C'era una volta una principessa. Bella, saggia, coraggiosa e cristiana. Costretta a sposare un infedele, è la protagonista di una serie di peripezie che la porteranno al martirio insieme ad altre undicimila vergini. Si chiamava Orsola ed era la figlia del re di Bretagna, chiesta in sposa dal successore del re d'Inghilterra. Visse, raccontano le cronache antiche, nel IV secolo dopo Cristo, e Carpaccio ce ne racconta la storia in nove enormi teleri, alti 3 metri e lunghi dai 2 metri e mezzo ai 6 metri. Un'opera grandiosa e importante, almeno tanto quanto era importante nella Serenissima Repubblica il culto di sant'Orsola, il cui nome ancora oggi è frequente tra le veneziane.
Ma c'era una volta anche un indemoniato, un patriarca di Grado e una reliquia della croce di Cristo custodita nella città lagunare. Ancora una volta è Carpaccio a raccontarci la storia di un miracolo che fece scalpore e di cui sono tramandati data e nomi. Certo, è difficile anche per un neofita dell'arte non restare affascinati davanti ad immagini così minuziosamente ricche di colori, di particolari, di abiti raffinati, di marmi splendenti, dolci colline, strani alberi, imbarcazioni che veleggiano in acque placide. Persino leggende lontane e sconosciute rapiscono lo spettatore, come se fosse nella platea di un teatro. Perché lui, Vittore Carpaccio, nato forse nel 1460 e morto, forse, nel 1526, non fu solo un pittore dell'epoca d'oro della Serenissima, ma ne fu anche cronista attento con una profonda vocazione da narratore.
Spesso, infatti, dipinge nella stessa tela più eventi avvenuti in tempi e luoghi diversi, ripetendo anche più volte gli stessi personaggi, dando origine a racconti figurati. Davvero una sorta di teatro il cui palcoscenico è quasi sempre Venezia, con i suoi palazzi sull'acqua, le gondole, i terrazzi, i comignoli e le sue calli brulicanti di cortei, negozi e mercanti provenienti dall'Oriente, con i loro turbanti e vestiti sfarzosi.
Ma pensare che Carpaccio sia stato un semplice illustratore sarebbe fraintendere la sua arte narrativa. Ce lo dice Vittorio Sgarbi in uno degli studi dedicati all'artista che lui ritiene essere il pittore più colto e intellettuale del Quattrocento veneziano. E scrive:
Carpaccio rende verosimile l'irreale, costruendo spazi reali con paesaggi e architetture inventate, oppure dando una sostanza onirica e visionaria a citazioni di architetture reali.
Se in questo è certamente aiutato dal vivere in una città che è essa stessa ai limiti tra realtà e immaginazione, è anche vero che è la sua forte attrazione verso il particolare a trasformare spesso i suoi quadri in poesia.
A questo grande interprete dell'arte quattrocentesca Venezia dedica un'esposizione a Palazzo Ducale, proponendoci 42 dipinti e 28 disegni attraverso i quali si ripercorre la sua evoluzione fino al capitolo conclusivo della sua carriera.
«Una grande retrospettiva che nasce dall'esigenza di guardare con occhi nuovi questo grande pittore», sottolinea Andrea Bellieni, co-curatore della mostra, «soprattutto alla luce di recenti restauri rivelatori e della scoperta di significativi inediti». E Susannah Rutherglen nel catalogo sottolinea ancora il felice connubio tra fantastico e reale della sua pittura: «Carpaccio, ispirato dall'ambiente unico e dalla società cosmopolita della sua città natale, unì l'osservazione ravvicinata della scena urbana con la predilezione per il poetico e il fantastico, elaborando leggende le cui ambientazioni spaziano dalla Terra Santa al Nord Africa e alle coste dell'Inghilterra e della Bretagna. Le monumentali narrazioni pittoriche dell'artista rimangono l'aspetto meglio conosciuto e più caratteristico della sua opera, con il singolare potere di ispirare in chi le ammira un coinvolgimento emotivo».
Nonostante sia nato e vissuto a Venezia e rari siano i momenti in cui si è brevemente allontanato dalla sua città, della vita di Carpaccio si conosce in realtà molto poco. Quasi certamente figlio di un commerciante di pellami, tal Pietro Scarpazza, con bottega nelle Procuratie di piazza San Marco, fu lui stesso a latinizzare il suo cognome in Carpathius, diventato Carpaccio solo dopo la sua morte. Ebbe una moglie, Laura, e due figli, Pietro e Benedetto, quest'ultimo pittore a sua volta. Abitò vicino a campo San Maurizio e in giovane età frequentò la bottega dai fratelli Gentile e Giovanni Bellini. Non ci sono aneddoti che facciano luce sul suo carattere e sulla sua dimensione privata, cosa che fa pensare a una sua ferma riservatezza. Forse anche per questo alcune sue opere restano pervase da un alone di mistero.
È il caso delle Due dame su cui la critica si è interrogata a lungo per arrivare alla conclusione che non si tratta di due cortigiane, bensì di donne rispettabili delle classi abbienti, spose fedeli che attendono un po' annoiate il ritorno dei mariti a caccia in laguna. Comunque sia la tela è un capolavoro descrittivo, colmo di dettagli minuziosi, dall'acconciatura 'a fungo', molto in voga all'epoca, ai gioielli, al fazzoletto bianco, fino ai numerosi animali che appaiono, sia cani che volatili. Ruskin la definì 'la più bella pittuta del mondo' e la mostra ha il merito di presentarcela nuovamente unita alla parte superiore della tavola, quella Caccia in Valle che era il proseguimento dell'immagine delle Due dame. Insieme erano la decorazione continua di uno sportello, letteralmente segato in due parti nell'Ottocento per fini commerciali. Se le signore in attesa sono rimaste a Venezia ed esposte al Museo Correr, la caccia in laguna è invece conservata al Paul Getty Museum di Los Angeles e ha trovato un momentaneo e apprezzabile ricongiungimento nella mostra veneziana.
Oltre a opere di chiara influenza di Giovanni Gentile, come la Madonna col Bambino e san Giovannino, la bellissima Pietà di derivazione nordica, attribuita al Carpaccio solo di recente e un' inconsueta Vergine leggente, rappresentata di profilo e in abiti veneziani, l'esposizione ci regala la visione del raffinatissimo Ritratto del doge Leonardo Loredan, vestito di una cappa di broccato cangiante.
La mostra, che espone anche molti disegni, si apre con il gigantesco Leone di San Marco le cui zampe posteriori sono immerse nell'acqua e quelle anteriori poggiate sulla terraferma, chiaro riferimento alla duplicità dei domìni veneziani. Fu commissionata, a quanto si sa, per l'ufficio del Dazio del vino, situato lungo il Canal Grande, vicino al ponte di Rialto, che aveva il compito di riscuotere le imposte sul vino in arrivo e in partenza da Venezia.
Ma è nei cicli narrativi 'confezionati' per le confraternite cittadine che Carpaccio, da grande 'storyteller', ci ha lasciato il meglio di sé. A Venezia nel Quattrocento esistevano molte di queste associazioni, note come 'scuole'. Si trattava di comunità insieme laiche e religiose, ognuna dedicata ad un santo, ed erano piccoli e grandi centri di potere dove si celebrava la messa e si organizzavano funerali, ma si distribuivano anche elemosine e cure mediche. Rese ricche dalle quote associative, le confraternite si dotarono di sedi spesso sontuose, decorate dagli artisti veneziani più noti ed importanti. Carpaccio dedicò a cinque di queste scuole gran parte della sua carriera raccontando vita, morte e miracoli di santi e martiri, che lui ambientava in quei paesaggi fantastici ispirati alla sua città natale che tanto ci incantano.
Purtroppo molti di questi teleri non si trovano più negli ambienti originari, spesso sono dispersi in varie raccolte internazionali e alcuni sono addirittura scomparsi. A Venezia, per l'occasione della mostra, è tornata La consacrazione di Santo Stefano e degli altri diaconi, ora custodita al Museo di Stato di Berlino, prima delle quattro tele dipinte dal Carpaccio per la confraternita di Santo Stefano. Riunito anche nelle stanze di Palazzo Ducale l'intero ciclo della Scuola degli Albanesi dedicata alla Vergine Maria. Nonostante si trattasse di un soggetto canonico, legato ad un'iconografia tradizionale, è impossibile non lasciarsi rapire dall'eleganza della prima scena, in cui si evoca la nascita della Vergine in una stanza da letto veneziana col soffitto a travi, dove si muovono con grazia raffinata i pochi protagonisti e dove le architetture e i dettagli, dai vasi di maiolica alle decorazioni delle pareti, infondono alla scena una soave solennità.
Altre opere e altre storie uscite dal pennello di Carpaccio sono fuori dal Palazzo Ducale, in edifici e chiese di quella Venezia che lui percorreva tutti i giorni e che ha celebrato per tutta la vita. La Pala di san Vidal, nell'omonima chiesa in campo santo Stefano, e la Cena in Emmaus, nella chiesa di San Salvador, vicino a Rialto, sono solo due esempi della diffusione delle sue opere in città. Un po' più lontano, agli Schiavoni, nel sestriere di Castello, il ciclo pittorico dedicato ai santi Giorgio e Trifone è ancora intatto nella sua collocazione originaria in quella che era ed è la Scuola Dalmata.
È qui che ormai da secoli il biondo e ricciuto San Giorgio in sella al suo destriero trafigge a morte il mostruoso drago dalla coda ritorta e dalle ali a pipistrello davanti agli occhi della supplice principessa, mentre il paesaggio ci riporta in un Oriente fantastico che Carpaccio non aveva mai visto se non nella sua immaginazione. Basta questo a meritare il viaggio nelle intricate calli di Castello, ma qui, alla scuola Dalmata, altri 8 teleri ci aspettano (due in restauro) in un equilibrio di forme e colori che fa bene agli occhi.
In questa grande kermesse dedicata a celebrare uno dei più importanti artisti del Rinascimento ci sono però inspiegabili assenze. Alcuni tra i capolavori che hanno reso Carpaccio famoso nel mondo, quali l'enorme tela del Miracolo dell'indemoniato, dipinta per la scuola di san Giovanni Evangelista e l'intero ciclo di Sant'Orsola, custoditi nella stessa Venezia, all'interno delle Gallerie dell'Accademia, non sono visibili. La decisione, se non altro bizzarra, ma certamente deludente, sembra essere dovuta non tanto al restauro delle tele, concluso già da tempo, ma a quello delle stanze che dovrebbero ospitarle all'interno delle Gallerie. Saranno pronte, forse, alla fine dell'estate. Ma allora la mostra sarà già conclusa. Ottima sincronia.