La filosofia è amore per la metafisica. Sono giunto a questa conclusione. Sappiamo, dai banchi di scuola, la filosofia amore per la sapienza. Ma in fondo, abbiamo imparato, la “sofia” non è sapienza generica, ma episteme. L’aspirazione massima della filosofia è episteme di ogni sapere. Anche in campo etico, la filosofia vorrebbe arrivare, se potesse, a un’etica epistemica. Perciò, la filosofia ben s’intende se si presenta come il prendersi cura della scienza.
E tuttavia, a ben vedere, la scienza serve alla filosofia come strumento d’indagine sulla metafisica. La scienza è finestra dalla quale filosofia si sporge per gettare lo sguardo sulla metafisica. Mi pare una teoria piuttosto inedita, e non sono certo adeguato a svolgerla; a livello puramente intuitivo, mi pare nondimeno questa la ricerca ultima della filosofia. Stabilire attraverso razionalità concetti metafisici. Se le regole logico-razionali mutano, allora la metafisica si deve rivedere.
Aristotele non amava i miti. Platone invece compose i suoi dialoghi per metà di discorsi logici e per metà servendosi di miti. Eppure, lo stesso Aristotele fu costretto a teorizzare il Motore Immobile, il quale spiega, a differenza del mondo noetico platonico, il divenire delle cose – da Parmenide e Platone semplicemente rigettato come inganno dei sensi -; e pertanto, a riutilizzare quella Dottrina delle Idee da Aristotele inizialmente rifiutata. Non è possibile occuparsi della fisica senza una metafisica, e non solo: ma data una certa idea di fisica, seguirà un certo assetto metafisico. Stando così le cose, non è la fisica a derivare dalla metafisica, ma la metafisica ha essere oggetto di indagine della fisica.
Sapere com’è fatto questo mondo, getta, viene da dire: ineludibilmente, una luce su com’è fatto il mondo oltre questo mondo. Le fisiche di oggi, difatti, creano fenomeni di religiosità; che a noi paiono parodie del religioso e della religione, ma che sono conseguenza stretta del fatto la fisica abbia a oggetto d’indagine vero e conclusivo la metafisica. Una scoperta fisica ci dice di metafisica. Pertanto, è stato, forse, un errore tenere separati il mito dal logos.
L’inaridirsi delle discipline scientifiche ha determinato tecnologie sempre più distanti dall’umano. Invece, si fosse seguitato sulla via della metafisica come oggetto d’indagine da parte della fisica, forse avremmo tecnologie più rosa e fiori. In questo senso, l’esoterismo (e gli scritti aristotelici riordinati da Andronico di Rodi e nel 220. d.C. da Alessandro di Afrodisia e definiti “meta-fisica” per ragioni quasi puramente biblioteconomiche sono catalogati “libri esoterici”) va guardato sotto questa prospettiva.
La filosofia è infatti impastata di esoterismo. Ma anche qui, senza fraintendimenti: per comprendere la esoterica parte, gli esoteristi dovrebbero concentrarsi su quella logico-essoterica; e viceversa, per capire il senso della parte metodologico-immanente, la scienza dovrebbe tornare alle parti iniziatico-trascendenti.
Ciò è evidente nei dialoghi di Platone, del quale l’intera storiografia della filosofia (e io sono d’accordo), come affermato da Whitehead a cavallo tra Ottocento e Novecento, è commento a margine. Concentrarsi sui dialoghi platonici è andare pertanto alle fonti della filosofia.
E concentrarsi significa per prima cosa formarsi da sé una narrazione, per sommi capi, di ciò Platone abbia inteso fare – essendo una narrazione anche una spiegazione. Dunque, ecco il mio personale àbrégé. I dialoghi platonici nascono dal trauma di Platone per la condanna a morte di Socrate. L’opera di Platone, si potrebbe dire, nasce già come “teodicea” (parola elaborata da Leibniz, con un salto temporale di certo non trascurabile). La polis greca decreta la morte di Socrate per empietà. Platone avverte nel profondo l’ingiustizia perpetrata ai danni di Socrate e reagisce mettendo in discussione l’intero sistema di valori della polis. I dialoghi platonici tutti (e non solo i dieci libri della Repubblica) sono opera di ripensamento radicale e riforma delle città-stato.
Per prima cosa, Platone rifiuta il phanteon greco e s’inventa per lo più da solo dei e miti. Viene quasi da pensare il termine politeia (tradotto impropriamente “Repubblica” o con maggiore proprietà “Costituzione”) alluda in realtà a “politheia” – infatti, non è insensato ipotizzare un nuovo assetto politico implichi necessariamente un nuovo ordine divino. Platone rifiuta l’antropomorfizzazione degli Dei. Nel mito del cocchio alato presente nel Fedro l’anima degli Dei è trainata da due cavalli bianchi e non come per l’anima degli umani da un cavallo nero e un cavallo bianco, l’uno, il cavallo nero delle passioni, a spingere verso il basso e l’altro, il cavallo bianco della spiritualità, verso il mondo iperuranico, il quale verrà poi rammemorato per reminiscenza dopo la reincarnazione. Nel mondo concepito da Platone Zeus non si mescola e accoppia in continuazione ai mortali. Gli dei platonici sono separati da uomini e donne.
In secondo luogo, la Teoria delle Idee pone il mondo noetico al di fuori della realtà sensibile. Non è accessibile, tale mondo, anche se di questo abbiamo nozione grazie all’intelletto. Il mondo ideale platonico non è di questo mondo. Non è nella realtà. Anche qui: l’Iperuranio è esistente, ma non percepibile. Immanente all’interno di una dimensione trascendente. Notiamo subito quanto per descrivere la pianura veritativa oltre il cielo platonico si sia costretti a ricorrere a una sorta di “alogica razionale” teorizzata, alle porte dell’Umanesimo, da Nicolò Cusano e ripresa, nel Novecento, da Karl Jaspers. Pertanto, questo iperuranio noetico è incolore, inodore, invisibile, intoccabile, non ha luogo, non ha tempo, non ha peso. Tale mondo ha anche una struttura. Una struttura piramidale.
E Platone la descrive. Al vertice sta l’Unità (che in Plotino diventerà l’Uno: l’Uno è enteologicamente in tutte le cose, ma Plotino pare non considerare quanto anche il molteplice sia in tutte le cose, in modo speculare e paritario) e subito sotto la Diade. L’Unità è il principio unificatore. La Diade principio divisore. Ed ecco la critica appena volta a Plotino. Questi due principi Unità e Diade (“ipostasi” in Plotino) vengono assunti dal Cristianesimo nel concetto di Trinità. La Trinità si potrebbe esplicitare, per intenderci al massimo, in “Tri-unità”, “Tri-unitarietà”.
Cioè, stanti tutti i problemi derivanti dalla diatriba sul “filioque”, la patristica aveva capito nel desumere il concetto di Trinità dal Vangelo l’Unità e la Diade di Platone (pur proveniente, in realtà, per la patristica dall’ipostasi neo-platonico-plotiniana) sono sullo stesso piano e non in un piano di derivazione. Se è un triangolo allora dobbiamo figurarcelo triangolo rotante, dove avviene senza sosta una staffetta di vertici. La patristica, potremmo azzardare, attua un’antropomorfizzazione dei piani più alti del mondo ideale platonico. Platone aveva elaborata la sua teoria per svincolarsi dal principio dell’ex analogia hominis, e la patristica ha ripreso il modello platonico-plotiniano, in una sorta di agostiniano “sacro furto”, associando a ogni vertice del triangolo Padre, Figlio e Spirito Santo. In realtà, ed è materia di dibattito dal II secolo d.C. non si sa chi abbia plagiato chi.
Se Platone i Cristiani o se i Cristiani Platone. Ad esempio, il Dio Padre predicato da Cristo potrebbe giungere dalla sapienza greco-latina la quale già alludeva a Iuppiter contenente all’interno una radice indo-europea da cui deriva Deus Pater: (D)iu(ppi)ter. Poi, arriverà Marsilio Ficino, il quale forte di nuovi documenti di cui entrato in possesso dalle mani di Leonardo da Pistoia dopo la caduta dell’Impero Romano d’Oriente nel 1453, nel 1463, su impulso di Cosimo de’ Medici, comincerà la traduzione di testi persiani antichissimi antecedenti alla Mileto del VI secolo a.C. e a Nazareth affermando il Dio della Bibbia si manifestò ancor prima che a Mosè a Zoroastro in territorio medianita-babilonese durante l’Età del Bronzo tra il XVIII e il XV secolo prima della venuta di Cristo facendolo autore degli Oracoli Caldaici e iniziatore del mazdaismo; poi lo stesso Dio comparve in Egitto a Ermete Trismegisto nel XIII secolo a.C.; e poi in Grecia a Orfeo.
E poi tramite Pitagora, a Platone, allievo di Filolao. Ficino traduce e traduce e ridisegna la storiografia filosofica retrodatandola e parlando di prisci theologi ovvero di antichi, antichissimi filosofi. Ma non si accontenta. Teorizza la pentarchia ontologica per mezzo della quale Ficino arriva a stabilire l’anima umana come copula mundi ovvero come punto di accoppiamento tra divino e bestia, e affermando la centralità dell’uomo e la sua rinascita in quanto dotato (a differenza di angeli e bestie) di libero arbitrio ovvero della possibilità di elevarsi verso i piani divini o sprofondare negli abissi della pura animalità. Ficino con la Teologia Platonica vuol rendere possibile (assieme ad altri neoplatonici) la Bona Pace Fidei ideata da Cusano. Ma può darsi pure, in pieno Basso Medioevo, credesse ipso facto a quanto affermava – ossia che da Zoroastro a Platone, fino ad Avicenna e a Duns Scoto, passando per Agostino, uno stesso Dio si fosse loro rivelato.
Prendiamoci un momento, avendolo appena evocato, per la figura di Ermete Trismegisto.
Ermete Trismegisto è figura fortemente sincretica ed esoterica anche solo nel nome. Non solo è presente in due miti platonici: quello, come noto, di Theuth nel Cratilo e quello (nostra supposizione) di Er al termine dei dieci libri della Repubblica, essendo Ermete psicopompo e pertanto in condizione simile a quella di Er, il quale non avendo bevute acque dell’oblio prima di reincarnarsi ricorda l’oltretomba e si trova pertanto in una posizione di messaggero e traduttore di messaggi ultraterreni. Ermete è Er(me)theut. E tuttavia, sappiamo Theuth sia Toth. Dunque, Ermetheuth è in realtà Ermetoth. E anche Trismegisto. Sì, significa tre volte grande (o in alcuni casi cinque volte grande), ma poiché da “megistos” (superlativo di “megas”), deriva anche “mago” si potrebbe tradurre Tre volte Maghissimo. Ermethoth Tre volte Maghissimo. Dallo stesso vocabolo deriva “magi”: i “magi” è come noi rendiamo il plurale di “mago” per non confondere i “tre magi” con i più pagani “maghi”. I tre magi erano appunto tre. Trismegisto. Thot, Zaratustra e Orfeo.
Ermethot Trismoiseistos. Ad ogni modo, Mercurius Ter Maximus è figura così imponente da spingerci a domandarci, quando si legge un qualunque antico testo (e non solo), dove il Tauto dei Fenici, in tale testo, si nasconda. Ad esempio, nel Vangelo Cristo consegna le chiavi della Chiesa a San Pietro (sostiene Giacomo Maria Prati) una d’argento e una d’oro: simbolo (secondo il dottor Prati) del solve et coagula ermetico. Dunque, nella figura di San Pietro si nasconderebbe la figura di Ermete Trismegisto. La domanda, quando leggiamo un testo antico, ripetiamolo, è dove si nasconda il priscum theologum Ermethot Trismoiseistos.
Per riprendere il filo, Ficino potrebbe, in realtà, aver favorito Cartesio.
La corrente umanistico-rinascimentale e quella moderna s’innestano. La modernità non interrompe, contrariamente a quanto s’insegna, l’umanesimo. Infatti, la Teologia Platonica di Ficino consacra la parte puramente mitologica del corpus di opere platonico innalzandola addirittura a teologia. Ficino sembra fare con Platone quanto Einstein fece con Plank. Plank s’inventò il fotone e Einstein dimostrò reale quell’elemento puramente speculativo. Nauseato dall’ingiustizia subita da Socrate, Platone costruì un phanteon alternativo facendo come facciamo tutti: mettendo insieme pezzi diversi di altri flipper immaginativi. Ma tutto questo, e Platone lo dice, è mito. Mito per esprimere qualcosa di basilare, ma del tutto non razionalizzabile. Quella parte mitologica serve da premessa alle cose importanti ossia gettare le basi di una filosofia intesa, come detto in apertura, cura nei confronti della scienza.
Il mito e il logos, nell’opera platonica, cooperano. Il mito è spezia fondamentale per insaporire il logos. In termini più moderni, in Platone illuminismo assolutista e irrazionalismo non si negano, ma coabitano al punto da poter definirsi il platonismo forma di romanticismo illuminista. In Platone lo sturm und drang è presente anche nei dialoghi dove si affrontano i temi più rigorosi: si nota, infatti, (quasi a rispecchiare la più alta concezione Chora/Iperuranio) un alternarsi di prosa confusa e prosa lineare. Le tesi sostenute dagli avversari dialettici di Socrate sono dense di fallacie e suonano faticose: e poi arriva Socrate e il suo ragionamento mette ordine e bellezza.
Non solo, ma il mito, in Platone, anche se può sembrare paradosso, come abbiamo in apertura anticipato, fonda l’episteme, o il metodo epistemico, il che è dire quasi la stessa cosa – poiché ogni gnoseologia contiene istruzioni per trasformare la mente umana in strumento d’indagine: in tecnologia. Vediamo. Secondo la Dottrina delle Idee, l’Iperuranio è formato al vertice da Unità e Diade. Qui Ermete Trismegisto dov’è? Semplice. L’Unità e la Diade sono il solve et coagula della Dottrina Ermetica. Al di sotto di Unità e Diade per emanazione ci sono i Numeri. E qui Platone inserisce nel mosaico la tessera pitagorica. E poi vengono le Idee. Il Demiurgo è la divinità inventata da Platone con il compito di forgiare la realtà sensibile.
Ma il Demiurgo come plasma la realtà? Come ci riesce? Come avviene il passaggio da piano metafisico-trascendente a piano empirico-sensibile? Mediante l’esistenza di un principio speculare a quello iperuranico: la Chora. La Chora è non-essere e caos (per i greci “non-essere” significa principalmente “informità”). Il Demiurgo, narra Platone, incontra la Chora e la vede brutta e informe. E allora decide di plasmarla sul modello dell’Iperuranio. Si serve delle figure geometriche (di nuovo riutilizzo di Pitagora) per plasmare la realtà. Ma essendo fatta di Chora, la realtà è copia imperfetta dell’Iperuranio. Ci sono due principi mescolati, e questo determina imperfezione.
Certo, il mondo sensibile è mille volte meglio della Chora in sé e per sé. Ma è imperfetto. Come si vede Platone (“Non entri chi non è geometra!” Platone fa scrivere sulle porte dell’Accademia) contiene Pitagora e anticipa Galileo – matematica e realtà sono interconnessi. E se vogliamo nella Dottrina delle Idee c’è già la coincidentia oppositorum elaborata da Cusano in epoca umanistico- rinascimentale. Questa la Dottrina delle Idee. Mitos e Logos, parte favolistica e parte scientifica sono così intrecciate ai nostri occhi da risultare di digestione ardua. Eppure, solo così facendo è possibile porre un qualche fondamento solido alla credibilità della parte epistemica.
Parmenide infatti postulava l’esistenza di un Essere ingenerato e illimitato, ma Gorgia lo confutava affermando l’illimitato non trovarsi in nessun luogo e l’ingenerato non collocarsi in nessun tempo ed essere pertanto inesistente. Platone risolse il problema spostando l’Essere parmenideo in un piano di pura trascendenza. In un piano attingibile solo dall’intelletto esiste un cavallo perfetto o una sedia perfetta, dei quali noi abbiamo in testa il solo concetto, sorta di ombra, potremmo dire, dell’idea iperuranica aggettantesi all’interno della nostra mente-caverna. Mente-caverna che ci rinvia al Mito della Caverna.
Ma l’immagine della caverna (esposta da Platone nella Repubblica) è allegoria più che della mente dell’anima dentro il corpo. Il corpo imprigiona l’anima come le valve di una conchiglia l’ostrica. Sicché, lo scopo della vita è liberare l’anima dal corpo e dal ciclo delle reincarnazioni (il quale ciclo ci ha fatti precipitare nel nostro corpo-caverna; perché all’inizio del racconto di Platone uomini e donne si trovano nella caverna? Risposta: perché ci sono precipitati a causa del ciclo delle reincarnazioni) come narrato nel mito di Er. Mito interessante per alcuni aspetti. Intanto Platone utilizza tra gli esempi gli eroi omerici di Aiace, Ulisse e altri.
Perciò nel suo phanteon speciale fa rientrare, Platone, questi personaggi mitici: e viene da domandarsi se questi personaggi fossero effettivamente solo mito o fossero reali – Zeus compreso. Anche Dante nella Divina Commedia farà comparire Ulisse tra tanti personaggi reali. In secondo luogo, nello spiegare la libertà di scelta del proprio destino da parte delle anime dopo aver vagato mille anni nell’oltretomba prima della reincarnazione, Platone fa scegliere a ciascuno una vita che è quasi commento, giudizio della vita precedente, in una sorta di ironia tragica, tanto cara ai greci.
Ora, cosa voleva dirci Platone? Platone voleva solo farsi beffe delle anime o c’è una lettura più seria, profonda? Destino e libertà di scelta parrebbero escludersi. Ma è così? No. All’interno del nostro destino noi siamo liberi di scegliere. Il destino non costringe. Lascia liberi. Solo che questa libertà è apparente o ancor meglio la nostra libertà di scelta, per i greci e per Platone nel mito di Er, è in perfetta risonanza con il nostro destino. Camminiamo insieme, mano nella mano. Non avvertiamo costrizioni.
La modernità (diciamo da Ficino in avanti, anche se un primo tentativo ci fu già da Aristotele) fa fuori la parte mitologica ed ecco l’errore. Ficino la fa fuori inserendola in un contesto teologico; la scienza la fa fuori considerandola non verificabile e favolistica. Si noti la convergenza di scienza e teologia. La quale convergenza parrà strana, ma non è così insensata. Infatti, se la metafisica si modella sulla ricerca della verità ed è pertanto mutevole, la teologia è fondata su una verità rivelata, universale ed eterna – molto simile alle verità di scienza. Ma si pensi all’innatismo. Da Cartesio a Kant, non trascurando Agostino, esistono idee innate (ed è Platone il padre dell’innatismo) e a priori. Dio è un’idea innata.
Ma se l’idea di Dio è innata e da Dio proviene, come mai questo stesso Dio si è rivelato in un tempo e luogo determinati della storiografia? Si rivela quanto non conosciamo. Non una struttura originaria e costitutiva dell’intelletto e dei nostri cuori. Se tale struttura esistesse, infatti, non accoglierebbe subito la rivelazione riconoscendola vera? Di conseguenza, o non esiste alcuna idea innata di Dio in noi o la rivelazione, non essendo stata accolta da tutti, non è vera rivelazione. O forse, l’idea innata di Dio altro non è se non il dono della fede ovvero la capacità di riconoscere per vera la rivelazione – e un tal dono non è di tutti.
Comunque, c’è contraddizione nel voler far convivere, all’interno del pensiero teologico-filosofico, innatismo e kèrygma. In Platone questa contraddizione non c’è. Platone non ci stava raccontando miti per dirci qualcosa di vero in quanto incontrovertibilmente vero (il mito di Atlantide, il mito di Theuth, il mito della Caverna, l’Iperuranio), ma come premessa speziata per la parte rilevante ossia 1) la dialettica (la quale, si noti, si compone di sintesi e analisi, cioè di unificazione e suddivisione… dov’è Ermete Trismegisto? Semplice. In dialettica nell’ermetico solve et coagula), 2) la differenza tra cinguettio doxastico ed epistemologia e 3) tutte le parti scientifiche (o meglio gnoseologiche, il che è dire quasi la stessa cosa) inserite all’interno dell’opera stessa. La premessa è sì mitologica, ma è dal punto di vista concettuale inattaccabile.
Coerente. Se per coerenza alla parte scientifica è necessario immaginare l’Iperuranio, la Chora e il Demiurgo nel mezzo, allora ciò va fatto. Non è verificabile, forse, ma è coerente e necessario al discorso. Oggi diremmo funzionale. La misura della coerenza interna di un discorso è la sua inattaccabilità. Se è inattaccabile è premessa valida. Ma c’è di più, come abbiamo detto in apertura. Nell’antichità un certo modo di intendere la fisica aveva ripercussioni sulla metafisica. Come se le scoperte fisiche gettassero luce sulla “filosofia prima” e sulla scienza delle cause prime: la metafisica, appunto. Facciamo un esempio. Le scoperte della quantistica per la quale le leggi fisiche più elementari non valgono, non ha determinato (almeno non in modo serio) una nuova concezione metafisica.
Non la chiamiamo più metafisica ma fantascienza – e la fantascienza non possiede certo il rigore allegorico della metafisica platonica o di quella contenuta nei quattordici “libri esoterici” aristotelici raccolti da Andronico di Rodi e poi nel 200 d.c. da Alessandro di Afrodisia. La conseguenza della modernità è stata quella di inaridire sempre di più le scienze. Scevra dai miti, dall’esprimersi per immagini, dal postulare questo tipo di coerenza estrema sconfinante anche nel favolistico, la scienza è andata facendosi fredda e ha partorite tecnologie altrettanto fredde e lontane dall’umano. Invece, si fosse conservata (facendo la storia con i “se”) la mitologia all’interno della scienza (e chiudiamo il cerchio ripetendo quanto affermato in principio) forse avremmo avuto più menti al servizio della scienza e una tecnologia più rosa e fiori.