Il Paradiso Terrestre, alla sommità del Purgatorio dantesco, è il luogo della perfezione morale, della chiarezza interiore, dell’armonia con la natura. Dante osserva l’incanto dell’Eden perduto a causa dell’ardimento d’Eva, che non sofferse di star sotto alcun velo.
L’immaginazione del poeta corre ad un tempo mitico, quando ninfe felici correvano tra i boschi (le salvatiche ombre), perfettamente integrate nei ritmi naturali (Pur, XXIX, 4-6):
E come ninfe che si givan sole per le salvatiche ombre, disiando qual di veder, qual di fuggir lo sole.
L’albero, che nel Paradiso Terrestre suggella il patto tra Dio e l’uomo, è un archetipo potente, presente in quasi tutte le culture e ampiamente utilizzato nella cultura alchemica.1 Con le radici che si estendono in basso e i rami che si estendono in alto, l’albero simboleggia la connessione tra terra e cielo, e, per estensione, tra materia e spirito, tra terreno e divino. Viene associato alla crescita e alla rigenerazione, materiale e spirituale. Nell’Antico Egitto il sicomoro è l’albero primordiale, collegato all’origine del mondo e ai riti della resurrezione, in cui il defunto riceve l’acqua della dea-albero Hathor. Tra i sumeri il dio della vegetazione Dumuzi è venerato come albero della vita. Talvolta l’albero-vita si ramifica e occupa il creato, come nel mosaico di Taddeo Gaddi nel Refettorio della Basilica di Santa Croce a Firenze del 1340, o nel fregio della sala da pranzo di palazzo Stoclet a Bruxelles realizzato da Gustav Klimt tra il 1905 e il 1909.
Se il singolo albero è il simbolo della vita, ben diverso è il significato che assume la foresta, dove entità vegetali e animali riunite insieme formano una comunità a noi estranea. Nei I Promessi Sposi Alessandro Manzoni descrive con toni da incubo la foresta che Renzo attraversa per fuggire da Milano (Cap. XVII):
Procede ancora e si accorge di entrare in un vero e proprio bosco, passo che affronta non senza un qualche ribrezzo: la sagoma oscura degli alberi gli sembra spettrale e mostruosa, ogni minimo rumore lo fa sobbalzare, le gambe sembrano non reggere più e, come se non bastasse, la brezza notturna lo rende intirizzito dal freddo. La situazione lo riempie di terrore e sta per smarrirsi del tutto…
La foresta è paura, terrore, perdizione, peccato: è il mondo alieno, sconosciuto, minaccioso, fuori dal recinto della nostra cultura. La foresta di Renzo è la selva oscura di Dante, è il bosco pauroso di Hans e Gretel e di Cappuccetto Rosso, e di molte favole e racconti. È il luogo dove l’uomo smarrisce i propri punti di riferimento culturali. La foresta è il simbolo della natura irriducibile all’uomo. È la natura-altra-da-noi che resiste alla pulsione dell’Homo Sapiens di addomesticare, sottomettere e controllare ogni altra specie vivente.
Un luogo abitato da esseri estranei alla cultura umana, spesso demoniaci e malvagi, come streghe, orchi, demoni, janare e fattucchiere. Una idea di questo ambiente cupo e inquietante si ritrova nei dipinti di Henri Rosseau il Doganiere, dove la foresta è il luogo di un mistero che l’uomo non riesce a penetrare, la materializzazione del nostro inconscio, popolato da paure e da incubi fuori da ogni capacità di controllo da parte della ragione. Si veda, ad esempio, L’incantatrice di serpenti dipinta da Rosseau nel 1907, dove un’arcana figura femminile, dello stesso colore verde profondo delle essenze vegetali, circondata da serpenti e da un uccello, rompe il silenzio della selva col suono di un flauto per evocare chissà quali forze misteriose.
Nell'arte contemporanea la foresta assume un significato del tutto diverso. L’uomo contemporaneo è tormentato dal conflitto tra natura e cultura, combattuto tra il rispetto dei limiti che l’ambiente impone all’idea di sviluppo e la pulsione a superarli, mosso dallo stesso demone che spinge il giocatore di Dostoevshij a giocarsi la vita. La foresta sta al centro del conflitto, diventando il simbolo della natura distrutta da una cultura che si è voluta emancipare da essa. Esempi ne sono la foresta bruciata di Kieper (Anselm Kiefer, Winterwald, 2010) o l’installazione di Ai Weiwei, realizzata con pezzi di alberi morti venduti nei mercati cinesi (Ai Weiwei, Tree, 2009-10, 2015). Weiwei trasporta i pezzi nel suo studio e pietosamente li riassembla in forma d’albero. Una sorta di rito per espiare la devastazione prodotta da un sistema di valori che ha rotto il patto di convivenza con la foresta.
Forse, per tener conto delle ragioni della natura, è necessario riannodare i fili con le culture primitive, per cui le mille forme della vita erano manifestazioni di un’unica materia vivente plasmata dalle forze dell’evoluzione. Nel pensiero arcaico, mitologico e religioso, la metamorfosi dei viventi dissolveva ogni separazione tra naturale e umano. Era un abito mentale corrente: tutto il creato era una entità vivente in continua trasformazione.
Scrive Emanuele Coccia, a conclusione del suo libro Metamorfosi, Einaudi, 2022:
Noi viviamo la stessa vita di tutto ciò che ci circonda. Lo abbiamo scoperto quando, per la prima volta, abbiamo visto il bozzolo attraverso cui un bruco si trasforma in farfalla. Una sola e stessa vita è condivisa da due corpi, due corpi che dal punto di vista anatomico, etologico ed ecologico, non hanno nulla in comune: la loro forma e la loro vita sono completamente diverse. […] La metamorfosi è il meccanismo che permette a questi due corpi incompatibili di appartenere allo stesso individuo. Bruco e farfalla abitano due mondi completamente diversi: il primo striscia a terra, il secondo vola in aria. Il miracolo della metamorfosi è quello di una vita condivisa che non può ricondursi a una identità anatomica precisa o a un mondo specifico.[…] Tale relazione non esiste solo tra il bruco e la farfalla, ma si produce tra tutti i corpi del mondo e tra tutti i corpi viventi e la Terra. Una sola e stessa vita ci anima e non smette di modificare i corpi, di sfruttare la materia per cambiare d'abito e cesellare in modo diverso il corpo di Gaia.
Il punto di vista della vita come metamorfosi continua è dura da accettare per il pensiero moderno, asservito a una pratica conoscitiva meccanicistica, che isola i fenomeni per analizzarli senza l’interferenza di forze incontrollabili. Tuttavia, qualcosa di quella ancestrale convinzione è rimasto, depositato nel fondo della coscienza, e talvolta è emerso nell’immaginario di letterati e artisti.
Ecco alcuni esempi:
- Michelangelo nello Schiavo che si ridesta del 1525-50 coglie il momento doloroso e tragico di una forma umana che nasce dalla materia. È la metamorfosi della materia inerte che si trasforma in materia vivente. Il corpo si torce in movimenti improbabili ed estremi, proprio come nella violenza del parto.
- Nella scultura Estasi di Santa Teresa D’Avila di Bernini del 1645-52 assistiamo a una metamorfosi spirituale, all’emancipazione dalla realtà sensibile per entrare in una ultrasensibile. La protagonista della scultura è la veste della santa, che è agitata come la superficie di un mare in burrasca: è il mondo tempestoso e caotico delle passioni umane, da cui emerge, non senza fatica, il volto estatico della santa.
- Il volto del signor Dyer di Francis Bacon (Study of George Dyer, 1970) è preda delle forze invisibili della vita interiore, che provocano spasmi che lo deformano. Una metamorfosi si sta compiendo sotto i nostri occhi.
- L’ultima metamorfosi è di Medardo Rosso: Aetas Aurea, 1886. Una sola materia fluisce dalla madre al bambino: le due entità prendono forma affiorando dall’abbraccio che li unisce e li fonde in una cosa sola. L’opera ci dice che anche dopo la nascita, che ci fa esistere come individui distinti, apparteniamo a una sola comune materia della vita.
Le quattro opere appena ricordate sono forme in transizione, cioè metafome. Forme in eterno mutamento, provvisorie, come sono tutte le forme del vivente. Ci invitano a rompere le barriere che ci separano. Ci dicono che c’è continuità vivente e vivente, tra natura e cultura. Ci suggeriscono un modo di pensare per riprendere a vivere in armonia con le salvatiche ombre.
Note
1 Jung, Carl Gustav (2012), L’albero filosofico, Milano, Bollati Boringhieri.