Nelle acque dell’isola scozzese di Jura, mi attende, a nord, nella masseria isolata di Barnhill, una costruzione bianca di fronte al mare, riparata da un vallone, Eric Arthur Blair meglio conosciuto come George Orwell.
Pseudonimo che coniò, per non far vergognare i genitori, dopo aver scritto Senza un soldo a Parigi e a Londra unendo il nome St. George, patrono dell’Inghilterra, e Orwell, il fiume inglese della contea del Suffolk.
Il successo è l’abilità di passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo.
(Winston Churchill)
«Questa frase, mia cara Miss, di Sir Winston dovrebbe echeggiare nelle menti di scrittori e scrittrici che col desiderio di voler pubblicare un libro, vedranno le loro opere tornare indietro rifiutate da tutte le case editrici con la puntualità di un piccione viaggiatore».
Percepii nelle parole di Orwell un misto tra ironia e amarezza e non feci in tempo a scrollarmi di dosso quella sensazione che ne ebbi la conferma.
Nel 1945 la Faber & Faber a firma di Valerie Eliot, moglie del premio Nobel T. S. Eliot, rifiutò La fattoria degli animali. Legga pure la gentile lettera di benservito riservatami:
Concordiamo che sia un notevole scritto, che la favola è trattata con grande abilità e che la narrazione di per sé mantiene vivo l’interesse: qualcosa che pochi autori sono riusciti a raggiungere, da Gulliver in poi. Tuttavia, non siamo convinti che questo sia il giusto punto di vista da cui criticare l’attuale situazione politica. I suoi maiali sono molto più intelligenti degli altri animali, e perciò sono i più qualificati per gestire la fattoria, in realtà, non ci sarebbe potuta essere alcuna Fattoria degli Animali senza di loro: quindi, qualcuno potrebbe sostenere che serva non più comunismo ma più maiali dotati di più senso civico. Sono molto dispiaciuto, perché chiunque pubblichi questo romanzo avrà naturalmente l’opportunità di pubblicare i suoi lavori futuri: e ho molta considerazione per i suoi lavori, perché lei è un esempio di scrittura di fondamentale integrità.
(Valerie Eliot)
Mia cara Miss, Per scrivere in un linguaggio franco e vigoroso occorre pensare senza paura, e se si pensa senza paura non si può essere politicamente ortodossi.
«Concordo con lei Mr. Orwell, uno scrittore politicamente schierato deve salvaguardare la propria libertà creativa da qualsiasi influenza ideologica. La scrittura è abnegazione incondizionata che oscilla tra genio, sregolatezza, ragione, logica e sentimenti. Non si può giudicare uno scrittore attribuendogli un’etichetta politica. Avrà un suo stile ma mai un’etichetta».
Ci guardammo soddisfatti per i nostri comuni pensieri.
Quali motivi lo abbiano spinto a scrivere, me li descrive mentre sorseggia del tè:
- Puro semplice egoismo
«Desiderio di apparire intelligenti, far parlare di noi, farci ricordare dopo morti, rivalerci sugli adulti che ci hanno ignorato durante l’infanzia. È ipocrita fingere che questa non sia una motivazione, e anche forte. Gli scrittori condividono quest’impulso con gli scienziati, gli artisti, i politici, gli avvocati, i militari, gli uomini d’affari di successo: in breve, con tutti coloro che occupano le posizioni più elevate. Nella loro gran maggioranza, gli esseri umani non sono fortemente egoisti. Superati i trent’anni abbandonano ogni ambizione individuale, in molti casi, anzi, abbandonano quasi l’idea di possedere un’esistenza individuale e vivono principalmente per gli altri, oppure sono semplicemente strangolati dal duro lavoro quotidiano. Ma esiste una minoranza di persone dotate, caparbie e ben decise a vivere la propria vita fino in fondo, e gli scrittori appartengono a questa categoria. Gli scrittori seri, direi, sono nel complesso più vanitosi ed egocentrici dei giornalisti, anche se meno interessati ai soldi».
- L’entusiasmo estetico
«La percezione della bellezza nel mondo esterno o, d’altro lato, nelle parole e nella loro giusta disposizione. Il piacere per il modo in cui un suono impatta su un altro, per la stabilità della buona prosa o per il ritmo di una buona storia. Il desiderio di condividere un’esperienza che senti essere preziosa e vorresti non andasse persa. Il motivo estetico è molto fragile in tanti scrittori, ma anche un saggista o uno scrittore di manuali avrà delle parole preferite che quasi fanno appello a lui per ragioni non utilitaristiche, o avrà sentimenti contrastanti per la tipografia, l’ampiezza dei margini. Salendo sopra il livello di una guida ferroviaria, nessun libro è immune da considerazioni estetiche».
- L’impulso storico
«Desiderare di vedere le cose così come sono, trovare fatti reali e tramandarli ai posteri».
- Fini politici
«La parola “politica” è usata nel senso più ampio possibile. Desiderare di spingere il mondo verso una certa direzione, alterare l’idea delle persone a proposito del tipo di società per cui dovrebbero combattere. Di nuovo, nessun libro è genuinamente immune da faziosità politica. L’opinione che l’arte non debba avere nulla a che fare con la politica è essa stessa un atteggiamento politico».
Avevo davanti a me un “mostro” della letteratura e gli occhi mi si illuminarono di gioia e lacrime.
Presi tutto il coraggio che avevo in corpo insieme pure a quello che non sapevo di avere e gli domandai, come se stessi davanti al genio della lampada:
«Maestro, in senso pratico, Come bisogna scrivere?».
L’autore di 1984 mi regalò dei consigli di scrittura, sempre attuali.
- Mai usare una metafora, una similitudine o altre figure retoriche che sei già abituato a vedere stampate in giro.
- Evita di usare una parola lunga o complessa quando una breve può sostituirla senza modificarne il senso.
- Se si può tagliare qualcosa, che non apporta valore, eliminalo.
- Mai usare la forma passiva quando si può usare l’attiva perché è più difficile da comprendere.
- Non usare una parola straniera, o del linguaggio tecnico-scientifico, o dialettale se si può pensare una piccola corrispondente nella lingua di ogni giorno.
- Infrangi pure tutte queste regole se la scelta è di dire qualcosa di “barbaro”.
«Scrivere non è un affare serio. È una gioia e una celebrazione. Dovresti divertirti a farlo. Ignora gli autori che dicono: "Oh, mio Dio, che parola?...". Ora, al diavolo. Non è un lavoro. Se è un lavoro, fermati e fa qualcos'altro».
«Concordo con lei Mr. Orwell ma che sia un libro, un articolo, un racconto, una poesia, scrivere oltre che gioia è anche sofferenza. Non trova? Le parole penetrano e lacerano. Fuoriescono zampilli di gioia o tristezza e si diventa amici o nemici dei personaggi, tralasciando fino alla fine l’autore».
Ci guardammo e annuì con gli occhi e con la testa.
Un pomeriggio da ricordare, eravamo stati bene a discutere di scrittura su quel Chesterfield marrone, usurato dal tempo. Non glielo chiesi ma immaginavo fosse uno dei posti in cui scriveva.
Prima di andare via, Orwell mi regalò A Nice Cup of Tea, un libriccino su una perfetta tazza di tè, apparso il 12 giugno 1946 sull’Evening Standard.
Lo ringraziai della bella favola spazio temporale iniziata chiedendomi: «Vuole che partiamo subito per la nostra avventura o preferisce prendere il tè?».
«Prima il tè», risposi sorridendo pensando a Peter Pan e Wendy.
Lo salutai ringraziandolo e tornai a casa. Stanca ma felice, dopo ore e ore di viaggio, mi buttai sul mio Chesterfield nero. Avevo una gran voglia di scrivere qualche pagina del mio libro sorseggiando una fumante tazza di tè di Ceylon e assaporando i consigli di Orwell.