I sette samurai (1954) è indiscutibilmente uno dei più noti ed importanti film di ogni epoca, capace di trascendere la propria connotazione geografica grazie al tipo di storia offerta. Kurosawa per il suo quindicesimo lungometraggio sceglie di tornare a dirigere un jidai-geki, un titolo con un’ambientazione storica ben precisa - nella fattispecie l’Era Sengoku, compresa tra la metà del XV secolo e la gli inizi del XVII.
Il soggetto, diversamente dal precedente jidai-geki Rashomon (1950), è originale e ideato interamente da Akira Kurosawa, che per l’occasione decide di proporre nuovamente sul tavolo temi e valori di portata universale.
La storia muove a partire da un piccolo villaggio di contadini, che viene ripetutamente preso d’assedio da un cospicuo numero di briganti; la disperazione e la rabbia spingono alcuni abitanti ad assoldare samurai disposti a difenderli. La ricerca è volta ad individuare i cosiddetti rōnin, guerrieri girovaghi senza padrone e dall’indole mercenaria, privi del prestigio che un vero samurai deteneva.
Tra i sette valorosi combattenti spicca senza dubbio lo scapestrato Kikuchiyo (Toshirō Mifune), con il suo umile retaggio, la sua triste storia e la capacità di saper sintetizzare istanze molto diverse. Tutto ciò consente di avere chiavi di lettura altrimenti impossibili da visualizzare: tale personaggio ha infatti vissuto le medesime tragedie dei contadini, avendo precedentemente sofferto la perdita dei propri affetti proprio a causa di questi pericolosi cani sciolti dediti al brigantaggio.
La sua condizione viene spesso evidenziata anche sul piano formale per mezzo di un posizionamento nel campo visivo dell’obiettivo capace di differenziarlo dagli altri sei rōnin; oppure, attraverso l’utilizzo di un’armatura troppo corta e piccola, quasi a sottolineare come il suo desiderio di diventare un vero samurai non coincida con la sua estrazione, motivo per cui la taglia non collima con la struttura fisica.
Kikuchiyo è l’unica persona capace di comprendere il punto di vista degli abitanti del villaggio, nonostante scopra come questi abbiano a lungo nascosto lance e armature di samurai uccisi in precedenza. Tale sequenza, in particolare, diventa centrale nella pellicola per far comprendere ai sei compagni d’avventura - ed anche allo spettatore - come l’astuzia e il basso profilo adottato dai contadini siano strumenti di sopravvivenza imprescindibili per questi, ormai irrimediabilmente alterati nello spirito da anni di soprusi, furti, agguati, stupri e morte.
Il personaggio interpretato da Toshirō Mifune, che da questa pellicola in poi conoscerà una grande fama internazionale, è prepotentemente fuori dagli schemi in ogni momento. L’uso di una sprezzante risata e di una gestualità caricata, a tratti iperbolica, sono elementi che lo distinguono da tutti gli altri coprotagonisti su schermo; il quadro che viene tratteggiato è quello di una maschera con tratti da Commedia dell’Arte, con una grande capacità di arrangiarsi, un istinto di sopravvivenza innato ed una forte vena antieroica capace di trasfigurarne i connotati.
È difficile pensare a una trasposizione di così tante idee e pensieri in un contesto reazionario e fedele a sé stesso come il western. John Sturges, ad ogni modo, ne I magnifici sette (1960) riesce a ricalcare le caratteristiche principali della storia, mantenendo un macrotema come la “povertà biologica” degli ultimi e la consapevolezza finale di non avere vincitori, fatta eccezione proprio per i contadini; perfino nelle modalità con cui vengono ingaggiati i cowboy riecheggia con forza il lungometraggio di Kurosawa.
Ciò che muta è invece proprio il personaggio di Kikuchiyo: Sturges, anziché tentare di emularne la profondità contenutistica, decide di fonderne le caratteristiche con quelle di un altro personaggio del film di Kurosawa, ovvero l’allievo Katsushirō (Isao Kimura), assemblandoli nel proprio film sulla figura di Chico (Horst Buchholz).
Questi difatti, oltre a celare un retaggio diverso dagli altri cowboy, è il personaggio che riesce maggiormente ad evadere le catene del genere: è giovane e volenteroso di apprendere, ma al contempo ha una profonda conoscenza del territorio e sa escogitare un metodo per far uscire allo scoperto i contadini timorosi, mostrando un’arguzia notevole. In una fase avanzata del lungometraggio riuscirà addirittura ad infiltrarsi tra i ranghi dei banditi capitanati da Calvera (Eli Wallach).
Chris (Yul Brynner) e Vin (Steve McQueen), i due volti più iconici della rivisitazione western di Sturges, non a caso incarnano i valori più tradizionali e classici del genere: la solitudine, la ferma convinzione nei propri valori, l’indipendenza, il legame viscerale con il selvaggio West e l’incapacità di amare e di cambiare.
Il finale di pellicola è quanto mai emblematico: gli antagonisti sono stati sconfitti e quattro cowboy sono rimasti feriti a morte negli scontri. I tre superstiti illustrano le diverse coordinate possibili in quel mondo tanto duro e spietato: Chris e Vin scelgono di proseguire sulla propria strada, andando incontro al destino che quel tipo di esistenza gli ha riservato; Chico, che ha vissuto i picchi adrenalinici e il terrore della morte sulla propria pelle, decide di seguire il proprio cuore e di rimanere a vivere nel piccolo villaggio con la ragazza di cui si è innamorato.
Ed è in quest’ultimo segmento di pellicola che emerge una delle principali differenze tra I sette samurai e I magnifici sette: la prima pellicola ha un finale amaro, quasi beffardo, con i tre rōnin superstiti che constatano la propria sconfitta - e la vittoria dei contadini - di fronte alle spade conficcate nel terreno in corrispondenza degli amici caduti in battaglia. Il giovane Katsushirō però, diversamente da Chico, non trova rifugio nello sguardo dell’amata Shino (Takashi Shimura), che con grande sofferenza si reca nei campi per lavorare.
Tale gesto, in chiusura di pellicola, mostra come la spaccatura esistente tra samurai e contadini non sia ancora colmabile; i dolori sofferti dal popolo sono stati troppo forti e le ferite non si sono mai rimarginate. Shino, anche per non deludere il proprio padre, decide quindi di non legarsi a una persona che certamente aveva contribuito alla salvezza del villaggio, ma che allo stesso tempo faceva parte di una classe sociale portatrice di morte e distruzione per i contadini.
Il film di Sturges, nonostante si preoccupi di mostrare una versione cristiano-cattolica dei monumenti sepolcrali, già dal commento sonoro extradiegetico prefigura un happy ending, con una presa di consapevolezza della diversità tra contadini e cowboy ma senza innescare nessuna particolare riflessione sul tema. Lo stesso Chico viene spinto dai due compagni d’avventura superstiti, con dei cenni d’intesa, a rimanere con la donna amata nel piccolo villaggio.
Chris e Vin poco dopo abbandonano il piccolo paese a cavallo in direzione delle praterie circostanti. Mantengono così il proprio status quo, non modificando la propria posizione nel mondo e scegliendo su base volontaria di non infrangere il perimetro assegnato dalla propria condizione di partenza.
Chico si pone, anche in ragione della propria gioventù, proprio nel solco dell’innovazione e del rinnovamento contenutistico del genere. Come aveva dimostrato nell’anno precedente John Wayne, vestendo i panni di John T. Chance in Un dollaro d’onore (Howard Hawks, 1959), i cowboy non erano più costretti a seguire una esistenza contraddistinta da una privazione quasi ascetica.
I magnifici sette offre quindi uno scenario dove la volontà è padrona, con degli steccati molto porosi e malleabili tra le varie classi. Ciò pare essere anche l’ennesima conferma del self-made man, di quella figura - tipica della narrazione statunitense e occidentale - capace di emergere dallo status di appartenenza con le proprie forze, trascendendo la propria condizione iniziale e il destino annesso.
I sette samurai, al contrario, mostra come il passato e la storia abbiano un peso importante nelle decisioni e nell’esistenza in senso più ampio, sovrastando totalmente i desideri e le scelte individuali: la decisione di Shino, in continuità con i pensieri del padre, è un episodio che funge da esempio per tale considerazione.
È un confronto, quello tra i due titoli, che da cinematografico diventa perciò anche culturale: pur rispondendo a coordinate geografiche, temporali e di genere ben diverse, i due film vivono e respirano dei dogmi e dei pensieri di chi li ha ideati. Si può godere del diverso retaggio da cui le due opere sono scaturite senza la necessità di porle in inutili e annose competizioni, con i registi che hanno saputo far emergere diverse scuole filosofiche sfruttando appieno le peculiarità del medium.
La forma ed i contenuti narrativi di altissima qualità permettono di visionare i lungometraggi su più livelli di fruizione, consentendo quindi agli spettatori di potersi appassionare a prescindere dal grado di preparazione filmica. Non è richiesta una conoscenza troppo elevata della materia per poter apprezzare I sette samurai e I magnifici sette; ma come per molti altri capolavori della Settima Arte, la bellezza risiede anche nella capacità di riuscire ad interagire e comunicare con diversi tipi di pubblico.