Che importanza può avere quale saggezza usiamo per arrivare alla verità? Non è possibile che un solo sentiero conduca a tanto sublime mistero.
(Simmaco, senatore pagano, 384 d.C.)
Questo è il tema scottante che il film “Boy erased” racconta, dedicando uno sguardo attento ad un corpo vissuto come “diverso” e in trasformazione, e alle emozioni dei protagonisti alle prese con conflittualità interne e di relazione con gli altri. Lo smarrimento di Jared rispetto a quanto gli sta succedendo, lo sconforto del doversi nascondere e non potersi sperimentare liberamente nel rapporto coi coetanei, la confusione tra un sentimento di perfezione e di mostruosità, la confusione del pensiero sul sesso e sul proprio corpo rappresenta il doloroso modo per conoscersi, per individuare i suoi desideri e le sue paure, per riconoscere la sua identità. Ma non è questo il tormentoso percorso di ogni adolescente alla ricerca e scoperta di sé, sconvolto dal terrore senza nome dall’incontro con la vita?
Nella realtà, un ermafroditismo completo è molto raro, il film quindi si può leggere come una metafora della complessa ricerca di identità, personale e sessuale, che caratterizza l’adolescenza e funge da stimolo a riflessioni su questa tematica, sulla vita, sul difficile impatto con la realtà.
La storia di Jared narra il delicato percorso di separazione/individuazione che connota il passaggio dall’infanzia all’età adulta, mette in scena il lutto per l’abbandono della sessualità infantile con il suo ideale di perfezione e di onnipotenza, racconta lo strazio dell’incontro frustrante con la definitezza e la limitatezza, è anche una metafora della fantasia di poter evitare i limiti della natura umana e di eludere le differenze di genere. Esprime efficacemente l’emozione, il dolore mentale, l’eccitamento che connotano la sperimentazione adolescenziale, talvolta travolta da una sorta di ubriacatura di esperienze in cui il corpo è sovente in primo piano, proprio perché è il luogo di trasformazioni eccitanti, ma anche inquietanti perché nuove, sconosciute, disorientanti.
Questo stato d’animo ce lo racconta molto bene Kafka ne La matamorfosi, è il ”terrore senza nome” (Bion) di incontrare il proprio corpo trasformato e vissuto come estraneo e bestiale. Ma possiamo leggere il film anche come la rappresentazione dell’unicità e quindi della diversità di ciascuno, dunque si offre anche come opportunità di ricerca e di avvicinamento a quel mistero ineffabile che è la vita, alla sua imprendibilità, come già aveva intuito Shakespeare sostenendo che “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”…
D’altra parte, l’adolescenza è l’età dove la questione identitaria si fa sentire in maniera urgente ed acuta, è l’età in cui la ricerca di sé, la definizione di sé, il riconoscimento di sé anche da parte degli altri diventa un’esigenza forte, ineluttabile, è l’età in cui la percezione di sé come persona che entra ed esperisce il mondo in modo autonomo, con un pensare in proprio ed un agire in proprio, diventa una modalità nuova, spaventosa ed allettante: si tratta dell’esperienza entusiasmante e, spesso, conturbante, di misurarsi, per la prima volta da soli, con la vita.
Pietropolli Charmet afferma che: “il primo compito evolutivo che l’adolescnete deve affrontare è la costruzione dell’immagine mentale del proprio corpo. Le trasformazioni devono essere registrate e alle nuove funzioni deve essere dato un significato narcisistico e relazionale, etico, affettivo, in modo da cambiare la precedente immagine del corpo infantile ed emettere le basi del lavoro psichico che porterà alla definizione dei valori dell’identità di genere e di quella sessuale.”
È l’età in cui si struttura un senso di identità più stabile ed integrato, in cui si inizia a prendere consapevolezza della propria individualità, delle caratteristiche della personalità, dei desideri, paure, ricchezze e limiti, pur attraversando non facili guadi e barcollando tra diverse posizioni, esprimendo così l’idea di un’identità in movimento che disorienta anche chi li osserva. E a questo proposito Bion commenta: “Non è facile dire se lo stato mentale che stiamo guardando o studiando stia cadendo in rovina o stia giungendo a maturità”, proprio come di fronte a un cantiere di cui non si realizza se la casa sia in costruzione o in demolizione. Infatti non è certo compito evolutivo facile questo a cui l’adolescente è chiamato.
Il poeta mario Luzi dipinge questo processo con parole di sangue:
Schiodami, ti prego, dalla croce
Della mia identità, lasciami
A ogni causuale evento,
libero, neutrale, indivisodalla vita.
E disorientata e stupita è Emily Dickinson nella percezione di sé diversa, ma non più bambina.
Confusa solo per un giorno o due-
Imbarazzata - ma non spaventata-
Incontro nel mio giardino
Una ragazza del tutto inaspettata! Fa un cenn, e i boschi si scuotono-
Annuisce, e tutto ha inizio.
Sicuramente, in un paese così
Non ci sono mai stata!
Ma se il personaggio “Identità” bussa in maniera imperiosa in adolescenza, urgendo di essere riconosciuto e nominato, in realtà arriva da un percorso antico, lungo quanto la vita, ha origine nella notte dei tempi, addirittura ancora prima della nascita dell’individuo, la sua costruzione inizia agli albori della vita, addirittura nella vita intrauterina e da subito rivela di avere una qualità psico-somatica. Il feto, infatti, si muove e cerca una sua posizione che sia in sintonia con i vissuti psico-corporei della madre, la quale, col suo corpo e coi suoi pensieri ed emozioni, fungendo da base musicale, lo accompagnerà nelle danze creative che disegneranno nello spazio uterino i primi abbozzi della sua esistenza: sono movimenti-pensiero unici, personalissimi, intimissimi di quella coppia “mistica” dove ciascun feto mostra già di possiedere una sua personalità, quella personalità che lo caratterizzerà, in seguito, come quel bambino, quell’adolescente, quell’adulto che entrerà e si sperimenterà nella vita.
La coreografia che comporrà con la madre sarà fondante il senso di sé, è dunque dalla relazione dei primordi che si germina il senso dell’esistere insieme alla intuizione di abitare il proprio corpo, c’è dunque un corpo soggettivo, ma anche un corpo oggettivo che dipende dalla percezione e dallo sguardo dell’altro.
Freud, che ha sempre cercato di non dare definizioni assolute ai concetti che andava via via sviluppando nel corso delle sue ricerche, usò il termine identità una sola volta nella sua opera, usò molto invece il termine “identificazione”, sottolineandone il vincolo emotivo con un’altra persona affettivamente significativa. Il processo di formazione dell’identità, quindi, essenzialmente è composto da due componenti: l’identificazione e l’individuazione, nella prima la persona si riferisce alle figure primarie o comunque alle figure rispetto alle quali sente affinità o condivide alcuni caratteri e con cui stabilisce un senso del “noi”, di appartenenza, mentre con l’individuazione si differenzia dagli altri e si caratterizza per le proprie peculiarità fisiche, mentali e per la sua storia personale.
Il personaggio Identità abita lo spazio e il tempo dell’individuo e lo accompagnerà fedelmente e a volte faticosamente nelle sue peregrinazioni e nelle sue trasformazioni durante la vita. Il passaggio dall’infanzia all’età adulta è molto complesso, a volte conflittuale tra la spinta alla crescita e la nostalgia di un passato che offre garanzie di familiarità e di sicurezza.
Sappiamo che durante il ciclo vitale l’individuo attraversa parecchie fasi che implicano dei mutamenti, delle acquisizioni, degli adattamenti che concorrono a formare un Io maturo e i passaggi da una fase all’altra spesso scatenano crisi in cui si sviluppa una maggior vulnerabilità, ma anche una potenzialità più forte. Secondo Freud questo percorso è costellato dal soggiornare della libido nelle varie zone del corpo, dapprima nella zona orale, poi nella zona anale per poi investire la maggior parte delle sue energie nella zona genitale, luogo deputato alla funzione sessuale adulta. Questi avvicendamenti della pulsione libidica vengono riconosciuti, significati, organizzati dalla mente fino a costruire un’immagine del corpo che costituisce la base del senso di identità. “L’Io è innanzi tutto un’entità corporea” sentenzia Freud. “Per la psicoanalisi il corpo è superficie libidinale, campo di forze, schermo di proiezioni immaginarie, percorso di identificazione.”(Vegetti Finzi, 2001)
Lo studio della sessualità ha richiesto e richiede una costante significazione, un’elaborazione in grado di contenere e forse collegare le dimensioni consce e inconsce della vita sessuale della persona assieme all’influenza delle immaginazioni collettive e dei comportamenti sociali. Nella svolta relazionale della psicoanalisi, lo sviluppo psico-sessuale viene sempre più considerato nella sua dimensione di esperienza di rapporto con l’altro. La libido, sostiene Fairbairn, non è una forza impersonale, ma è invece strettamente soggettiva e non ricerca semplicemente una scarica, ma un oggetto con cui creare un legame.
John Bowlby che formulò la teoria dell’attaccamento, sosteneva che nel bambino ci fosse un bisogno primario di stare vicino alla madre, di percepirla coi sensi, di placare le sue angosce di isolamento attraverso il rapporto rassicurante con lei, tanto che questo bene-contatto così agognato, una volta sperimentato sarebbe stato riprodotto, in seguito, simbolicamente tramite il gioco e poi le curiosità culturali, l’inserimento nella società e, soprattutto, nelle relazioni.
Winnicott ha evidenziato la necessità del bambino di provvidenze ambientali “sufficientemente buone” affinchè la sua maturazione diventi un dato di fatto e perché possa avvicinarsi e riconoscere il suo Vero Sé. Anna Freud ha parlato di una linea evolutiva “che conduce dalla totale dipendenza del neonato dalle cure materne all’autonomia affettiva e materiale del giovane adulto”.
Bion ha chiamato rêverie la funzione materna di accoglimento, rielaborazione e riordino creativo del caos interno e della confusione vissuti dal figlio in maniera concreta e ansiogena, quei “terrori senza nome” che spesso si materializzavano come mostri, bloccando ogni spinta maturativa. Offrendo il proprio corpo-mente al suo bambino, la madre avvia in lui il processo di rappresentazione mentale della realtà interna ed esterna. Di particolare suggestione è la teorizzazione lacaniana della “fase allo specchio”, locuzione con cui Lacan intende sottolineare quel momento particolare in cui l’infante, riconoscendosi nell’immagine riflessa dello specchio, prova giubilo ed allegria scoprendo per la prima volta di essere un’unità, si conosce per davvero e la sua mente inizia a strutturare il nucleo dell’Io.
Winnicott ha dato ulteriore sviluppo a questa osservazione sottolineando come il bambino non si guarda da solo nello specchio, ma necessita della presenza della madre che lo accompagni in questa esperienza dove la superficie riflettente rimanda l’immagine di entrambi, sperimentando per la prima volta la diversità tra di loro. Vede che sono separati ed è una svolta cruciale nella sua vita, inizia ad emergere dalla fusione/con-fusione con lei e questa rivelazione produce gioia, un piacere narcisistico esaltante, si riconosce come individuo “io sono quello lì”, “io esisto” e la madre è lì con lui ad incoraggiare e a sostenere questa scoperta di sé, in un clima emotivo di condivisione e festosità.
Sempre secondo Winnicott, questo stadio presuppone un’esperienza precedente in cui l’infante si vede riflesso nello sguardo materno, precursore dello specchio. Il rispecchiamento è un meccanismo psichico fondamentale nel riconoscimento della propria identità, il lattante guardando estasiato il viso della madre, in realtà vede nei suoi occhi se stesso e questo scambio ineffabile è fondante il sentimento di sé, per cui la qualità di questo feed-back condizionerà la percezione che il piccolo avrà di sè.
I miti, le fiabe, l’arte hanno da sempre intuito l’importanza del’esperienza del rispecchiamento e hanno, come al solito, preceduto il pensiero scientifico. Da Biancaneve a Narciso, dalla Regina delle nevi ad Alice attraverso lo specchio, lo specchiarsi assume un ruolo fondamentale nel dipanarsi della storia, scatenando odi furenti o diventando gioioso motivo di ritrovamento di sé.
Anche l’iconografia religiosa raffigura molte Madonne col Bambino legati da uno sguardo che li rende un tutt’uno, in una “conjunctio mistica” che incanta per la sua potenza evocatrice ed esalta la straordinaria funzione del rispecchiamento nella costruzione dell’identità dell’individuo. Questo excursus di alcune delle fondamentali ricerche sullo sviluppo, mette in luce che ogni modello, pur partendo dai propri vertici epistemologici, sottolinea e riconosce la centralità delle interazioni corpo-mente e soggetto-ambiente nel percorso evolutivo, per cui, in stretta correlazione e a seguito dell’esito delle cure materne, si costituisce nell’infante una continuità dell’essere che è il fondamento della forza dell’Io e della costruzione dell’identità personale che si andrà rimodulando cammin facendo per tutta la vita.
Se nella società moderna lo studio della psicoanalisi si è incentrato, dapprima sulla soggettività e sulla pulsionalità come fattori determinanti lo sviluppo psicosessuale della persona, poi ha evidenziato l’importanza della relazione con l’ambiente primario per la strutturazione dell’identità sessuale, nella società postmoderna il problema dell’identità di genere è entrato in scena con prepotenza, manifestandosi come qualcosa che non si può dare per scontato, dove il sesso anatomico non è più un ovvio punto di riferimento attorno a cui costruire l’identità, ma anzi, sovente l’identità ha bisogno di esprimere valenze indefinite e complesse.
La questione dell’identità di genere si è manifestata di rilevanza tale da far definire “sexual century” il novecento, mentre il XXI secolo è considerato il “gender century” (Ethel Parson). Il concetto di genere riguarda la consapevolezza conscia ed inconscia di appartenere ad un sesso, per cui accosta al genere sessuale biologico, la percezione, il sentimento di sé, la rappresentazione intrapsichica e culturale delle caratteristiche del maschile e del femminile che non sempre necessariamente corrispondono al sesso anatomico.
Riguarda il sentimento di appartenenza al proprio corpo, alla sua abitabilità, al riconoscersi in sintonia con esso, starci bene, soprattutto sentire di essere quel corpo. L’identità di genere si configura quindi come elemento costitutivo di una soggettività che si struttura nella dimensione relazionale, precedendo addirittura e organizzando la sessualità, caratterizzandone le forme di espressione. La questione del “genere” ci obbliga a porre attenzione a ciò che è relativo, complesso, addirittura multiplo, ci induce ad ampliare lo sguardo rispetto alla formazione della struttura psichica e al suo sviluppo; la funzione mentale è ora considerata come una configurazione di stati di consapevolezza che sono discontinui, non lineari, anche se in rapporto dialettico con la necessità di un sé unitario coeso.
La questione del “genere” ci fa incontrare con l’incertezza, promuove un pensare insaturo, ci spinge ad interrogarci tollerando di non avere risposte esaustive, prevede “una non facile co-esistenza di una molteplicità di etimologie” (Ogden, 1991) Il genere si costituisce attraverso il corpo o si genera dall’esperienza di attaccamento? Oppure è influenzato dalle culture e dai rapporti sociali? “La réponse c’est le malheur de la question” ammonisce Blanchot. Nella cultura del subcontinente indiano, le persone chiamate hijra, di solito non vengono considerate né uomini né donne e hanno un ruolo di genere differente, generalmente sono individui biologicamente maschi o intersessuali, ma esistono anche individui biologicamente femmina.
Tra i nativi americani esistono categorie di genere multiple e alcune persone vengono definite “due spiriti”, sottolineandone proprio l’aspetto psichico, mentale. In Polinesia esistono persone chiamate fa’afafine, appartenenti ad un terzo sesso, sono biologicamente maschi, ma si comportano in modo socialmente considerato femminile. Sono spesso fisiologicamnete incapaci di riprodursi, non vengono trattati con disprezzo o con condiscendenza, ma vengono considerati appartenenti ad un genere naturale. È dunque da prendere in considerazione, rispetto all’identità di genere, una pluralità semantica da contestualizzare così come vengono intesi gli haddad della lingua araba, parole che contengono contemporaneamente significati di senso opposto, avvicinandosi così al linguaggio del sogno.
Freud, infatti, ne L’Interpretazione dei sogni, sostiene che “L’alternativa ‘o-o’ non può essere espressa alcun modo dal sogno; esso di solito ne accoglie i termini in un nesso, come fossero equivalenti. … Assai sorprendente è il comportamento del sogno di fronte alla categoria di contrasto e contraddizione. Questa viene semplicemente trascurata, il ‘no’ sembra non esista per il sogno. Con singolare predilezione i contrasti vengono riuniti in un’unità o rappresentati insieme”. Non a caso secondo Lingiardi il genere è costituito della stessa stoffa di un sogno, di fatto molto facilmente assume una forma mitologica. Possiamo fare un sogno sul genere rappresentandocelo come un mito freudiano di attività/passività, o come un mito junghiano di Animus/Anima.
O ancora come una chimera cibernetica postmoderna. I biologi definiscono “chimera” l’assemblaggio organico di elementi tratti da specie diverse. Eli Coleman, nel convegno di Roma del 2000 organizzato dall’ONIG (Osservatorio nazionale per l’identità di genere), ha espresso così il suo punto di vista: “Ci sono vecchi paradigmi nel pensare alla disforia di genere che si sono estinti e sono emerse nuove idee: prima di tutto prendiamo in considerazione il vecchio concetto secondo cui i sessi sono due. Gli storici direbbero che in altre culture non sono mai stati soltanto due. Ma soprattutto … la riscoperta di altre culture in cui era previsto un terzo, quarto, quinto sesso, non possiamo più pensare che esistano due sessi.
Anche il vecchio concetto secondo cui le persone possono essere classificate come transessuali, transgender, eccetera, è superato, ci sono ampli spettri di identità di genere.” Ed ecco come Joyce Mc Dougall (1988), ci stimola e ci inquieta creativamente con questi suoi audaci interrogativi che, con mente visionaria e intuitiva, già poneva e si poneva negli anni ’80: “… E come accettare quella mostruosità costituita dalla differenza dei sessi che colpisce lo sguardo? … Il sesso lo si subisce, come la morte. …gli scenari facenti parte del registro della neosessualità, fino all’estrema sfida del transessuale lo testimoniano. Come non capirli? …”
Queste visioni richiedono allora un’apertura nel pensare all’identità di genere, che non sia solo vincolata alla binarietà maschio/femmina, attività/passività, ma una disponibilità a considerare e a prestare ascolto anche alla molteplicità, all’inclusività, a possibilità altre, tollerando “il terrore dell’ignoto” nell’incontrare questo tema scottante, scottante perché è qualcosa che riguarda la persona nella sua interezza, il sentimento di sè, la sua espressione nelle relazioni intime e nel sociale, in pratica il suo essere persona viva, la sua umanità. Siamo brutalmente esposti ad un nuovo panorama psico-sessuale, imprevedibile, disorientante, forse anche impensabile: il nostro sguardo brancola attonito, spaventato, confuso, cercando punti di riferimento che appaiono evanescenti e improbabili.
Mai come in questa situazione è appropiato il suggerimento di Bion di esercitare la “capacità negativa”, cioè poter sostare nel dubbio e nell’incertezza, senza lasciarsi andare ad un’agitata ricerca di fatti e ragioni, sopportando il limite del non capire, accettando il dolore mentale della confusione, permettendosi addirittura di avvolgere la verità emotiva sconosciuta da un raggio di intensa oscurità. (Freud) Siamo chiamati a dover gestire uno spazio mentale affollato in modo selvaggio da nuove entità, diverse identità, e imprevedibili visioni.
Secondo Lingiardi è nella relazione, è cioè nel riconoscimento dell’altro che possiamo stare nella tensione tra la moderna preoccupazione di coesione, riconoscendo quindi significato alle fasi evolutive della psicoanalisi classica e l’attenzione postmoderna alla molteplicità e all’inclusione. L’individuo che cerca la propia identità è alla ricerca della sua verità, tutta l’esistenza è volta a cercare di avvicinarsi alla verità ultima …
Il pellegrino è colui che cerca, accettando l’incalcolabile rischio di trovare veramente. Perché trovare significa non essere più quello che si era prima. È cambiare. È morire. Per rinascere. (Antoine de Saint-Exupéry)
Alla fine del film, nonostante esperienze amorose, amicali, sociali mortificanti (stupri, dileggi, emarginazione), parlando col padre della sua tormentata situazione identitaria, che si è rivelata ormai non più solo come una questione di genere, ma di identità umana, Jared ha il coraggio di riconoscersi e di affermarsi come persona