente biofisico”.
Ed è proprio attraverso questa resilienza socio-ecologica che i Rikbaktsa stanno cercando di identificarsi, di nuovo, nel loro territorio immemoriale, vittime secolari di brutali trasformazioni della loro identità, tanto fisica quanto geografica. Fin dal diciassettesimo secolo, sebbene isolata, la regione della valle del Rio Juruena è al centro di esplorazioni commerciali strategiche. Nonostante ciò, non vi è alcuna menzione del Popolo Rikbaktsa fino alla prima metà del Novecento, quando l’avvento di spedizioni per lo sfruttamento del caucciù e di missioni evangeliche, ha portato a gravi alterazioni del paesaggio e ad una drastica diminuzione della popolazione, causata da epidemie e resistenze armate.
Dal secondo Dopoguerra, la condizione sociale brasiliana si inasprisce ulteriormente quando, in un clima di crescente tensione, si instaura la Dittatura Militare, la cui politica si basa principalmente sulla crescita di industrie e infrastrutture, con pregiudizio verso i territori storicamente abitati dalle popolazioni indigene, per consentire la creazione di strade e centrali idroelettriche.
Si stima che, attorno agli anni Sessanta, dei 1300 occupanti del territorio Rikbaktsa, ne rimane solo un esiguo 25%, confinato in tre differenti aree centralizzate, sotto la direzione catechistica dei Gesuiti. Aree che comprendono solo una minima percentuale del territorio primordiale.
La maggior parte dei bambini viene trasferita nel centro religioso Utiariti, a centinaia di chilometri di distanza, sulle rive del fiume Papagaio, per essere educata secondo i principi gesuiti, assieme a minori appartenenti ad altri gruppi indigeni. Nonostante l’intensa pressione acculturativa perpetrata per più di un decennio, l’intermediazione evangelica è stata anche il veicolo per fornire le condizioni minime al recupero demografico post-contatto. Nei primi anni Settanta del Novecento, infatti, l’attività missionaria muta, riconoscendo parzialmente alle popolazioni indigene il diritto identitario ed autonomo.
I bambini precedentemente allontanati ritornano alle comunità d’origine: la scolarizzazione e la loro esperienza nella società esterna “civilizzata” diventano fonte di ricchezza sociale nell’interazione con le conoscenze tradizionali degli anziani del gruppo. Ed è proprio tra gli anni Settanta ed Ottanta del XX Secolo che comincia la ri-esistenza del Popolo Rikbaktsa. Nemici storici come Apiakà e Kaiabi, diventano alleati politici nella lotta comune per l’ottenimento della riterritorialità, creando nuovi agglomerati e nuove formazioni socio-politiche, guidate da associazioni e movimenti come il Consiglio dei Capitribù, il quale riunisce i leader di 35 villaggi indigeni, attivo come fronte comune per l’autodeterminazione del popolo stesso.
Non appena le epidemie vengono contenute, la popolazione comincia nuovamente a crescere ad un ritmo accelerato, fino ad arrivare ai mille individui nei primi anni Duemila. Attualmente, il popolo Rikbaktsa risiede ancora nelle tre aree confinate negli anni Sessanta: la Terra Indigena Erikbaktsa, Japuíra ed Escondido, demarcate e riconosciute come riserve indigene rispettivamente nel 1968, 1986 e nel 1998.
La Terra Indigena Escondido è una comunità che raggruppa clan, generazioni e gruppi familiari differenti che in passato erano politicamente autonomi e distinti ma che, ad oggi, condividono uno stesso referenziale linguistico, una stessa identità collettiva ed uno stesso vincolo ancestrale territoriale. E se l’autodeterminazione è il principio che garantisce ad un popolo il diritto di autogovernarsi, per i Rikbaktsa è il fattore mobilitante per riprendersi il loro territorio immemoriale. Per resistere e ri-esistere. E per permettere che anche gli occhi di una poco più che diciottenne, a quasi diecimila chilometri da casa, possano incontrare quelli di un uomo, così scuri e malinconici da contenere tutti i colori, i profumi e le anime del suo popolo, in un torrido pomeriggio di luglio, nel cuore dell’Amazzonia.